di Alessandra Sarchi

[Oggi esce il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce (Einaudi Stile Libero). «Una giovane ha perso l’uso delle gambe in seguito a un incidente. Abita un corpo che non le appartiene più e si sente in esilio dal territorio dei sani», si legge nel risvolto di copertina. Sarà l’incontro con un’altra donna nella sua stessa condizione, Giovanna, a cambiare il suo modo di guardare se stessa e gli altri. Quelle che seguono sono le pagine in cui si racconta l’incontro fra le due donne. Ringraziamo l’editore per averci concesso di pubblicare questo estratto].

Di lei mi arrivò la voce, per prima. All’inizio mi aveva dato fastidio. Chiacchierava a un volume piuttosto alto dietro la tenda gialla che faceva da separé tra un cubicolo e l’altro, tra un lettino fisiatrico e l’altro, nello specifico, alla mia destra. Tutti chiacchierano in una palestra di riabilitazione fisica. Se uno entrasse senza sapere dove si trova penserebbe di avere davanti a sé una serie di pazienti dallo psicanalista o di fedeli al confessionale, perché è davvero impossibile non scambiare qualche parola, che spesso diventa un torrente di confidenze, quando di mezzo c’è un contatto fisico prolungato. La fisioterapista, Sonia, mi stava allungando i muscoli dell’anca, mentre io mentalmente disegnavo cerchi nell’aria con la punta del piede, come quando da giovane facevo danza, e le ero grata di lasciarmi a quell’evasione silenziosa. Sonia aveva capito che non sentivo la necessità di raccontare, quel giorno, e nemmeno di accogliere i suoi racconti, che in genere vertevano sulla famiglia e i suoi due figli piccoli, che non le lasciavano tempo per niente, a parte il lavoro.

Fuori pioveva forte e di rovescio sui vetri. Dall’altra parte delle tendine però crescevano le risate e, tra le due voci, ce n’era una che s’imponeva: di donna, argentina anche nei bassi, piena di scarti e risalite, come acqua che attraversi i coralli. Parlavano di modelle, forse, e a un certo punto solo delle gambe di Kate Moss, con sfoggio di confronti, comparazioni e disquisizioni sulla piattezza della rotula del ginocchio e su come i muscoli intorno potessero conservarsi tonici, dopo una certa età. Figurarsi. Come minimo la proprietaria della bella voce era paralizzata da una lesione spinale o da un ictus. Magari le era toccata una malattia del midollo o un’emiparesi con pochi anche se permanenti strascichi, una mano immobile e gonfia, un piede da tirarsi dietro, lacune di coordinamento motorio. In ogni caso se era lì qualcosa doveva esserle stato manomesso, e allora perché dissipare tante corde vocali per Kate Moss, quel corpo conosciuto in tutto il mondo come esempio di seduzione? Non c’era invidia, però, e nemmeno risentimento, solo un entusiasmo furioso per un corpo, o meglio per l’immagine di un corpo. Una mistica dell’idea di perfezione che può transitare in un paio di gambe, come si collegano al bacino, come finiscono in caviglie e piedi, e irradiano salute, forza, bellezza. Certo, anche la faccia contribuiva, ma tutto si concentrava nelle gambe, secondo la donna che parlava. D’altronde Madame de Staël aveva detto di avere il volto nelle braccia – pare avesse braccia bellissime, candide e sode – perché l’espressività uno la mette dove può. Anche l’anima, aggiunse.

