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Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
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I monti del Cantal
In fondo ai monti del Cantal, di sera,
guardiamo la casa più vecchia di Saint-Flour.
E’ stato un uomo a tenere la casa per noi.
A poco a poco ha comperato
le cose che sapeva di un tempo e di un altro. E adesso è così.
Siamo entrati l’indomani. In basso
c’era un po’ di archeologia del posto,
e poi del legno, pavimenti, armadi
dei contadini del Cantal.
Poi ho voluto comperare le fotografie di Jacques Dubois, Les Auvergnats.
La notte abbiamo dormito bene per l’aria fresca
che c’è sempre anche d’estate. E ho visto un carro con i buoi
che andava via per l’occidente:
solo hanno le musiche e sanno sognare con forza i giorni
nell’Europa dell’est, credo di averti detto.
Abbiamo mangiato cose delicate e cercato di ricordare il vino,
poi ti ho parlato, mi hai detto senza capire cosa,
la mattina quando ti sei svegliata
triste e come disperata per la mia vita.
Matrimonio al rifugio Fodara Vedla
E’ il giorno che pare di condividere la terra con i fiori,
il fiore tenerlo vicino al cuore perché parli.
Ognuno beve in alto il suo bicchiere,
ognuno è bello e pensa che i corpi sono in mezzo ai fiori,
i prati alti sopra ogni cattiva idea del mondo.
Nessuna storia toglierà le erbe dalla roccia,
un altro cielo non sarà il nostro ma la memoria
perché altri vivano e chiedano dopo di noi
le nostre stesse cose:
com’era per loro che erano tutto
innalzati sopra la terra?
Nessuna cultura toglierà le mani alle mani,
la pelle ai vestiti.
Difendiamo anche nella disputa le nostre vite,
ci difendiamo da chi vuole altre cose,
si cerca di venire a un patto,
di non farci troppo del male.
[M. Benedetti, Umana gloria, Mondadori, Milano 2004]
apoteosi! la mia preferita rimane però
“la ghiaia per far sapere che la casa e bella”.
s.
la casa E’ bella
Penso, a posteriori rispetto alla raccolta Umana gloria, che la parola indifesa e colloquiale ma spaesante sia quella dell’uomo che muore, noi moriamo con queste parole, con queste pause del respiro; non quelle parole della macchina linguistica troppo bene oliata, e magari letterariamente “superiori”: ho pensato (e sentito) la forma che avvicina alle ultime parole pronunciate o ad un ultimo discorso, al colloquio senza interlocutore, interattivo ma in totale perdita rispetto al richiedere del dire, allo sconcerto , all’incredulità, alla pietà, all’inermità desolata. Qui io sono Soggetto in quanto responsabile della parola, della forma versale e strofica, dei suoi silenzi; di questa poesia e non di un’altra. Senza umiltà e senza orgoglio in questi tempi oltremodo bui e per certi versi senz’altro nuovi.
devo al libro di Mario la mia rinascita – anche se lui ha parlato di parola dell’uomo che muore – e non posso far altro che ringraziarlo, cento e cento volte, così come del privilegio che ho avuto di passare qualche ora in sua compagnia.
Sul Soggetto in “Le Parole e le cose”:
Maria Grazia Calandrone: “Io da tempo ho iniziato a coltivare una allergia nei confronti dell’io narrante (specialmente nella contemporaneità: non la trovo una assunzione di responsabilità bensì una conferma politica di solitudine)”.
Gianluca D’Andrea: “il soggetto poetico non è immerso in un “mondo” ma resta fuori da ogni “campo” d’azione e si limita ad essere mero chiosatore degli avvenimenti (niente di male nel mondo “claustrale” in cui ci troviamo a vivere”
Alessandro Broggi: il critico Benjamin Buchloch definiva l’artista un “sapiente/filosofo/artigiano” che consegna alla società “i risultati del suo lavoro”. A parer suo, questa figura succede a quella dell’artista come “soggetto medianico e trascendentale”.
Grazie a Mario Benedetti per questa dichiarazione di responsabilità.
Io Mario Benedetti lo ringrazio di esistere, proprio… Perché è evidente a cosa la sua poesia non sfugga, che solitudine nostra si carichi sulle spalle. E come ce la renda, completata dalla sua adesione, fatta meno tagliente.
@Mario Benedetti
28 dicembre 2011 alle 22:20
Premessa. Mi scusi, De Benedetti. Io non sopporto il silenzio della critica neppure sotto le feste di Natale e Capodanno. E non veda in quanto di seguito scrivo una banale provocazione (anche se questa somministrazione concentrata di dolciumi poetici natalizi per permette delle tranquille vacanze ai redattori di LPLC mi pare una pessima scelta…).
Le chiedo: come fa a non discendere da una nobile ( e “superiore”) posa letteraria questa sua affermazione che *la parola indifesa e colloquiale ma spaesante sia quella dell’uomo che muore”.
Mi spieghi pure, per favore, anche *senza umiltà* e con tutto l’orgoglio che vuole in che cosa questi tempi sono per lei *oltremodo bui e per certi versi senz’altro nuovi*.
Solo questo: per me Umana Gloria è stato un libro decisivo. Bello, bellissimo. Fra i primi tre non solo del decennio, se ha senso usare il paragone per indicare una bellezza grande.
Caro Abate, io non la conosco e sotto Natale si è molto più buoni, così si dice. Non mi metto a discutere. Mi perdoni, e se vuole ripensi a quanto ha scritto. Io farò del mio meglio per restare zitto.
Caro Benedetti, non credo che, per discutere, bisogna che lei “mi conosca” o che io “la conosca”. Potremmo cominciare a conoscerci già adesso, appunto discutendo. Ho letto le poesie qui pubblicate e ho posto, gentilmente credo, delle domande. In questo Paese possiamo ancora parlare, anche se siamo già avvolti da troppi silenzi. Non aggiunga i suoi. (E poi non è vero che “sotto Natale si è molto più buoni”…).
Personalmente, ritengo che nulla abbia avuto un così forte impatto sul panorama poetico italiano degli ultimi quindici anni come i versi di Mario Benedetti. La ricerca di questo autore si è mossa infatti in territori precedentemente poco o per niente conosciuti: il senso di «ultimità» (per dirla con Raboni), la lacerazione dell’io, la rilevanza dei processi cognitivi nel rapporto io-mondo, il superamento della dicotomia tra parola e silenzio sono solo alcune delle questioni fondamentali che la poesia di Benedetti ha avuto il coraggio di affrontare.
D’altronde il peso che l’opera di Mario Benedetti ha nella produzione poetica contemporanea è evidente sia nell’adozione di stilemi benedettiani da parte di poeti che hanno esordito ben prima di lui sia nella fioritura, qua e là, di veri e propri imitatori.
@ Giorgio M.
Non capisco neppure lei, allora. E sperando che non scelga il diplomaticissimo “silenzio per festività” le chiedo:
1. come valuta il “panorama poetico italiano”?
2. perché lo limita agli ultimi 15 anni?
3. come fa a dire che *ultimità*, lacerazioni dell’io etc. siano “territori precedentemente poco o per niente conosciuti” e comunque decisivi dopo i tanti sguazzamenti novecenteschi più o meno in pose heideggeriane e poi le “derive” postmoderne?
4. il peso di un poeta si misura dal numero dei suoi imitatori indipendentemente da una valutazione di ciò che viene imitato?
Scusi, Abate, ma lei ha letto Benedetti? Che ne pensa delle sue poesie – e non delle chiose che scrive? A me pare che lei faccia solo discorsi sui discorsi. Che quando parla di letteratura si parli addosso, senza degnarsi nemmeno di dare uno sguardo all’oggetto di cui si discute. E badi bene che non si tratta di un problema critico-letterario, secondo me, ma eminentemente politico. Ormai ho ricavato una retorica precisa, inossidabile dei suoi interventi: mettiamo che X dica Y. Lei arriva e lo mitraglia con una sfilza di interrogativi sempre uguali, alla Marzullo: “come fa X a dire che Y sia vero? Siamo proprio certi che X sia una fonte autorevole? Non è che Y è tutta una mascheratura che favorisce il Potere? Che X partecipa a un complotto di plutocrati?” E via dicendo. Senza accenni di variazione. Senza alcun esprit de finesse. Lei mi dirà che l’esprit de finesse lo lascia ai letterati, che lei fa la guerra. Io credo che questo sia l’errore che le ha fatto perdere la guerra fin dall’inizio.
Il fatto che Abate abbia anche sbagliato il nome del poeta chiamandolo De Benedetti fa capire parecchie cose e sicuramente di Mario Benedetti avrà letto solo le poesie qui presenti (altrimenti non si capirebbe l’inutile replica fatta all’intervento di Giorgio M.)
Ma mi preme dire una cosa, senza per questo voler criticare il lavoro di chi si occupa di questo sito: questo sistema di “dialogo”, basato su una serie di commenti frutto di interessamenti estemporanei credo che a lungo andare logorerà l’intento di diffusione culturale che il sito stesso si era prefisso. Questo continuo chiacchiericcio, questo susseguirsi di commentini spesso poco o per nulla interessanti, tra cui “bello; mi piace molto: grazie di esistere; ecc…” sono oltremodo DANNOSI per l’affermarsi di una discussione seria ed importante. Mi dispiace dirlo ma così non si andrà mai oltre al noioso botta e risposta che già ben conosciamo su facebook.
In amicizia
@Luna
Intervengo perché il Suo commento nella seconda parte reca indicazioni di carattere generale, e in merito a quelle mi sento spinta a rispondere.
