di Daniela Brogi
La scena più feroce di Toni Erdmann si trova nella prima parte del film, e allestisce una situazione simbolica che ogni donna, più o meno consapevolmente, più o meno spesso, può essersi trovata prima o poi a impersonare. Ci troviamo in Romania, dove Ines Conradi (Sandra Hüller), tedesca, tra i trentacinque e i quarant’anni, sta lavorando più che può come consulente presso una compagnia petrolifera. Trovandosi suo malgrado a condividere la serata con il padre, Winfried (Peter Maria Simonischek), un uomo invadente che sembra passare la vecchiaia a fare scherzi e sorprese ridicole, al punto di presentarsi a casa della figlia senza nemmeno informarla, Ines decide di portarlo con sé a un ricevimento presso l’Ambasciata Americana di Bucarest. Lì, infatti, spera di incontrare Henneberg, un ricco e potente manager con cui la società di Ines vorrebbe stringere una trattativa. Siamo arrivati al punto: Ines e il padre arrivano dentro una sala da ricevimento, la figlia si libera del genitore spedendolo al Buffet, e si avvicina al manager; è impacciata, sorride, e per rompere il ghiaccio si complimenta per il discorso che ha fatto: lo lusinga, lo fa parlare di sé; e effettivamente funziona, perché l’uomo ricomincia subito a spiegare e sentenziare sui destini economici del mondo. Sarà Ines a rompere questo idillio, perché, appena riesce a interromperlo, gli ricorda l’imminente presentazione del suo progetto. A questo punto l’uomo annuisce distrattamente, e subito chiama a sé un’altra persona fuori campo («Tania!»), per dirle: «Questa è la tua specialista! Sono certa che la Signorina Conradi potrà aiutarti». L’occhio della macchina da presa si sposta, facendoci scoprire chi sia Tania, che intanto si è avvicinata: è l’elegante e silenziosa moglie del businessman, che il giorno dopo, per l’appunto, avrebbe bisogno di qualcuno che la accompagni a fare shopping. «Lei da quanto lavora qui?», chiede Tiriac a Ines, più goffa che mai per l’imbarazzo. «Oh, quasi un anno ormai!» risponde lei nervosamente, come chi spera ancora di farcela a sopravvivere a quella che potrebbe essere stata soltanto una gaffe, un fraintendimento. «Oh, allora credo – ribatte l’uomo – che potrai farle qualsiasi domanda sullo shopping!», voltandosi e piantando lì Ines, che si trova anche a dover ringraziare e acconsentire. Sono tutti eleganti, parlano bene, sembrano scambiarsi opinioni illuminanti, bevono champagne dai calici serviti sui vassoi, ascoltano buona musica, si sorridono educatamente: è il trionfo delle buone maniere, e proprio dentro tutta questa civiltà così ritualizzata si consuma, senza l’apparenza di alcuno strappo, la violenza di uno sguardo, di un discorso e di un’esibizione di genere che non vuole riconoscere alcuna serietà alla parola di una donna come portatrice di una voce che parla di lavoro, e che chiede, anche goffamente, di essere riconosciuta.
Con questa scena, che, come in tutto il film, lascia parlare le situazioni senza commentarle, ma spingendole fino a un punto massimo di autoevidenza espressiva, siamo già arrivati al codice stilistico e al tema dominante dell’opera, vale a dire l’umorismo – da anni non si rideva così tanto al cinema (e non svelerò dove); l’umorismo inteso appunto non come comicità autoriferita, ma come arte della scomposizione delle prospettive, sentimento del contrario. E, accanto ad esso, il tema forte del film, cioè il riconoscimento delle identità: di genere, come della relazioni affettive. Toni Erdmann è la grande storia del rapporto tra un padre e una figlia e dell’eredità complessiva che una relazione di questo tipo può conquistare nel tempo. Non si ride e basta guardando Toni Erdmann: ci si arrabbia, ci si può anche commuovere – se si trova il coraggio di farlo.