La a finale di anima mi rimbalzò sul ginocchio, o forse sull’anca, sentii lo stesso rumore cavo che tanto mi aveva impressionato la prima volta. Non si preoccupi, mi aveva rassicurato il Dottor G, le sue ossa rimbomberanno ancora un po’ mentre si abitua alla lassità, poi subentrerà l’osteoporosi e non suoneranno più.
La voce di quella donna le aveva fatte risuonare dopo tanto tempo. Con curiosità, che a stento dominavo, ora volevo sapere di chi fosse quella voce che parlava di un’utopia per l’umanità che solo la stoltezza impediva di realizzare: gambe meravigliose per tutti, subito. Le sue parole erano canto e marcia. Un’irruzione sconsiderata di desiderio che sovrastava gli schiaffi della pioggia sui vetri e i borbottii afasici dell’anziano signore alla mia sinistra, affogato nel catarro e nella voglia di essere lasciato in pace, come molti lì dentro. Volevo vederla, la donna che stava nel cubicolo di fianco al mio e non smetteva di parlare, come se stesse resuscitando i morti uno a uno.
Era una cosa che mi capitava di rado. Non avevo mai amato lo spirito di categoria, la solidarietà imposta dalla condizione, neanche ci si dovesse trovare simpatici fra individui con un problema simile, neanche ci si trovasse simpatici fra biondi, mori, o laureati. Avevo anche una certa paura: un conto era sentire scorrere la sedia a rotelle sotto di me, vivere le lunghe stasi del mio corpo dall’interno, la singolarità della mia condizione, un altro era vederle speculari, oggettivate e per questo ancora più dolorose. Dovermi dire: io sono come lei.
La mia ora di trattamento era finita, cominciai a prepararmi per uscire recuperando le scarpe e la maglia, appoggiati su una sedia di fianco al lettino ortopedico. Dall’altra parte si accingevano alla stessa operazione, captai una voce che non era quella della donna, ma della sua fisioterapista che diceva: vuoi che ti aiuti?
Sotto la tenda, che non arrivava a terra, vidi passare una gamba artificiale, il piede, il polpaccio fino alla coscia di un materiale rigido, forse plastica, e l’imbocco con una fascia morbida di silicone, del solito color carne. Mi bloccai. Mi venne fuori una linguaccia di bambina che crede di non essere vista. Mi ribellavo ancora. Avrei voluto afferrarla e scaraventarla lontano, insieme alle carrozzine e alle stampelle di cui era piena la palestra. Che liberazione.

Non volevo più vederla, ma nel momento in cui sollevai la tenda venne scostata con forza anche quella del cubicolo vicino e la voce piena di bassi e di alti disse che aveva bisogno di più luce, che lì dentro era un mortorio, e scoppiò a ridere. Così me la ritrovai davanti per la prima volta, la donna senza una gamba e con l’altra paralizzata, e con la voce che rideva, producendo il suono di tante tazzine da caffè che tintinnano su un vassoio. Vedendomi disse: finalmente qualcuno che abbassa l’età media qua dentro.
Puntò verso di me la protesi poi la girò rapida per infilarla sul moncone con un colpo netto che mi fece sussultare. Annuii e risposi ciao. Potevamo essere coetanee, anno più anno meno. La studiai nei lineamenti, probabilmente lei era più giovane. Se uno deve stare all’inferno che almeno possa accompagnarsi a quelli della sua età, pensai, come se anche l’età potesse funzionare da elemento di divisione e raggruppamento non meno dei peccati. Al culmine della furia punitiva che aveva eccitato la fede nel Medioevo c’era una forma di pietà elementare: il simile col proprio simile, o una ferocia senza scampo: non vedrai mai altro che l’immagine di te stesso, della tua bruttura, della tua offesa al Creato, per l’eternità. Eppure la donna che avevo di fronte non ispirava nessuna bruttura.
Portava le mie stesse scarpe: ballerine morbide scamosciate, grigie le mie, nere le sue. Si chiamava come quell’altra che avevo conosciuto in piscina anni prima, o forse erano la stessa persona, anche se non ricordavo la protesi alla gamba, o quando l’avevo incontrata non la portava, comunque di sicuro era senza una gamba o forse le mancavano entrambe, ma allora non era la stessa persona. Possibile che non rammentassi con più precisione?