E’ vero che i “commentini” abbassano il livello critico. Tuttavia, va notato – e i post di questo sito lo dimostrano ampiamente, in alcuni casi; esempi del genere se ne trovano anche altrove, comunque – che quando qualcuno ha espresso (come libertà personale consente) un parere non del tutto favorevole, ancorché ben argomentato, al contenuto del post, spesso si è degenerato in rissa o stizza verbale, e non solo per volontà degli altri commentatori, bensì anche degli autori in oggetto.
Il fatto è che l’atmosfera prevalente (ci saranno poi valenti eccezioni) nei lit-blog, o cultural-blog più in generale, è un po’ la stessa: o dici che è bello, o è meglio che stai zitto (semplifico brutalmente per esser chiara).
Dunque, per questo motivo molti leggono e passano oltre. Chi trova che questa risoluzione non giovi all’instaurarsi di una “discussione seria e importante” – e ne ha tutte le ragioni – fino al punto da denunciarlo apertamente, perché non lascia per primo un suo contributo costruttivo, al fine di contribuire a che tutto non diventi un “noioso botta e risposta che già ben conosciamo su Facebook”? (mi chiedo spesso, leggendo commenti categorici come il Suo, chissà se Lei o qualcun altro di passaggio potrà spiegarmelo).
Cordiali saluti.
@ Fiorella D’Errico
Cosa determina quello che lei chiama “L’atmosfera prevalente” nello spazio dei commenti? E’ certamente vero che ci sono autori più permalosi di altri, e contenuti più o meno adatti a essere discussi, ma in definitiva a me pare che il fattore decisivo resti quasi sempre lo spessore e il tono del commento – soprattutto del commento negativo. Ad esempio, uno dei thread a mio avviso più interessanti svolti su questo sito (questo: http://www.leparoleelecose.it/?p=2431) ha preso subito una piega molto critica nei confronti dell’articolo che ne era all’origine; ma la civiltà, l’intelligenza, la passione di chi ha commentato – e dell’autore che ha replicato – hanno dato vita a un confronto vero, a una discussione utile. Le osservazioni critiche erano gentili, proporzionate e razionali; guarda caso anche le repliche lo sono state.
Nessuno pretende che sia sempre così. Ma sarebbe bello se fosse così più spesso.
@Gianluigi Simonetti
Che è dire in altre parole quel che ho significato anch’io. E, Lei lo afferma in conclusione, non succede spesso; diciamo che quando accade è un’eccezione, o non ce la ricorderemmo per citarla a mo’ di esempio?
Chi crede valga la pena impiegare passione, civiltà, intelligenza e spessore nei commenti dei blog, è per me encomiabile; specie se ne dà anche esempio in concreto (questo rispondevo a Luna).
Grazie dello scambio.
Rispondo ai quesiti che mi pone Ennio Abate.
1) La prima domanda mi risulta un po’ ambigua. Se mi sta chiedendo un giudizio di valore, ritengo che l’attuale panorama poetico italiano sia vitale e che la polifonia di voci al suo interno costituisca un elemento fondamentale per la sua evoluzione.
2) Spero che la seconda domanda non sia uno scherzo, visto che mi sembra ovvio il motivo per cui parlo della poesia italiana degli ultimi quindici anni: per indicare il ruolo che vi hanno le opere di Mario Benedetti.
3) Le chiedo scusa, ma per me le categorie dei «tanti sguazzamenti novecenteschi più o meno in pose heideggeriane» e delle «“derive” postmoderne» restano prive di referenti concreti e oggettivi, dacché potremmo includere in tali gruppi tutto e il contrario di tutto. Quello che io so è che i presupposti tematico-espressivi da cui parte la poesia di Mario Benedetti non sono propriamente tipici della tradizione italiana, mentre i risultati cui giunge sono del tutto inediti. Maria Grazia Calandrone, analizzando le ‘Pitture nere su carta’, ha scritto: «Credo che questo libro fondi per tutti noi una nuova lingua». Sempre riguardo alla stessa opera, un critico letterario ha sostenuto che «è l’impossibilità di attingere il “significato” delle parole il motore immobile di questo linguaggio poetico, che si muove sul limen tra un al di qua e un al di là, tra un progetto di impianto lirico dopo l’età della lirica e un prodotto di narratologia dopo la caduta delle grandi narrazioni». Sa chi è questo critico? Giorgio Linguaglossa, di cui lei, Abate, spesso condivide le teorie. Questo per dirle che non sono il solo a pensare che l’opera di Mario Benedetti sia profondamente innovativa e, sì, anche decisiva per il panorama poetico italiano. Infatti credo che chiunque voglia scrivere versi in Italia non potrà non tenere conto della ricerca condotta in ‘Umana gloria’ e nelle ‘Pitture nere su carta’.
4) La quarta è una domanda retorica. Ovviamente non si può prescindere dalla «valutazione di ciò che viene imitato», ma sta di fatto che il peso di un poeta in un contesto culturale si misura ANCHE attraverso il numero dei suoi imitatori. Per fare un esempio piuttosto banale, Montale ha avuto così tanti epigoni (consapevoli e no) che qualcuno è arrivato a dubitare della possibilità di comporre versi senza rivelarsi almeno in parte montaliani. Se la poesia di Montale ha costituito e continua a costituire un punto di riferimento ci sarà un motivo, no?
Adesso, Abate, se posso permettermi, vorrei farle io qualche domanda, nonostante Ex (di cui condivido l’intero commento, che sottoscrivo) abbia anticipato le mie perplessità. Lei conosce la poesia di Mario Benedetti? Ha letto almeno ‘Umana gloria’? Sa di cosa stiamo parlando? Qualche dubbio è lecito, dato che – come ha già notato Luna – nel suo primo commento lo ha chiamato «De Benedetti». Sia chiaro: a me fa molto piacere che esistano spazi come questo in cui si può discutere civilmente e in piena libertà, però dobbiamo metterci d’accordo sugli argomenti da affrontare. Per questo non credo sia utile lamentare la presenza di presunte incongruenze, inesattezze e oscurità in questi commenti se i commenti rimandano non solo ai tre testi qui pubblicati ma all’intera opera di Mario Benedetti, che lei evidentemente non conosce. Leggendo quello che scrive mi sono fatto un’immagine di lei: mi sembra un turista che va in una nazione straniera e protesta perché lì non hanno le sue abitudini e non parlano la sua lingua. Se il nostro metro di giudizio siamo noi stessi e la nostra ideologia precostituita, qualsiasi parola altrui diventa criticabile. Si tratta però di un comportamento sterile che nel migliore dei casi ci fa apparire ridicoli. Per farle capire meglio cosa intendo, sottoporrò al «metodo Abate» il suo primo commento:
@ Ennio Abate
Mi scusi, Abate, non capisco alcune sue affermazioni. Le chiedo:
1. cosa intende esattamente per *silenzio della critica*?
2. lei parla di critica letteraria o di critica tout court?
3. lei è un critico? se sì, di che tipo?
4. non crede che il riferimento alle *feste di Natale e Capodanno* tradisca un’adesione ai meccanismi delle società basate sul sistema di produzione capitalistico?
5. quando una provocazione può definirsi “banale”? la sua è o no una provocazione? se lo è, perché non è banale?
6. come fa a dire che la pausa natalizia sia finalizzata a permettere *delle tranquille vacanze ai redattori di LPLC* e non invece delle vacanze scatenate? ha qualche prova di quanto sostiene? è forse contrario a uno stile di vita frenetico?
7. in che modo la *somministrazione concentrata di dolciumi poetici natalizi* può essere una *pessima scelta*? non le piacciono i dolci? non le piace la poesia? non le piace il Natale?
8. non le sembra una grossa contraddizione (o, al limite, il sintomo di una patologia) essere il frequentatore più assiduo di un luogo che biasima disapprova detesta nel peggiore dei modi?
Non voglio proseguire con il numero dei commenti che secondo me per le mie poesie postate (e ringrazio la redazione) sono già troppi: però soltanto due cose, ma è così facile fraintendere, scusatemi, una riguarda il “parere non del tutto favorevole, ancorché ben argomentato” che qui nei commenti io non ho visto (magari ci fosse stato), l’altro l’attribuita permalosità che non mi appartiene. E’ poi vero che parlare di poesia oggi è assai difficile, soprattutto in questo effimero spazio, per esempio cosa si può rispondere a chi chiede come se fosse una novità e con improntitudine come mai e con quali ambiguità un libro influenzi altri libri… a me pare ingenuo chiedere così. Dunque di conseguenza il commento di Luna che dice: Attenzione! Attenzione!, mi sembra un discorso purtroppo richiesto dalla situazione creatasi.
@ Fiorella D’Errico.
Concordo con te sul fatto che su LPLC, un blog che mi piace molto e che trovo davvero stimolante, avviene tuttavia, più spesso di quanto non si desideri, che i “dissidenti” si trovino ad essere oggetto di attacchi o ironie graffianti. (Es. “Lei è un critico? e se sì, di che tipo?” non credo si debba avere la patente di critici letterari per dire la propria su un sito web. Tanto meno se poi in giro ci sono fior di critici, letterari e d’arte, che ne sparano delle belle).
Trovo che sia grave quando sono gli stessi autori di un testo a non tollerare la critica e si scagliano contro chi non li ritenga dei giganti. Ho molto ammirato invece il modo in cui Maria Grazia Calandrone ha gestito dei commenti un po’ – per usare un eufemismo – “bizzarri” (è stata brava a capire cosa dicessero, perché io non ci avevo capito una parola). Un modo elegante, misurato. Da grande signora.
D’altra parte non è nemmeno costruttivo scatenarsi in commenti da talk show, alzando la voce o provocando.
@ Giorgio M.
Se “il peso di un poeta in un contesto culturale si misura ANCHE attraverso il numero dei suoi imitatori”, D’Annunzio, tanto per fare un esempio, è stato uno dei poeti più imitati o a cui si è guardato (magari senza dirlo e zitti zitti quacchi quacchi) di tutto il ‘900. Con buona pace di chi D’Annunzio lo criticava con astio senza averlo mai letto – a parte qualche cosa di Alcyone.