Il film ha inizio, significativamente, con uno scambio d’identità sotto forma di uno scherzo, e va avanti così per tutto il tempo, raccontandoci le avventure di un uomo in pensione e dalla salute precaria ma che, come una specie di grosso pagliaccio invecchiato, sfida la vita e le sue malinconie di perdita travestendosi di continuo: da suo fratello, da zombie, o da life coach di uomini d’affari, quando si infila nella vita della figlia; e, ancora, da ambasciatore tedesco, perfino da pupazzone peloso ispirato a una divinità bulgara: una creatura intermedia tra un albero, un cane o una scimmia senza volto. È un’identità inventata anche il nome con cui si presenta: Toni Erdmann. Davvero le forme in cui il personaggio viene fatto esistere dentro il film ci ricordano continuamente il significato originario di “persona”, cioè ‘maschera’.
Ma il tema del travestimento è così interessante perché non riguarda solo il padre, ma anche l’altra protagonista, sua figlia Ines, che, al contrario e per contrasto con lo spensierato polimorfismo creativo del genitore, è stremata dall’ansia continua di apparire, di stare dentro le uniche performance previste di sé (e la scena centrale del film smaschera, non solo simbolicamente, proprio questa situazione). Il fatto è che Ines non è banalmente una “donna in carriera”, per usare un’espressione così connotata di sessismo e che succede ancora di incontrare; o meglio, Ines è una “donna in carriera”, sì, ma nel senso che, come mostra così bene il film, l’identità è anche il risultato di apparenze, di abiti imposti (fate caso a tutti i piccoli inciampi, tra camicie macchiate, cerniere rotte, che via via Ines avrà con i vestiti); e così Ines è una “donna in carriera” nel senso che una donna adulta che lavora, soprattutto una donna tra i trenta e i quarant’anni, deve ancora spesso affrontare non solo l’impegno e la fatica del lavoro in sé, ma lo stress e la pressione di un immaginario circostante tante volte non così disposto, ancora, a riconoscere spazio; o a farlo solo a condizione di aggredire, interrompere il discorso, deviare l’attenzione, appiccicare addosso alla donna giovane che si esprime seriamente e che lavora tutte le narrazioni più umilianti e banalmente feroci: se pronuncia un giudizio critico negativo è isterica, se è bella va scopata, se scopa non mantiene grinta, se è ambiziosa è un’arrampicatrice, se dà tutta sé stessa non può avere una vita privata, se ti parla di lavoro tu le rispondi mandandola a fare shopping. L’ansia da prestazione (come mostra il personaggio così fugace ma intenso della giovane stagista di Ines) può diventare, per una donna, non solo la reazione soggettiva a un obiettivo professionale, ma, più spesso, la messa in scena di un destino sociale di sofferenza, perché fatto di scissioni continue – la fragilità, l’insicurezza non è una sfumatura di esotica tenerezza femminina, ma una condizione quasi inevitabile. «They can’t take away my dignity!» canta Ines, sgolandosi, e in un altro dei momenti più surreali, quando interpreta la canzone di Whitney Houston Greatest Love Of All.
Ma la trovata creativa di Toni Erdmann è la scelta di rappresentare tutto questo con il medesimo umorismo del suo protagonista: che comportandosi da buffone, rispecchia, spossessandoli della loro serietà e portandoli all’autoparodia, tutti i modelli di virilità patriarcale incarnati come identità uniche e assolute dai colleghi e dai superiori di Ines. E così, per esempio, ecco che, nella scena da cui siamo partiti, la vicenda si sviluppa con l’arrivo di Toni che, in una maniera del tutto incongrua, si mette a raccontare al manager che lui è il padre, ma, siccome Ines non va mai a fargli visita, ha assunto una figlia di riserva. «È migliore?» chiede Tiriac, con una battuta che insinua, di fondo, un’intesa di genere. «Sì, fa torte migliori! – risponde Toni, prendendolo alla lettera e facendogli da specchio – e mi taglia le unghie dei piedi!». E poi aggiunge riferendosi alla moglie statuina del suo interlocutore: «Ma lei non è sua figlia, no?».