Si era sistemata in fretta, anzi, per usare le sue parole, si era ricomposta, e mi aveva invitato a prendere un caffè, dipanando un chiacchiericcio ininterrotto fino all’ascensore. Quanti anni avevo, da quanto tempo ero in sedia a rotelle, se era stata una malattia o un incidente, se era la prima volta che venivo nella palestra riabilitativa di quell’ospedale e se ne conoscevo altre. Le diedi risposte asciutte, senza il coraggio di farle, a mia volta, le stesse domande, di chiederle del suo passato e indagare la ragione della sua forza, perché la forza quando la incontri la riconosci, e lei ne aveva moltissima.
Mentre io, ancorata alla sedia, mi sentivo come le statue egiziane una successione di tre angoli retti, un’astrazione, lei bucava lo spazio in tutte le direzioni, faceva scomparire il ferro l’alluminio e il carbonio della carrozzina. Scorreva veloce. Con il ticchettio ritmico degli anelli alle dita sui cerchi metallici delle ruote, macinò lo spazio fino alla porta dell’ascensore, senza smettere di parlare e gesticolare. Dentro l’abitacolo, che era stretto, mentre mi sistemavo i piedi sul predellino, sfiorai il simulacro della sua gamba perduta e sentii il vuoto della plastica. Mi vergognai di quel contatto furtivo, poi pensai che Giovanna non lo avesse percepito. Quando risollevai lo sguardo, lei disse: Sai le cose che si sentono dire sull’arto fantasma? È tutto vero. La mia gamba è sempre lì, anche se non la posso toccare e vedere, è come un fascio di vibrazioni elettriche. A volte la sento piegata, a volte in movimento e vorrei fermarla. Dicono che s’impara a vivere in mezzo ai fantasmi o s’impazzisce, specialmente quando il fantasma sei tu, un pezzo di te.
Nel rinculo dell’atterraggio, mentre la porta si apriva, ebbi paura, non solo per quello che mi aveva appena detto, che era così vero, ma anche perché mi era apparso il demone con cui tante volte avevo lottato quando mi svegliavo a causa del rumore del carrello dei medicinali nella stanza dell’unità spinale, a notte fonda, e la certezza di non poter più camminare si riappropriava di me. Più ancora del non camminare era l’essere dentro quel corpo diventato estraneo e ingovernabile a terrorizzarmi, e il demone era lì, accucciato nei meandri del corpo perduto.
Dissi: l’apparenza non è niente. E mi sentii stupida.

Qui non si trattava di apparenza. Cosa succedeva a lei, mentre si stropicciava la stoffa del vestito sulla gamba che non c’era e per chi compiva quel gesto, per una se stessa che non esisteva più o forse compiendolo tornava a esistere? Erano domande che non mi azzardavo a fare.
Le chiesi allora delle gambe di Kate Moss, volevo aggrapparmi all’incantamento della sua voce, volevo sentirla parlare ancora di gambe strette e affusolate. Gambe lucide e morbide. Gambe dritte e falcanti. Gambe che corrono e saltano. Gambe che te le sogni anche di notte. Gambe che si aprono e si chiudono quando devono. Gambe che ti portano dove vogliono. Gambe che tiri su, contro la testiera del letto, di sera, per riposarti. Gambe che fai saltellare sui gradini. Gambe da rotolarsi sui prati. Gambe da stringere il bacino di un uomo. Gambe che danzano anche da ferme. Gambe che piegandosi fanno crac col ginocchio, ma è solo l’aria dentro le ossa. Gambe che sforbici davanti a te, stesa a terra, per tirare gli addominali, così capisci che sei un pezzo intero e indivisibile, non un assemblaggio di parti. Gambe che calcando sui talloni mordono la terra, come i denti mordono il pane. Gambe che si muovono prima che si muova la testa. Gambe che prima di imparare a camminare hanno imparato a scalciare. Gambe che d’inverno puoi coprire di collant colorati come frutti. Gambe che tremano all’altezza del ginocchio, perché il cuore trema. Gambe che accumulano acido lattico e diventano rigide come sassi, se corri senza essere allenata. Gambe che se non hai voglia di chinarti a raccogliere con la mano una biro caduta dalla scrivania puoi farlo con il piede, fra alluce e illice. Gambe che diventano leggere quando sono massaggiate. Gambe che comunicano la bellezza. Potevano anche non farlo, potevano solo reggere il peso e consentire gli spostamenti. Invece, anche lì inspiegabilmente, nelle gambe, noi cerchiamo e troviamo la bellezza.

[Immagine: Silvia Camporesi, Sink or Float (particolare)].

 

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