Io, invece, concludo definitivamente dicendo al gentile Mario Benedetti che, appunto, sui pareri non del tutto favorevoli, ancorché ben argomentati, ho espresso proprio il suo stesso desiderio: “(magari ci fosse stato)”.
Non mi sarò spiegata bene, certamente. Tuttavia, grazie della risposta.
@Mario Benedetti
Per quanto mi riguarda non le attribuisco nessuna permalosità; quando parlavo di autori più permalosi di altri non mi riferivo a lei – anche perché il mio discorso non era legato allo svolgimento di questo thread in particolare.
@Fiorella D’Errico
Grazie a lei. Però un piccolo scarto tra le nostre posizioni c’è. Lei sembra credere che le responsabilità delle risse vadano equamente suddivise tra autori e lettori, e che sia tipico del blog letterario scoraggiare il commento negativo. Io invece penso che molti dei collaboratori di questo sito, per come li conosco, sarebbero ben lieti di ricevere critiche anche dure, purché “gentili, proporzionate e razionali”; o anche solo “ben argomentate”, per citarla. Inoltre rispetto a lei mi sento più indulgente nei confronti degli autori, perché sospetto che non ci sia un rapporto equo tra la fatica che occorre per articolare un pensiero, o creare una forma, e quella che basta a scrivere un giudizio rapido e sprezzante.
Cara Francesca Diano, forse non ha letto per intero quello che scritto. Gli otto gruppi di domande finali del mio intervento precedente tentano di riprodurre l’approccio tipico di Abate proprio per evidenziare quali siano i modi a mio parere scorretti di stilare un commento e come siano facili da adottare.
Vorrei inoltre sottolineare che qui né i commentatori né l’autore dei testi si sono scagliati contro quelli che lei chiama «dissidenti». Anzi, secondo me è encomiabile il comportamento di un autore che preferisce non replicare piuttosto che lasciarsi coinvolgere in polemiche inutili.
Quanto a D’Annunzio, con questo esempio lei corrobora ulteriormente ciò che volevo dire.
Caro Giorgio M. , non ho detto che l’appunto sulla poca tolleranza dei “dissidenti” fosse riferito a questo particolare post.E’ evidente che no. Era piuttosto una considerazione generale, che del resto era stata già sollevata altrove su LPLC. Ed è una cosa che mi dispiace perché si può dissentire tranquillamente da giudizi estetici quali: “un gigante, mi ha cambiato la vita, bellissimo, ecc.” o peggio platealmente laudativi, che non sono appunto corroborati da alcuna analisi critica o esegesi (al pari di quelli semplicemente negativi, senza argomenti di sostegno). Ma se si desidera affermare il proprio punto di vista, bene sarebbe rispondere ad analisi con analisi. E lo si può fare senza berciare, né doversi attendere di suscitare vespai. Ma questo non è un problema di LPLC. E’ generale.
Quanto alle domande, convengo che le sue siano un’ironica risposta in stile abatiano (uno stile che però ha il merito di essere originale e spesso divertente, proprio perché provocatorio in modo spiazzante). Però, sa, per quanto mi riguarda – e questa è una cosa del tutto personale – io amo le domande più delle risposte. In fondo tutta la conoscenza nasce da domande, molte delle quali non hanno risposte o non le hanno definitive.
Per il mio esempio su D’Annunzio, certamente voleva confermare la sua tesi, ma spero lei ne abbia colto tutta, proprio tutta, l’ironia.
Intanto le auguro sinceramente un bellissimo anno nuovo.
Letterine di fine anno
*Ovunque il guardo io giro
Immenso IO ti vedo…*
Letterina n.1.
Cari/e redattori/trici e cari commentatori/trici di LPLC,
innanzitutto cosa posso augurarvi per il prossimo anno se non commentatori meno compiacenti e telegraficamente plaudenti del tipo “un gigante, mi ha cambiato la vita, bellissimo, ecc.” (Francesca Diano) ma più critici, e cioè dissidenti, corrosivi, cattivi?
A me pare un ottimo augurio. Non vedete che dei “dissidenti della prima ora” sono rimasto quasi solo io? Dove sono finiti Signorina Else, Averroè, Donnarumma, Larry Massino, Linguaglossa, che mi facevano sentire in buona compagnia!
Voi avete bisogno di critica (leggera, classica, pop, rock) e non di menti votate all’ apologia degli amici e dei poeti amici. Vi farà un gran bene, se non scambierete la critica per invidia, se riuscirete a sopportarla, non dico a considerarla il sale della cultura, della poesia, della politica, della vita. E se imparerete a non precipitarvi per correggerla, azzittirla, eluderla con la strategia del silenzio. Criticate e fatevi criticate perché, A FORZA DI NON FARLO PIU’, in questo Paese il Re è nudo, anzi nudissimo; e nessuno se n’accorge più..
Letterina n.2
Cari commentatori/trici di questo post,
1. il mio primo commento non era riferito direttamente né alla raccolta di Benedetti “Umana gloria” né alle sue poesie qui pubblicate, ma esclusivamente al di lui commento del 28 dicembre 2011 alle 22:20. Finora sulla sue poesia e su queste poesie non mi sono pronunciato. (Lo farò più avanti nella Letterina n.4). Certo avevo ed ho dei dubbi sul fatto che, come scrive Giorgio M., : *l’opera di Mario Benedetti sia profondamente innovativa e, sì, anche decisiva per il panorama poetico italiano. Infatti credo che chiunque voglia scrivere versi in Italia non potrà non tenere conto della ricerca condotta in ‘Umana gloria’ e nelle ‘Pitture nere su carta’*.
Sono permessi ancora dei dubbi in Italia? E su LPLC? Se ne può discutere sia pur nello spazio risicato e scivoloso dei commenti? E concedendomi di essere – bontà sua ancora a Giorgio M. – * il frequentatore più assiduo di un luogo che biasima disapprova detesta nel peggiore dei modi*, senza etichettare le mie (rivedibilissime) critiche come *sintomo di una patologia*?
2. Considero tuttora legittime le due domande che ho rivolto a Mario Benedetti. Sì, erano provocatorie (ma in un senso per me positivo, non gratuito). E gliele ho fatte in termini, credo, urbani. Memore anche degli inviti alla “moderazione” della redazione di LPLC, ho architettato persino una premessa che intendeva “addolcire” la provocazione. Niente da fare. Il pro-vocato non si è degnato di rispondermi.
Letterina n.3
Caro Giorgio M.,
le rispondo puntualmente e volentieri perché almeno lei ha dimostrato una certa volontà di confrontarsi schiettamente:
1. Sì, la mia prima domanda (interlocutoria) chiedeva un suo giudizio sulla poesia italiana d’oggi. Volevo capire (visto che non la conosco) quale interlocutore avevo di fronte. Sapendo ora che lei considera *vitale* l’attuale panorama poetico italiano e la sua *“polifonia di voci”*, posso misurare meglio le distanze tra noi. Io, infatti, non ho un’opinione così positiva. Vedo in giro spinte caotiche e contraddittorie al posto della sua *“polifonia”*. Noto troppe ambiguità e vecchi vizi. E per il momento mi attesto su un atteggiamento di cauta apertura a questa produzione di “moltinpoesia” d’ogni tipo e d’ogni età.
2. No, con la seconda domanda non scherzavo. Per me un quindicennio (l’ultimo poi!) non è tempo sufficiente per misurare il valore di un poeta. Contrasto – appena posso e da tempo e in tutti i campi (politici, culturali, sociali) – la tendenza a un’ottica tutta “generazionale”. Posso pensare che, dato il diluvio seguito agli anni Settanta, sia difficile da evitare, specie se si è giovani. Temo, però, che venga subìta anche dagli anziani e, diventando un dato quasi “naturale”, ci sta rendendo tutti miopi e bloccati. Ridurre l’osservazione e la valutazione delle cose agli ultimi decenni appena trascorsi o agli anni della propria biografia, taglia fuori il confronto e la conoscenza indispensabili del “tempo degli antenati”, di quella che una volta poteva essere chiamata Tradizione. La quale, ora che s’è interrotta o è stata seppellita, per me comunque “fa problema” (Da cosa è, infatti, stata sostituita?).
Per essere limpido e far esempi precisi e vicini (e indipendentemente dai giudizi di valore espressi nei libri che sto per citare), ho apprezzato lo sguardo lungo di Zinato in “Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni” o quello di Linguaglossa in “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945 – 2010); e meno la scelta di “Parola plurale” (2005) a cura di Cortellessa ed altri, che del 1975 faceva uno spartiacque per trascurare il confronto tra quanto scritto dopo e quanto scritto prima di quella data.
3. Anche su questo punto siamo distanti. Sono vecchio. Ho, dunque, seguito la valanga del dibattito restaurativo, che ha invaso gli orti universitari ed ha “sdoganato” il nazista Heidegger, ha “demarxistizzato” Benjamin, ha imposto con il postmoderno (una categoria tuttora alla moda) al posto della serietà (detta ‘seriosità’) la giocosità carnevalesca e l’azzeramento (astorico) delle distinzioni fra epoche e stili o fra nazismo e comunismo (ficcati nella unica categoria del “totalitarismo”). Lei forse è giovane e può pensare “naturalmente” che sia possibile includere * in tali gruppi tutto e il contrario di tutto*. Io no. Spero, comunque, che ci si possa confrontare in future occasioni e cercare d’intendere meglio le nostre posizioni “di partenza”.