Oltre che di travestimenti, Toni Erdmann parla di morti, di separazioni, di rinascite, di nuove identità: dalla parte dei padri come delle figlie. Come suggerisce il motivo stesso della buffa dentiera che è la cifra di tutto il film, il lavoro di Maren Ade parla, soprattutto, di cosa si può scoprire e imparare da un padre, e dall’idea di un padre estranea ai complessi di superiorità e ai conformismi. Toni Erdmann diventa, in questo senso, anche il desiderio proiettivo di una figura paterna che ti insegni a stare più vicino all’esperienza fisica degli affetti: alla terra (come suggerisce il buffo costume bulgaro, o l’etimologia tedesca di Erdmann: da Mann: “uomo”, e Erd, suffisso di Erde, che significa “terra”); che ti aiuterà a ridere, ma senza alcuna intenzione di appartenere alla famiglia blasonata e paurosa dell’identità patriarcale tradizionale. E si potrà allora imparare, anche da questo nuovo modello, la vitalità intelligente dell’umorismo. «Mica sarai femminista?» chiede uno dei capiufficio a Ines: «Se fossi femminista non potrei sopportare uomini come te!» replica la donna, con un motto di spirito che dice sé stesso, senza vittimismi. Eppure dice tutto.
[Immagine: Maren Aden, Vi presento Toni Erdmann, 2016]
Se Marine Le Pen vincerà le elezioni, avremo probabilmente tre donne alla guida dei tre più importanti stati europei.
“ Sabato 13 dicembre 2003 – « 31 dicembre 1939, domenica – Mi vien raccontata una spiritosa buffonata che sembra una trovata surrealista. Due pazzi stanno imbiancando una stanza. Uno sostiene la scala, l’altro, in vetta, dipinge. A un tratto il primo dice al secondo: “ Attaccati al pennello perché io devo portar via la scala “. » (Leonetta Cecchi Pieraccini, Agendina di guerra. 1939-1941, 1964) “.
P.s. Non ho ancora visto il film – ho visto solo il trailer -, ma devo confessare che mi preoccupa un po’: proprio lui, herr Erdmann. Questo incrocio fra Valerio Massimo Manfredi e Richard Branson – Valerio Massimo Manfredi + Richard Branson = Beppe Grillo. Non so se mi spiego. Buona domenica, cara Daniela.
Ho visto il film qualche mese fa, perché in Francia è uscito subito dopo Cannes (i critici francesi del festival, particolarmente entusiasti, lo davano per favorito). Può darsi dunque che il mio ricordo sia impreciso, ma avevo avuto l’impressione che non fosse tanto un film femminista (a meno di non intendere come tale ogni film fatto da una donna o che abbia per protagonista una donna) quanto una critica sociale del neoliberismo. La protagonista è dipinta in maniera spietata come una donna indurita e un po’ ridicola che ha sacrificato tutto per la carriera e che conduce una vita completamente alienata, dove tutto è brutto e triste, mentre il padre freak la salva riportandola alla vita vera (le maschere del padre fungono da dispositivo di straniamento – il vero «mostro» è la vita che conduce la figlia, e che si rivela nei momenti in cui il padre fa saltare l’illusione – e di smascheramento: la nudità). La morale della storia insomma mi era sembrata una critica sessantottina dell’alienazione, un po’ banalotta nelle intenzioni ma molto divertente.
Che ne dici Daniela?
Ciao Barbara,
ho visto il film due volte: la prima a Cannes, la seconda qualche giorno fa.
Non penso che sia un film femminista perché scritto e girato da una donna: in generale non lo credo mai. E, come ho scritto in un inciso dell’articolo, trattandosi di un’opera ironica, mi sono impegnata a non svelare le scene più interessanti, per non sciupare il gusto della scoperta, e dello straniamento. Cercherò di mantenermi su questa scelta anche adesso, ma, senza entrare troppo nei dettagli, le scena in discoteca, per esempio, o gli scambi di battute in macchina tra Ines e i suoi colleghi , a mio parere, non sono banali, ma hanno anche una connotazione di genere: spesso ci troviamo, per esempio, in mezzo a piccoli eppur significativi episodi di mansplaining.
Quando poi scrivi che per certi aspetti il vero mostro è proprio Lei, siamo d’accordo, ma soprattutto nel senso che ho discusso nell’articolo qui sopra, quando mi riferisco al sentimento continuo di scissione che una donna, soprattutto tra i trenta e i quarant’anni, può trovarsi a vivere, sotto la pressione di una sollecitazione continua alla produttività su tutti i fronti.