4. Non nego l’influenza di Montale. A me, però, interessa poco misurare *il peso di un poeta in un contesto culturale […]ANCHE attraverso il numero dei suoi imitatori*. Nell’opera di un poeta m’interessa stabilire se c’è “alimento” per un’interrogazione ampia, radicale e profonda- guardi un po’! – su “le parole e le cose”. E, allora, tanto per dirle, a Montale preferisco Fortini, del tutto trascurato e con pochissimi o niente imitatori. Tutto dipende, perciò, da che cosa uno chiede a un poeta o alla poesia. Gli stuoli di seguaci plaudenti o di imitatori a me non dicono nulla. Dovrei allora esaltare la TV che se n’è accaparrati milioni. Non ci sto.
E passo a rispondere alle domande che mi ha rivolto:
No. Ed ammetto senza scorno che ho confuso il cognome Benedetti con quello di Giacomo De Benedetti. E con questo? Io non conoscevo fino ad ieri Mario Benedetti. Come lui (mi sono già permesso di fargli notare) non conosceva me. E con questo? Lei crede, forse, che anche poeti più citati o con maggiore “visibilità” mediatica di Benedetti siano conosciuti al di là della cerchia dei loro estimatori più vicini? O crede che Benedetti o altri conoscano i poeti che, secondo me o altri, sono degni di essere letti e conosciuti? E poi, come ho già detto a Benedetti, ci potevamo cominciare a conoscere in questa occasione. Anche a questo mirava la mia pro-vocazione. Cosa c’era di scandaloso? Quindi, sì, so di cosa ho parlato e di cosa state parlando voi. O lui. Ho avuto occasione di leggere qui su LPLC queste sue tre poesie, di sentire i suoi elogiatori e, anche sulla base dell’idea che mi son fatto di questi testi (Cfr. Letterina n.4) e dei vostri elogi (da fan, il che mi disturba), deciderò se andare a leggere “Umana gloria” o no. Mi vuole forse togliere questo diritto a scegliere cosa leggere? Nel caso decidessi di non leggere “Umana gloria”, mi perderò un capolavoro? Non importa. Spero di poter arrivare alla mia “rinascita” anche per altre vie. Mi ricordo che Simone Weil diceva che a certi valori si può giungere anche facendo gli operai e senza aprire libri di letteratura. E sa quanti operai nel Secolo Breve hanno lottato bene (e permesso a noi oggi di essere più “acculturati”) senza mai aver letto Marx? Io non sopporto la sacralizzazione strisciante (e la mancanza d’ironia conseguente) della cultura e della poesia (o della poesia di alcuni poeti qui proposti). La sento in certi commenti. La sento in certe pensose dichiarazioni di autori. E ne sono respinto. Resto, con Fortini, contro *la sporca religione dei poeti*. Il mondo è molto più vasto (e da scoprire); e la poesia solo a volte ne raccoglie davvero qualcosa nel suo bicchierino. Io la poesia, pur scrivendola e seguendone la produzione PER QUEL CHE POSSO, cerco di guardarla *da lontano*. No, non sono un “turista poetico”. Sono un *esodante*, uno che, anche nel campo della poesia, va cercando quello che gli serve per capire il mondo e, se non lo trova, passa a cercare altrove. A lei potrò sembrare ridicolo. Non importa. Non sono a caccia di una fede o di una religione o di una pubblicazione da Mondadori. Né credo che oggi in Italia, paese che appena un po’ conosco, il campo della poesia possa essere paragonato più a una *nazione*. Da tempo non ci sono le *patrie lettere*. E il diritto di critica che cerco di esercitare, anche qui su LPLC, mi pare di argomentarlo a sufficienza. Se non nei commenti iniziali “provocatori” in quelli successivi di riflessione. Infine, la parodia in cui lei si esercita imitando ‘EX’, per il momento la rispedisco a lei, che si presta a fargli da ripetitore, e al suo ispiratore. Se è un suo conoscente, gli suggerisca di uscire allo scoperto e di firmarsi. E, allora, risponderò ad entrambi sulla parte seria che involontariamente esiste anche nelle 8 domandine “provocatorie” che mi rivolge.
Letterina n.4
Caro Mario Benedetti,
niente più di un’impressione sulle sue tre poesie qui pubblicate.
Nella prima mi piace il contrasto netto tra esterno e interno, tra languore dell’*uomo con un libro* nel parco gelato e violenza della suicida. Nella seconda diffido della domesticità compiaciuta, minimalista, fatta di piccole osservazioni diaristiche.
Nella terza, se non sbaglio di grosso, trovo insopportabile l’elogio dei * prati alti sopra ogni cattiva idea del mondo*, questo allontanamento totale dal dramma della storia (e della cultura). Trovo la sua poesia finto francescana, finto ingenua. Al centro l’io lirico di sempre, autointerrogantesi, un po’ spossato, in autodialogo (finto). Leggendo, mi si è confermata la prima impressione derivata solo dalla lettura del suo commento. Sì, a me pare che lei faccia capo a una nobile tradizione, a un “deangelismo” meno nevrotico o più contenuto, con una elementarità troppo esibita nel verso che si dispone in paratassi, con pochissime subordinate e che crea una “sacralità sul foglio” da molti – ahimè! – oggi troppo ammirato.
@ Giorgio M
lei cita una mia frase critica rivolta alla poesia di Mario Benedetti (che fa parte di un ragionamento) più ampio e complesso e problematico senza rendersi conto che in quelle proposizioni rilevavo una criticità di fondo della poesia di Benedetti, una criticità che la poesia non riesce (e forse neanche vuole) attraversare… insomma, il lato buffo della questione è che lei non sa neanche leggere uno scritto critico, non riesce distinguere un rilievo critico da un commento imbonitorio-suasorio tipo quello che Maria Grazia Calandrone rivolge a Mario Benedetti, un tipico commento buonista e generalista che non significa alcunché tranne la voglia di acquisire un qualche merito derivativo agli occhi dello stesso Benedetti. Riporto di seguito le frasi in questione:
«Maria Grazia Calandrone, analizzando le ‘Pitture nere su carta’, ha scritto: “Credo che questo libro fondi per tutti noi una nuova lingua”. Sempre riguardo alla stessa opera, un critico letterario ha sostenuto che «è l’impossibilità di attingere il “significato” delle parole il motore immobile di questo linguaggio poetico, che si muove sul limen tra un al di qua e un al di là, tra un progetto di impianto lirico dopo l’età della lirica e un prodotto di narratologia dopo la caduta delle grandi narrazioni». Sa chi è questo critico? Giorgio Linguaglossa, di cui lei, Abate, spesso condivide le teorie. »
Mi rendo conto che per persone come lei digiune di cultura critica riesca difficile distinguere una proposizione smaccatamente apologetica e compiacente come quella della Calandrone da uno scritto critico come quello del sottoscritto, ma dalla citazione del mio scritto che lei riporta, non dovrebbe essere difficile capire che sto tentando di dire che «è l’impossibilità di attingere il “significato” delle parole il motore immobile di questo linguaggio poetico». Ora, caro Giorgio M, se non sbaglio (ai sensi delle acquisizioni della scienza linguistica) siamo noi esseri umani che diamo un significato ad una cosa, non mi sembra che nel mondo delle scimmie si possa parlare di “significato” etc., questo dovrebbe essere palese..,. e quando io scrivo che è «l’impossibilità di attingere il “significato” delle parole il motore immobile di questo linguaggio poetico», ciò significa, tradotto in altre più semplici parole, che è la poesia di Mario Benedetti che non riesce ad attingere il significato delle parole, è una sua insufficienza, una sua inidoneità (mi sembra chiarissimo), e quando parlo “di un progetto di impianto lirico dopo la caduta della lirica e un prodotto di narratologia dopo la caduta delle grandi narrazioni», ma lo sa di che cosa sto parlando? Mi sorge il dubbio che lei non riesca neanche a capire di che cosa sta parlando il critico, e non lo capisce perché non riesce neanche a capire che quello che il critico sta dicendo è un punto nodale che incide negativametne sulla poesia di Mario Benedetti, e non certo positivamente… cioè lei non riesce a distinguere un rilievo negativo da uno positivo, anzi, li scambia e li confonde apertamente.
Stante questa situazione, che dire? di che cosa vogliamo parlare?
Già in un altro post ho espresso i miei dubbi sulla Vostra competenza letteraria, ma almeno quando fate citazioni dei miei scritti vi pregherei di leggerli attentamente o di sottoporli (preventivamente) alla lettura di qualcuno che capisce qualcosa in fatto di linguaggi critici.
Per quanto riguarda il valore dei commenti di tipo buonista e igienico sanitario del tipo “che bello!” o del tipo “grazie di esistere”, che dire? se vi contentate voi…
Ritengo infine che la richiesta di Ennio Abate a Giorgio M di chiarire (magari con delle maggiori elucidazioni) il giudizio positivo sul “panorama poetico italiano”, sia di buon senso e che meriti una risposta (certo ciò presupporrebbe una Vs conoscenza almeno non superficiale del panorama poetico italiano)…
Insomma, per finire, ritengo che dovete studiare molto, leggere molto e riflettere molto prima di poterVi arrischiare sul terreno scivoloso del linguaggio critico…
Per finire, riguardo le tre poesie pubblicate, nella sostanza, non posso non condividere le impressioni di lettura di Ennio Abate. Mi sembra che siano centrate e che mettano bene in evidenza i limiti e i difetti dell’impostazione culturale complessiva dello sguardo che Mario Benedetti ha verso quello che comunemente chiamiamo reale.
Ed in ultimo, perché non vi firmate con i vostri nomi e cognomi? avete paura di essere riconoscibili? Anche questo mi sembra un atteggiamento da dilettanti.
Modesta proposta in forma di domanda:
è possibile definire cosa si intenda oggi da noi per poesia? (al di là degli arbitrari 15 anni – cosa è successo nel 1997? – me lo sono perso! ) Cosa distingua l’ “andare a capo” a un certo punto, dal linguaggio poetico?
E ancora: se il concetto di “lirica” come categoria ha fatto chiaramente e giustamente il suo tempo, è possibile individuare delle categorie fenomenologiche (e non ontologiche) – oltre a quella di postmoderno, obsoleta e abusata – e di realismo, che permettano un’analisi critica tagliente come un rasoio?
Se la perdita – e il rifiuto – della forma è uno degli aspetti più peculiari di molta della poesia circolante e osannata, cosa la sostituisce? Un’estetica dell’informale? (inteso nel senso di non-forma)
Ma la perdita della forma, non è la perdita di quella che un tempo si intendeva per forma, sostituita da una diversa concezione e percezione della forma? E quale?
Dovremmo allora adattare all’analisi critica della poesia le categorie – del resto ancora fluttuanti – della critica d’arte, che con l’informale si è misurata già da un bel po’ di tempo?
Io ho l’impressione che oggi muoversi su un terreno così scivoloso e franoso come quello della critica letteraria (ma anche d’arte) sia sempre più difficile se lo si seguita a fare con strumenti che in un tempo brevissimo perdono la loro efficacia di fronte alla velocità dei mutamenti del suo oggetto.
Mi sono raramente permessa di stilare giudizi critici sui testi poetici proposti da LPLC, per alcuni motivi molto semplici. Il primo è che magari non avevo nulla da dire – e in casi simili il silenzio è d’oro – il secondo è che, come ho imparato dei miei Maestri, nessuna analisi critica può essere condotta su frammenti non sorretti dalla conoscenza dell’opera totale – o almeno di buona parte di essa – dell’autore. Il terzo è che molta della poesia proposta mi lascia indifferente. E in genere sarebbe bene provare un certo interesse per ciò di cui si parla, perché appunto, è da qui che sgorgano le domande e prende le mosse il discorso critico.
@Linguaglossa
“Già in un altro post ho espresso i miei dubbi sulla Vostra competenza letteraria, ma almeno quando fate citazioni dei miei scritti vi pregherei di leggerli attentamente”.
“Voi” chi?
E’ Giorgio M che l’ha citata.
Cominci lei a “leggere attentamente”. Sarebbe un bel passo avanti.
Non voglio fare nessuna apologia di Benedetti, di cui ho letto solo poche cose sparse e che in alcuni commenti, rispetto a queste poesie qui pubblicate, mi pare un po’ sopravvalutato. Ma continuo a rimanere basito di fronte all’arroganza di chi pretende di possedere il monopolio del “discorso critico” e della militanza controcorrente, posto che, se non se ne fosse ancora accorto, scrive veramente ma veramente male. Non può pretendere di essere capito chi scrive in una lingua morta e deformata dal megafono della specializzazione d’accatto.
Benedetti non è sopravvalutato o sottovalutato in sé, per quanto riguarda la sua scrittura. Sta di fatto che alcuni libri, alcuni autori, hanno fatto tesoro dei suoi cosidddetti stilemi… Libri e autori forse dappoco, oppure no e mi sbaglio io (e che forse neppure gradisco). Ma si può ritenere che così sia stato in questi ultimi anni e lo sia ancora. Niente di male, Auguri di buon anno a LPLC.
@ Francesca Diano
La sua proposta non è *modesta*, ma – direi – imbarazzante per LPLC. Le ricordo che vari tentativi fatti finora per spingere la redazione a non coltivare soprattutto il proprio orticello di amici poeti (o critici letterari o, in misura per me insoddisfacente, economisti, sociologi, filosofi, etc.) non hanno trovato udienza e anzi sono stati respinti come un affronto di troll anarcoidi alla “libertà” di pubblicare quello che essa ritiene pubblicabile.
In merito poi ai problemi cruciali e disperanti che lei solleva (1. cosa si intenda oggi da noi per poesia; 2. specificità del linguaggio poetico rispetto agli altri linguaggi; 3. cosa viene “dopo la lirica”; 4. cosa viene dopo la Forma (l’informale o un’altra, indecifrabile al momento, nuova forma?); 5. ci sono gli strumenti critici capaci di afferrare la velocità dei mutamenti in corso) mi sento di dire che siamo in parecchi a porceli; e – credo – sia in alcuni ambiti accademici come pure in ambiti “militanti”. Ma le risposte per ora sono insoddisfacenti. Per trovare quali PAROLE oggi in poesia possano non lasciare indifferenti e stilare giudizi convincenti sui testi poetici che si vanno producendo ( in abbondanza e un po’ dovunque) , ci vorrebbe nientemeno un’idea di come stanno LE COSE. E non l’abbiamo più. Da qui uno sparpagliamento della produzione poetica come dopo una Cernobyl delle “patrie lettere”. Troppi (ad es. qui Giorgio M. in un suo intervento) considerano, a mio avviso troppo ottimisticamente, tutto questo una *polifonia*. Altri insistono nella solita gestione “parrocchiale” o “generazionale” delle proprie “squadrette” di poeti “preferiti” fatti passare però per I POETI. Da qui anche il silenzio prolungatosi oltremisura della riflessione critica accademica. Le ultime cose decenti, una conferma però di una resa della critica accademica e del rifiuto snobistico alla Berardinelli verso il *mare magnum* della produzione odierna, le lessi in * Genealogie della poesia nel secondo Novecento* negli Atti del Convegno di Pontignano che risalgono al 2001. (Ma io sono ovviamente poco aggiornato e settario, anche pronto a incuriosirmi per eventuali Eliot o Giacomo De Benedetti sfuggitimi nel frattempo …).
A lei vorrei dire che non ci salviamo l’anima chiudendoci in un silenzio diplomatico. Quanti poi troveranno il tempo per non condurre analisi soltanto su frammenti, ma per considerare l’opera totale di un poeta, come giustamente ma astrattamente auspica?
Siamo più in una situazione d’emergenza o epigonica o all’alba di uno dei tanti e troppo spesso annunciati rinascimenti o risorgimenti? Propendo per la prima ipotesi, ma se si trovassero luoghi (speravo su LPLC, ma …) dove si possano discutere le varie ipotesi minimaliste o massimaliste, progressiste o catastrofiste sarebbe già una boccata d’aria in una camera fin troppo piena di gas velenosi.
La maggior parte della poesia contemporanea è prosa.
Inevitabile è la prosa di Brodsky, di Milosz, nelle traduzioni italiane.
Questa è prosa da traduzione. Ora non sarebbe inevitabile, perché il poeta è già italiano.
Anche Anedda è prosa.
Andrea Inglese è prosa. Inglese è Italia.
Non si trova la musica dei ritmi.
La prosa è una posa rassicurante: disperazione sia asciutta, ma non il grosso e rosso dáimon musicale!
Carmelo Bene è morto.
Giuliano Mesa è morto.
Amelia Rosselli è morta.
Edoardo Sanguineti è morto.
Elio Pagliarani è quasi morto.
Marina Pizzi è ignorata.
Il ritmo vive, rivive ora in uno, in due, in tre. E altri sono elefanti, sensibili, ottusi, immusicali sono “il popolo dei topi”! E detto l’ho perché.
Carissima Elisa, Andrea inglese ha un ritmo, regolare, centripeto, con enjambement strofici efficaci nel momento di evidenziare maggiormente la “calamità autobiografica” di cui parla… che mi sembra un argomento notevolissimo.
Caro Ennio Abate,
le riviste letterarie non sono opere pie: scelgono i propri autori e le proprie linee editoriali, com’è sempre successo. «La Voce» o «Officina», «Il Verri» o «Nuovi Argomenti» hanno scelto la propria linea e i propri autori: non hanno pubblicato di tutto. Così dev’essere. E’ un’assunzione di reponsabilità, un dato di fatto elementare.
Per quanto riguarda la riflessione sulla poesia contemporanea, non c’è «alcun silenzio prolungatosi oltremisura». C’è solo la sua ignoranza, cui purtroppo si accompagna una buona dose di arroganza. Negli ultimi dieci anni, dopo il convegno di Pontignano, sono uscite decine di saggi e antologie dedicate alla poesia contemporanea; lei sta parlando, con tono supponente, di una cosa che non conosce. Beninteso: è legittimo che nello spazio dei commenti si parli anche di cose che non si conoscono; le forme dell’arte e della cultura si mantengono in vita se sanno parlare anche e soprattutto ai lettori colti non specialisti. E’ la commistione di ignoranza e arroganza ad essere fuori luogo.
Buon anno da
LPLC
Ipsi (gli arroganti ovviamente aggiornatissimi e in coro redazionale) dixerunt.
Non insistete nel rispondere ad Abate. È un troll. Per chi non sapesse di cosa parlo posto qui la definizione da wikipedia:
“Con il termine troll, nel gergo di Internet e in particolare delle comunità virtuali, si indica una persona che interagisce con gli altri utenti tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi.”
Così facendo lo state “alimentando”. Vi consiglierei semplicemente di bloccarlo.
Un saluto
Cara Luna,
su questo punto non siamo d’accordo con lei. Per noi Ennio Abate è un interlocutore, magari a volte un po’ troppo aggressivo, ma non un troll.
Un saluto anche a lei, e buon anno,
LPLC
Non so se Ennio Abate sia un troll, però è l’unico che ha, magari a suo modo, raccolto le mie domande. Che, mi pare evidente, non erano domande retoriche – che avevano già in sé un no come risposta, tanto per intenderci – ma proprio la richiesta di un confronto su questi argomenti. Saranno pure stati dibattuti in decine di saggi e antologie dopo il convegno di Pontignano, ma noi qui siamo, su LPLC, dove vengono proposti dei testi ANCHE per un discorso critico e dunque è qui e ora che questo mi piacerebbe si sviluppasse. A me piace imparare quello che non so attraverso varie fonti. Questa è una.