La dentiera che alla fine Ines indossa, reinventandosi simbolicamente un’eredità del padre, allude anche a questa possibilità di stare dentro una condizione così spezzata – e non per fragilità soggettive – pensandosi con umorismo.
Concordo con la lettura di Daniela Brogi, il film è sembrato anche a me la rappresentazione di una storia d’amore tra un padre e una figlia. La critica sociale evidentemente c’è ed è forte (si veda lo sguardo pieno di affetto rivolto agli ultimi, la sottolineatura della loro generosità) ma non è quello che conta nel film, secondo il mio parere. E mi è anche piaciuto molto che la storia non si concluda con la metamorfosi esistenziale della protagonista (della serie “Io ti salverò”). La figlia da ultimo indossa i denti ridicoli del padre e un cappellino buffo, ma se li toglie subito, quella non è la sua pelle, la sua malinconia è diversa da quella del padre. Lei andrà a Singapore, lavorerà per un’altra compagnia. Farà, insomma, la solita vita. Immaginiamo, tuttavia, che la straordinaria figura del padre, interiorizzata, l’aiuterà molto. E’ quello che mi è sembrato di leggere nello sguardo della donna dell’ultima inquadratura: una serietà forse ansiosa e insieme una forza nuova acquisita.
Ciao Daniela, grazie della risposta. Capisco cosa vuoi dire, ma la mia obiezione riguarda quale sia il tema centrale del film. La questione di genere è certamente presente, ma a mio parere (o almeno nel mio ricordo) è da interpretare all’interno della critica al sistema neoliberista che trasforma tutti in mostri, uomini e donne, e che anzi ha ormai divorato anche quelle che secondo il discorso femminista dovrebbero essere tradizionalmente custodi di altri e migliori valori. Per questo le donne nel film non hanno alcuna specificità morale (anzi: giustamente tu ricordi il personaggio dell’assistente che è forse il peggiore di tutti) e vengono dipinte come a un tempo carnefici e vittime: lei licenzia i dipendenti senza pietà, e senza pietà viene umiliata da capi e colleghi alla prima occasione, perché in quella forma di vita nessuno è innocente e tutti hanno perduto i sentimenti umani. Insomma, mi sembra che il sessismo, nel film, sia il prodotto del capitalismo: e per questo dicevo che mi sembrava una tesi vecchiotta e un po’ banale. Anche l’idea del padre mattacchione e disadattato, che non lavora e non produce (se non ricordo male, all’inizio si capisce che ha un passato da contestatario di sinistra) ma gioca e scherza tutto il tempo fa molto vintage (Marcuse, Bataille, l’inversione pazzi/sani ecc.). Detto questo, certo, è anche una storia di amore tra un padre e una figlia: dal capitalismo non può che salvare l’amore.
Cara Barbara,
no, non sono d’accordo: come ho scritto nell’articolo; e come ho scritto nel primo commento. Adesso, e con una rapidità di cui mi scuso ma che è inevitabile, scrivo nuovamente perché quel padre, e la relazione tra il padre e la figlia che il film inventa, non sono banalotti e basta, o banalmente figura dell’idea per cui dal capitalismo non può che salvare l’amore, come scrivi tu.
Una storia di finzione è tale non solo perché inventa fatti e situazioni che prima non esistevano, ma perché allestisce orizzonti di finzionalità dentro il quale si intrecciano e si intercettano significati, forme, anche emozioni e possibilità dell’immaginario che non si possono chiudere in una formula. Credo che il nostro piacere di cercare e consumare storie dipenda molto anche da questo.
“ 14 luglio 1992 – « Che denti lunghi che hai! », disse Cappuccetto Rosso. « È una protesi », precisò il Lupo. “.
Cara dottoressa Brogi, ieri sera sono andato a vedere Toni Erdmann. Spero che non si arrabbi se le dico che a me ha fatto venire in mente un vecchio diario: “ 19 marzo 1985 – Ripenso alle analisi classiche del fascismo: « la reazione agraria… ». Sì, c’è di mezzo la terra, ma in che senso, esattamente? “. Naturalmente ci sarebbero molte altre cose da dire, ma per ora voglio dirne soltanto una: che ho trovato meravigliosi, nei titoli di coda, i ringraziamenti alla ditta produttrice della dentiera – a proposito di umorismo.