Non trovo “simpatico” da parte di Abate accusare la redazione di settarismo e di coltivare solo il proprio orticello. In fondo, come specificato e come è evidente frequentando il blog, quello che qui si trova è rappresentativo di una certa direzione della letteratura italiana, non di tutta. Non la esaurisce. Il che è più che apprezzabile. Anzi, permette, almeno a me, di farsi un’idea più precisa di cosa stia accadendo in un certo campo. Però mi pare anche eccessivo quello che chiede Luna. E anche il tono con cui lo chiede.
Altrimenti si ritorna sempre a quello che si diceva altrove sulla difficoltà di stabilire un dialogo.
Grazie LPLC, questa è proprio una bella risposta.
Alla redazione di LPLC
“quello che qui si trova è rappresentativo di una certa direzione della letteratura italiana, non di tutta. Non la esaurisce. Il che è più che apprezzabile.” (Diano)
“le riviste letterarie non sono opere pie: scelgono i propri autori e le proprie linee editoriali, com’è sempre successo. «La Voce» o «Officina», «Il Verri» o «Nuovi Argomenti» hanno scelto la propria linea e i propri autori” (redazione di LPLC)
Chiarito che non me la prendo per le accuse ingiuste (“lei sta parlando, con tono supponente, di una cosa che non conosce”), ma da tempo sono abituato a non porgere l’altra guancia a chi me le muove (e rispondo a tono) e che nessuno vi chiede di pubblicare “di tutto”, vorrei che spiegaste seriamente quale sia la vostra linea in fatto di poesia e se quelli che state proponendo sono i “vostri” autori.
Rivendicare nella situazione odierna, confusa e niente affatto “polifonica”, una sorta di continuità con riviste come “La Voce” o “Officina” o “ Il Verri” è cosa da dimostrare. Non chiedeteci un atto di fede. Posso riconoscere al massimo che quelle riviste siano un vostro modello. Praticabile? Praticato? I “vostri” autori – quelli finora proposti sono abbastanza eterogenei nei loro percorsi – per me non sembrano distinguersi così nettamente dal “resto del mondo poetico” contemporaneo.
Ma a voi, se confronto può esserci, l’onere della prova.
@ Ennio Abate
Come dicevo, mi piace più fare domande che dare risposte – fare domande alla ricerca delle riposte – perché la domanda pone in dubbio le labili certezze, apre una porta verso l’esplorazione dell’ignoto. E in questo, beati siano gli ignoranti. L’ignoranza ha questo di bello: è vasta, non si lascia arginare da recinti, non è settaria né aristocratica e si apre su orizzonti sconfinati. Lo sguardo si allunga. Può accogliere. Come un povero pitocco in stracci che non ha nulla se non il vasto mondo.
Mi piacerebbe fare un’apologia dell’ignoranza. Che è Signora della conoscenza.
Domande dunque: se poi queste domande hanno come risposta un compatto silenzio, questo silenzio è già in sé una risposta. E molto significativa.
Perché prendersela? Ognuno parla col linguaggio che sa.
@ LPLC
… credo che le DOMANDE di Francesca Diano e di Ennio Abate siano fondate. E che il compito di una rivista come LpLC, che ritiene di rifarsi a modelli come “officina” etc. sia di fornire delle RISPOSTE –
Se la redazione di LPLC non le fornisce, allora vuol dire che non è in grado di fornirle, non ha le capacità critiche, le competenze, le conoscenze…
E allora di che parliamo? delle composizioni degli amici di LPLC ?
Cara Luna non te la prendere così!…
Dovresti ringraziare il cielo di incontrare gente come Abate…
Troll, provocatore?…Maddai….Lui usa la zappetta, smuove la terra sotto le piante…Esattamente come fa un buon giardiniere…Se non fosse così, le piante faticherebbero a CRESCERE…o no?…
Vabbè…Luna, per farmi perdonare…voglio farti partecipe di due righe buttate di getto, di notte, durante una sbronza colossale…
Mi guardi oh luna!
Mi guardi da sempre
di me sai tutto
e non dici mai niente!
Ed io che ti guardo
di notte
mentre faccio pipì
penso che forse
sia meglio così.
Caro Ennio Abate,
neppure noi siamo abituati a porgere l’altra guancia a chi ci muove rilievi ingiustificati. Perciò ribadiamo che lei in questa discussione ha usato un tono supponente, perché ha parlato con toni perentori e ultimativi di un argomento che, per sua stessa ammissione, lei conosce poco, e perché si è rivolto a Mario Benedetti in maniera aggressiva e delegittimante. Nella discussione su Inglese ha invece espresso la sua opinione in modo argomentato. In quel caso non abbiamo nulla da eccepire.
Non abbiamo rivendicato alcuna continuità di linea con “La Voce”, “Officina” o “Il Verri”; abbiamo semplicemente detto che, come ogni rivista, anche LPLC ha un suo programma. Lo si può leggere qui sopra alla voce “chi siamo” e non intendiamo discuterne in questa sede. Ci piacerebbe invece discutere dei saggi e delle opere letterarie che vi proponiamo, ma vorremmo farlo con toni differenti da quelli che sono emersi in questo dibattito. Anche perché certi toni rischiano di allontanare altri commentatori. Ciò che scrive Alberto Camerana nel suo commento alle poesie di Andrea Inglese ci pare significativo e allarmante: «me ne vado altrove in discipline più protette (chi dibatte così penosamente di astrofisica, o di circuiti elettrici, o di televisione, nei luoghi deputati, per esempio?) […] Ma mi dispiace per i poeti, trattati come mai ho visto fare».
Cara Francesca Diano,
lei ha tutto il diritto di porre delle domande e noi speriamo che qualcuno dei nostri collaboratori o commentatori voglia rispondere. E tuttavia rispondere non è un obbligo. Lei scrive che molte di queste poesie la lasciano indifferente: è legittimo. Allo stesso modo, è legittimo che i nostri collaboratori o commentatori rimangano indifferenti di fronte alle sue domande, o che non abbiano il tempo o la possibilità di rispondere in questa sede, o che abbiano già espresso la loro opinione in altre sedi e che non abbiano il tempo e la voglia di ripetere ciò che hanno già detto.
Non abbiamo nulla contro l’ignoranza, anche perché siamo tutti ignoranti: ognuno di noi ha conoscenze di prima mano limitate; tutto il resto è conoscenza di seconda mano. E’ giusto che la discussione pubblica verta sulla conoscenza di seconda mano: i blog servono anche a questo. Ciò che non amiamo è la commistione di ignoranza e arroganza. Tutto qui.
Caro Giorgio Linguaglossa,
come sempre, lei non legge quello che scriviamo o ha gravi problemi di ermeneutica. Non abbiamo rivendicato alcuna continuità con «Officina»: abbiamo solo detto che LPLC, come tutte le riviste («Officina», «Quattroruote», «Topolino»), ha un suo programma e non pubblica di tutto. Se ciò che pubblichiamo non le piace, può sempre cambiare sito.
Non me ne voglia Ennio Abate se rispondo prima a Linguaglossa.
1. Linguaglossa, sappia che la sua supponenza non mi intimidisce. Non voglio imitarla e perciò non scenderò sul piano degli attacchi personali. Ma distribuire lezioni e insulti dalla vetta di una cattedra auto-attribuitasi – come ha fatto lei definendomi, sulla base di un mio solo intervento, persona digiuna di cultura critica – è un comportamento perlomeno incauto se poi sistematicamente, in ogni proprio scritto, si dimostra poca dimestichezza con la punteggiatura; pensi, per esempio, ai terremoti sintattici che le causano le parentesi: «lei cita una mia frase critica rivolta alla poesia di Mario Benedetti (che fa parte di un ragionamento) più ampio e complesso», «una criticità che la poesia non riesce (e forse neanche vuole) attraversare».
Innanzitutto mi preme ricordare questo: chi trova buffo che qualcuno non sappia «neanche leggere uno scritto critico» si rende più che buffo, si rende grottesco, quando non è capace di interpretare un semplice commento in un sito letterario. Pertanto le faccio notare che io non ho mai citato la sua «frase critica» come esempio di «apologia» della poesia di Mario Benedetti, ma come testimonianza del fatto che quella poesia meriti attenzione perché lì si tenta qualcosa che altri poeti non hanno tentato. Se lei rilegge con minore superficialità quello che ho scritto – e sono sicuro che un autorevole critico come lei, capace di folgoranti letture esegetiche, sarà in grado di effettuare una banale rilettura – si accorgerà che io ho parlato di «risultati del tutto inediti» cui giunge la poesia di Mario Benedetti. Il giudizio esplicito (positivo o negativo) è assente tanto nel mio commento quanto nel suo testo che il mio commento richiama. Lei, nello scritto a cui faccio riferimento, ha sostenuto che «forse, tra i poeti contemporanei questo di Mario Benedetti è il progetto più compiuto di desertificazione significazionista portato alle sue estreme conseguenze. Benedetti riprende là dove Maurizio Cucchi aveva lasciato dopo ‘Il disperso’ (1976), procede nella terra di nessuno della defondamentalizzazione del linguaggio poetico e avanza, a spron battuto, verso le irrigue sponde del nichilismo». E visto che, altrove, ha definito ‘Il disperso’ come il libro in cui «la ragione narrante della poesia italiana degli anni Settanta, con tutto il suo carico di problematicità, […] entra in crisi irreversibile», un’opera aperta nel cui sostrato concettuale c’è «più Beckett che Eliot e Pound; c’è la consapevolezza della rottura formale che si consuma nella poesia e nella narrativa italiane del tardo novecento attraverso il decentramento della narrazione, che resta senza inizio né fine, senza plot, senza soggetto che totalizzi, senza tematica che stabilizzi, senza cornice spazio-temporale che indirizzi cronotopicamente gli eventi» e considerato che, in definitiva, ‘Il disperso’ è un unicum nella letteratura italiana («il primo caso di applicazione, nella tradizione italiana, della tecnica del giallo alla poesia moderna», a suo dire), penso che il minimo che possa fare anche un adepto del Sacro Linguaglossa sia aprire le ‘Pitture nere su carta’ e scoprire di che cosa si tratti. So che lei invita spesso a stare lontani dai libri di poesia (a meno che, beninteso, tali libri non abbiano per titolo ‘La belligeranza del tramonto’), e probabilmente lei vorrebbe che il suo ruolo fosse sostanzialmente quello di dire: «Non preoccupatevi, ragazzi, l’ho già letto io per tutti, questo libro, e, grazie alla mia LETTURA CRITICA, non avete bisogno di leggerlo anche voi, perché il mio inappellabile verdetto è che questo libro fa schifo»; però io, esaminando con devozione il suo «scritto critico», sarei perlomeno incuriosito – se non la conoscessi già – da una poesia in cui «ogni parola è come isolata e inchiodata ad una fissità, ad una rigidità cadaverica, come se soltanto dopo la cadaverizzazione fosse possibile aderire al significato delle parole», e dunque correrei a leggerla.
Certamente io non sono uno che si fa scorpacciate di cultura critica come lei, che la ingolla fino a farne indigestione, però mi permetto di farle una domanda: quando parla del fatto che «la poesia di Mario Benedetti […] non riesce ad attingere il significato delle parole», lei crede che l’«insufficienza» e l’«inidoneità» che rileva siano INTRINSECHE alla poesia stessa? Io credo che questa impossibilità, questa «insufficienza», questa «inidoneità» siano al contrario PERSEGUITE e faticosamente CONQUISTATE dai versi di Mario Benedetti. E credo che sia stato lo stesso autore a suggerirci questa chiave di lettura scrivendo nei commenti di aver «pensato (e sentito)», in ‘Umana gloria’, «la forma che avvicina alle ultime parole pronunciate o ad un ultimo discorso, al colloquio senza interlocutore, interattivo ma in totale perdita rispetto al richiedere del dire, allo sconcerto, all’incredulità, alla pietà, all’inermità desolata». Le ‘Pitture nere su carta’, dove le parole diventano cadaveri, proseguono su questa strada. Per me il «punto nodale» di cui lei parla, Linguaglossa, è tutto qui. Mi sembra che lei, in fin dei conti, voglia ridurre tutto al discorso «bello/brutto», «positivo/negativo». Mi stupisce che un critico operi un tale appiattimento dei livelli d’analisi, per giunta riferendosi ad un SUO scritto. Lei rischia di fare la figura del critico d’arte che, dopo aver condotto un’attenta LETTURA CRITICA in cui individua la destrutturazione e la ricostruzione di ogni figura, conclude che Picasso fa brutti quadri.
Quanto al resto, io so che annuire per pietà al malato che sostiene di essere Napoleone non è un atteggiamento produttivo per nessuno, neppure per il malato. Dunque mi rifiuto categoricamente di accettare le sue frasi offensive e di farle credere anche solo per un attimo che lei è riuscito a inculcarci l’assioma per cui lei è un critico vero e tutti gli altri sono dei miseri estensori di «commenti imbonitori-suasori». Purtroppo, Linguaglossa, il suo sussiego la porta fuori strada, perché la frase da me citata di Maria Grazia Calandrone non è un commento rilasciato su qualche sito Internet, ma il frammento di una preziosa analisi critica delle ‘Pitture nere su carta’ uscita sul numero 234 di «Poesia». Le consiglio vivamente di leggerla. Sa com’è, (s)fortunatamente bisogna «studiare molto, leggere molto e riflettere molto prima di poterSi arrischiare sul terreno scivoloso del linguaggio critico» (così è scritto nei ‘Proverbi’, 3, 1).
Inoltre, come ha già sottolineato Gianluigi Simonetti, la prego di fare attenzione a quello che legge e di rivolgersi solo all’autore del commento, non ad altri. È tremendamente odioso persino per me, che sono un semplice utente e commentatore, notare come lei cerchi di coinvolgere nelle sue polemiche personali la redazione di ‘Le parole e le cose’. È come se io, attaccato da lei, me la prendessi con il sito perché sono stato citato nel suo commento. Suvvia, Linguaglossa! Penso che abbiamo superato più o meno tutti l’età puberale!
Infine, vorrei farle un’ultima domanda. Nel momento in cui scrive che Abate ha messo bene in evidenza «i limiti e i difetti dell’impostazione culturale complessiva dello sguardo che Mario Benedetti ha verso quello che comunemente chiamiamo reale», a che cosa si riferisce esattamente? Glielo domando perché potrebbero nascere interessanti discorsi sulla focalizzazione e sul ruolo dell’io nella poesia di Mario Benedetti. Basta avere ben chiaro il «punto nodale» della questione.
2. Caro Ennio Abate, a me fa molto piacere il confronto, e se lo approfondissimo scopriremmo che tra il mio pensiero e il suo non ci sono solo distanze ma anche qualche punto di contatto (come l’importanza di Fortini, troppo facilmente dimenticato, e l’opinione negativa circa la sacralizzazione a tutti i costi della cultura e della letteratura). Ciò che però io credo infici a priori il dibattito sono alcuni suoi comportamenti e pregiudizi. Per esempio: come può il dibattito non essere falsato dal suo affrontare con tono provocatorio argomenti che non conosce bene? Come può essere limpido il confronto se lei riduce tutti coloro che intervengono con commenti positivi al ruolo di fan, di sciocche groupie dell’autore di turno? Come può la discussione anche soltanto avere luogo se lei ritiene che i commentatori e redattori di ‘Le parole e le cose’ (fatta eccezione per «i dissidenti della prima ora») siano tutti amici tra di loro o, peggio, conniventi? Se io condivido quello che ha scritto Ex, sùbito lei lo qualifica come un mio amico, conoscente e ispiratore. Tutto ciò è insultante per l’intelligenza delle persone.
3. Per concludere, a Francesca Diano, cui ricambio gli auguri di buon 2012, spiego ulteriormente i motivi per cui ho parlato di quindici anni. Nonostante sia ‘Umana gloria’ (2004) il libro grazie al quale «è risaltata nettamente la forza del progetto, l’originalità di una voce nuova ma profondamente radicata in una realtà anche remota» (Maurizio Cucchi), Mario Benedetti, tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, ha pubblicato varie ‘plaquettes’ che sono parzialmente confluite nel libro del 2004. Secondo me (e rammento a chi non legge con troppa attenzione che ho cominciato il mio primo commento con l’avverbio «personalmente») è nella metà degli anni ’90 che i versi di questo autore iniziano a lasciare una traccia evidente sull’ormai troppo citato (in questa sede) panorama poetico contemporaneo, catturando l’attenzione di chi si interessa alla poesia. Come data simbolica per indicare l’inizio di tale processo sceglierei il 1996, anno in cui Mario Benedetti ottiene il Premio San Vito al Tagliamento con una piccola raccolta inedita giudicata vincitrice da una commissione composta, tra gli altri, da Andrea Zanzotto (è a firma sua la motivazione del libro premiato), Amedeo Giacomini e Silvio Ramat. Quella raccolta, dal titolo ‘Una terra che non sembra vera’, verrà poi pubblicata nel marzo del 1997 da Campanotto Editore.
@LPLC
Concordo con voi che ignoranza e arroganza siano un’accoppiata assai infelice. Quel che va bandito sempre e comunque è l’arroganza, che ormai ha invaso ogni ambito della vita italiana. E l’arroganza purtroppo si manifesta in molte forme.
In effetti le domande, o meglio gli spunti di discussione, non erano rivolte a LPLC come redazione ed è infatti legittimo che non le si trovi interessanti o stimolanti.
Grazie comunque per questa opportunità che LPLC offre – almeno a me – di poter approfondire un aspetto della produzione letteraria italiana che, per molti versi, mi incuriosisce.
@ Giorgio M.
La ringrazio della risposta. Ora capisco quello che intendeva.
Cara Francesca, grazie a lei per la domanda.
Un saluto.
SOTTO-POST DI UN COMMENTATORE NON TROLL
Gutta cavat lapidem? Chissà. Insistiamo…
La richiesta di discutere sullo stato della poesia oggi di Francesca Diano, una saggia apologeta dell’”ignoranza. Che è Signora della conoscenza”, mi è parsa preziosa.
Affacciata in questo post dopo la “banale provocazione” fatta da un “incompetente” come il sottoscritto a Mario Benedetti, meriterebbe non solo di essere rilanciata, come ho tentato di fare, dai bassifondi degli spazi-commenti verso i quartieri alti dei Post d’Autore, ma di essere sviluppata, su pressione di LPLC, da qualcuno dei “competenti” (o “più competenti”) del suo giro.
Invece, ‘Le parole e le cose’ risponde in un modo allarmante: visto che “Lei [Francesca Diano] scrive che molte di queste poesie la lasciano indifferente”, ritiene “allo stesso modo [sic!] legittimo che i [suoi] collaboratori o commentatori rimangano indifferenti di fronte alle sue domande, o che non abbiano il tempo o la possibilità di rispondere in questa sede, o che abbiano già espresso la loro opinione in altre sedi e che non abbiano il tempo e la voglia di ripetere ciò che hanno già detto”.
Francesca Diano ha replicato sin troppo nobilmente e diplomaticamente.
Ma a me una risposta tanto elusiva non va giù.
La possibilità di non “rispondere in questa sede” alle domande serie poste da chicchesia mi sembra un modo di chiudere bottega, di perpetuare e subire la pessima separatezza tra conoscenze di prima mano e conoscenze di seconda mano, dio cui di solito tanto ci si lamenta.
Non è un sito Web letterario la piazza pubblica (virtuale, vabbè…) in cui il dotto (o competente, o specialista) s’incontra e discute con il tonto (o l’ignorante), come disse maestro Fortini in una conversazione di cui qui riporto il ricordo:
Bisogna scaldarsi – disse all’incirca – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere
un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non
servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo
specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio
conversando. (Da un incontro con F. Fortini del 1986)
Altri tempi, altra musica!
Ma più in dettaglio ora a Le parole e le cose ( 5 gennaio 2012 alle 11:24):
1. CHI replica ai miei interventi, firmandosi con ‘ Le parole e le cose’, attaccando con quel “Caro Ennio Abate”, e poi subito mi ripigne là dove ’l sol tace? Ho cercato in ‘Home’ e in ‘Chi siamo’. Ho trovato i nomi dei collaboratori di LPLC. Nessuna indicazione, però, di nomi facenti parte di una “redazione”. CHI mi replica, dunque? Un delegato di tutti i collaboratori? Gradirei gentilmente una precisazione. È una richiesta legittima o “supponente”?
2. Qual è l’argomento che, per mia stessa ammissione (dove?), conoscerei poco? La poesia? La poesia contemporanea? La poesia che viene pubblicata su LPLC? La poesia di Mario Benedetti? Non mi va di esibire medaglie, stellette o studi. E, più in generale, chiedo: quante lauree sono richieste per parlare qui su LPLC? (Oppure – potrei farci un pensierino – : da chi – nome e cognome – dovrebbero essere esaminate le mie competenze nella materia in questione?)
3. Quasi ogni mio intervento su questo sito è incappato nella stessa: li farei “in maniera aggressiva e delegittimante”. Siete sicuri? È proprio l’”aggressività” che v’infastidisce? Aggressività e delegittimazione mai che siano (anche) in CHI mi replica? Non è che un eccesso di permalosità porta (CHI mi replica) a giudicare SEMPRE aggressivi e delegittimanti i miei interventi?
In proposito, tengo a ricordare che ho sempre argomentato le ragioni della mia “aggressività”. Se non al primo colpo, nel corso della discussione (quando non ne è stata impedita la prosecuzione, come nel caso del post di Daniela Brogi, “Sull’equivalenza narrativa terrorismo:oscurità” [http://www.leparoleelecose.it/?p=1064]; o quando i miei interlocutori o antagonisti non hanno deciso – loro non io – di non rispondermi più).
E così ho fatto anche con Mario Benedetti: cercando di attenuare in partenza la mia “aggressività” con una “premessa”, chiedendo chiarimenti sul suo primo commento (provocatori, sì, ma ho spiegato poi il loro senso), pronunciando le mie impressioni, con la letterina n.4, sulle poesie qui pubblicate e non sulla sua opera omnia. Proprio come ho fatto con Andrea Inglese. E allora? Sapete riconoscere la volontà di confronto dal disprezzo?
4. D’accordo, prendo atto: non stabilite una continuità tra LPLC e “la Voce”, “Officina”, “Il Verri”. LPLC ha un suo programma. (Vedete però che prima avevate parlato di “linea”…). E rileggo, come suggerite, la voce “Chi siamo”. C’è scritto:
“Le parole e le cose è uno spazio programmaticamente plurale. Non è un caso che sia così: la pluralità, la mancanza di riferimenti comuni sono inscritte nello spirito della nostra epoca, sono la nostra condizione di partenza. I collaboratori hanno storie personali, interessi culturali, stili di intervento diversi, e saranno responsabili solo di quello che scrivono in prima persona o di quello che pubblicano. E tuttavia vorremmo trovare e costruire, attraverso l’ascolto e il dialogo reciproco, alcuni temi, idee e spunti di riflessione comuni”.
In parte, mi pare, confermate (senza riconoscere il punto di concordanza) quanto sostenevo:
“I “vostri” autori – quelli finora proposti sono abbastanza eterogenei nei loro percorsi”.
Ma resta un problema più importante: se LPLC giustamente afferma che “la pluralità, la mancanza di riferimenti comuni sono inscritte nello spirito della nostra epoca, sono la nostra condizione di partenza”, perché avete respinto e respingete ostinatamente le osservazioni, le obiezioni, le critiche – non è ricerca di dialogo tutto ciò? – che in diversi abbiamo espresso in questi mesi, reclamando non – ripeto – la pubblicazione “di tutto”, ma una visione ampia di tutta la pluralità (non “polifonica”) realmente esistente?
Se io vi scrivo: “per me [i vostri autori] non sembrano distinguersi così nettamente dal “resto del mondo poetico” contemporaneo”, perché, visto che programmaticamente siete per “l’ascolto e il dialogo reciproco”, non rispondete, dimostrando che, invece, lo sono e spiegando perché lo sono?
Se poi, pur sapendo che il “mare magnum” della produzione poetica ( reale o supponibile) non è del tutto sondata da LPLC, preferite non confrontarvi sul vostro programma (“Lo si può leggere qui sopra alla voce “chi siamo” e non intendiamo discuterne in questa sede”), smentite la stessa vostra affermazione (“Le parole e le cose è uno spazio programmaticamente plurale”); e vi calate sul volto soltanto la maschera ideologica della pluralità, ma non la praticate.
Dimostrate, in sostanza, di temere il confronto con gli “altri”, quelli apparentemente o realmente più distanti dai vostri – li chiamerei – “immaginari di partenza”.
E mi pare una grossa contraddizione valorizzare a volo l’opinione di un commentatore “di passaggio” come Alberto Camerana (“«me ne vado altrove in discipline più protette (chi dibatte così penosamente di astrofisica, o di circuiti elettrici, o di televisione, nei luoghi deputati, per esempio?) […] Ma mi dispiace per i poeti, trattati come mai ho visto fare») e non preoccuparvi, invece, che certi toni (vostri o di altri commentatori e non solo i miei) “rischiano di allontanare altri commentatori”.
Che coerenza esiste tra la vostra programmatica dichiarazione di “ascolto e dialogo” e l’ invito a Linguaglossa (e magari – perché no – anche ad Abate, Massino e altri, che non si sono più esposti vedendo l’aria che tira) a “cambiare sito”? In base a che cosa allora, distinguete i commentatori accettabili da quelli “fastidiosi”? In base alla (supposta) “aggressività”?
@ Giorgio M.
Avrei preferito che rispondesse prima e più approfonditamente a me invece che a Linguaglossa, visto che la mia Letterina n.3 era abbastanza dettagliata e rivolta proprio a lei. E ancora me ne rammarico se concordiamo, pare, su una comune attenzione a Fortini ( che – guarda un po’ – è presente anche nell’ultimo libro di recente pubblicato da Linguaglossa “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010”). Sull’accusa che io non conosco bene gli argomenti che affronto, vale quanto detto a LPLC.
@ Luna
Beh, se lei è la Luna, le dedico questa:
Errava lui.
E non erriamo noi?
L’avete preso in giro
perché ammattito
parlava con la luna.
E quella, come la morte
come *mamma soje
cha nun ngè cchiù*
vergine pallina
pallida, appesa
nell’azzurrino del suo alone
nulla proferiva.
Come si volevano
a distanza!
Lui, per corteggiarla
diceva:
Vedi, ci somigliamo.
Giri tu, sì, nel cielo.
Vago, io, qui pel campo.
Disperato io, certo.
Tu, non so, anzi no.
Diceva di tutto lui.
E pur con tremito
si diceva
si narrava
come me
che un po’ pastore resto
dannato la vita ad inciampare
in impieghi e supplenze
poi nell’abisso immenso
al quale meno affaticato
s’affacciò prima il mio antenato.
Pure lui allineava
‘sti guai della vita
e li snocciolava alla luna
ordinatino alquanto
ché iniziava dal nascimento
e in abbrivio, in sublime
cantava:
– Ahi, Natura
zucculona
indifferente! –
Piangeva pure?
Può darsi.
Poi s’addolciva
e se la portava per mano
la giovinetta immortale.
Le indicava le stupende facelle
e l’invocava
ché la ragione del tempo e delle cose
tutte intendeva, tutto lei sapeva
e il silenzio di lei
adesso gli piaceva.
A me la vita è male ! – sospirava
ma più non invidiava:
o forse e per finta le pecore
tanto si distraeva e volava
non rasoterra come me nella storia
ma sulle nubi, insieme ai tuoni
e, così volando e molto errando
s’avvicinava quasi alla candida luna.
Quasi felice riusciva.
A parole.
Embé, poco non è!
Vi chiedo di terminnare i commenti, vi prego di farlo. Qui, perché sono postate mie poesie e non altre cose. E la licenza Mondadori ( è pur sempre un Editore da non dileggiare) ed anche mia hanno un limite. Non si può permettere, e non si deve, il dopocena agli ebbri ma non divertenti presi dalla “boria” di sé. Questi si leggano piuttosto la risposta di Mario Monti all’Onorevole Calderoli! per ottenere il polso della situazione generale, che però implica qui anche noi, oggi in Italia. La poesia per Buffoni, Gezzi, Del Sarto, De Angelis, o per i non presenti Cucchi, Conte, Viviani è una cosa seria. Non facciamo mercato, o vanità egogentrica, di tutto quanto tanto per far ridere la gente che passa di qui. I tempi sono allarmanti, dice bene Simonetti, perciò siamo umili ma onesti. intransigenti su alcune cose, e leali anche se per qualcuno è faticosissimo.
Su richiesta dell’autore, chiudiamo qui la discussione su questo post.