a cura di Massimo Gezzi
[La rubrica degli Inediti si apre oggi a un poeta nato negli anni Settanta: Federico Italiano, nato nel 1976, ha pubblicato le raccolte Nella costanza (Edizioni Atelier, 2003), I Mirmidoni (Il Faggio, 2006), L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010), L’impronta (Nino Aragno Editore, 2014). Nel 2015, per Feltrinelli Zoom, è uscita l’autoantologia Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000-2015. Presento cinque suoi inediti].
Le case degli altri
Non avevo paura delle case degli altri
da bambino. La porta semiaperta
di un bagno, la penombra
di un tinello, gli odori imprevedibili
di cucine in stand-by pomeridiano,
gli strapiombi di luce,
gli agguati alieni di collant dismessi,
o l’ambigua figura dell’anturio –
tutto si disponeva
cartograficamente nel presagio
di avventure future, tutto entrava
nella mappa dei tesori sepolti.
Non avevo paura delle case degli altri
da bambino, ma adesso
sono i loro fantasmi a farmi visita:
le ciabattine rosa,
che guadavano attente
le sconnesse distrazioni del gioco
la curva parabolica
di una pista Polistil, efferata
regolatrice di affetti e tensione
o il buio di un armadio,
nel fondo d’indumenti sconosciuti,
dove persi l’ossigeno che ora manca alla conta.
La vita su Marte
Era domenica e piovigginava.
Dal mio sofà guardavo le avventure
della vita su Marte, intorpidito,
vicino al sonno, quando
tra ghirlande di cavi saltò fuori
un astronauta in videoconferenza
con la figlia, radiosa tra i peluche.
E per un attimo fui padre anch’io,
poi figlio, solo figlio, nel momento
in cui le chiese degli esami a scuola
e un minuscolo agglomerato acquoso
cominciò a fluttuare dal suo occhio destro,
….in libera caduta dentro al vuoto,
….nel ritardo incolmabile di sedici tramonti.
Cartolina
Ti scrivo da un posto che non conosco,
dove sembra che i venti si rigenerino
negli angoli delle case e la luna
sia un fanale ricoperto d’insetti,
un luogo privo di ogni precedenza,
dove il timbro postale è un mio disegno,
la pianura un’invenzione stilistica
e l’angoscia un concetto cartografico.
Se tu ora fossi qui, ti infurieresti
perché scrivendo ho concesso che un luogo
simile esista, ma non preoccuparti
uscirò anche da questa cartolina:
….nel suo rovescio ho trovato la mappa
….che conduce in un’altra dimensione.
Pronome indefinito
Qualcuno servì un infuso con bucce d’arancia,
intonando il canto di David sull’orlo della notte,
prima dell’apparizione dell’orso.
Qualcuno ci confessò che il ricordo gli doleva
come un ginocchio dalla cartilagine consumata
e tranciò la polaroid con un morso.
Qualcuno annunciò la fine degli alibi, il crollo
dei pretesti, l’estinzione dei salvacondotti e il divieto
al transito per bestie in transumanza.
Qualcuno sosteneva che il drenaggio avesse sottratto
colore ai campi e privato stivali, zampe e zoccoli
dell’emblema della loro esistenza.
Qualcuno disse che nel ticchettio dell’orologio
si nasconde una finzione – e se tic-toc è già un romanzo,
toc-tic è trama post-apocalittica.
Qualcuno ci svelò i sentieri dei fantasmi, le tecniche
per smascherarli quando meno se lo aspettano
e la breccia nella loro dialettica.
Qualcuno dichiarò che non ci avrebbero salvato
le questioni vermicolari dei sapienti
ma ciò che crea gioia negli interstizi.
Qualcuno scorse un giardino nascosto nei tuoi occhi
una promessa floreale in forma di pupilla,
una serra in cui sbocciano equinozi.
Transito
Se piove e l’autunno ha semplificato
la vegetazione in litografie
se il tuo passato è più vero sul volto
riflesso dai finestrini del bus
e i cavi, i pali, le teste ciclopiche
degli autocarri in sosta
si srotolano in arazzi istantanei
nell’atrio della mente
estrometti la spina
rovescia la bugia
perché nel transito anche tu sei solo
il cereo fantasma di una moneta.
[Immagine: Foto di Gay Albert Halaban. Copyright (mg)].
Questo mi sembra chiaro: la nuova poesia tedesca, almeno da quanto si può evincere dalla poesia di Jan Wagner tradotta da Federico Italiano, si muove ancora nell’orbita della metafisica saussuriana S/s (significante/significato) e quindi all’interno della metafisica. Noi pensiamo invece che nella struttura simbolico/metaforica del linguaggio non sia rintracciabile un polo originario per cui ci si possa arrivare tramite la metafora o il simbolo, vale a dire tra la somiglianza fonica e la dissimiglianza fonematica. Non c’è una somiglianza ad un originario che possa fornirci un titolo di credito verso una presunta originarietà che non c’è e non c’è mai stata. Il rimario non ci conduce all’origine ma ad un sentiero interrotto, ad un Hozweg.
Invece, la nuova poesia italiana, come sappiamo, non assume il rimario e la somiglianza fonica come un originario, e elimina così la questione, taglia via un intero asset della retorica e della metafisica da essa dipendente. Noto con piacere invece che la poesia di Federico Italiano sceglie un’altra strada, si muove all’interno delle commessure tra le cose e il linguaggio.
La natura simbolico-metaforica del linguaggio, per Agamben, raccoglie e divide ogni cosa nella «commessura della presenza». Agamben propone un’interpretazione del linguaggio a suo parere più originaria di quella tradizionale. In quanto «commessura» il linguaggio deve essere pensato come «piega»: una dimensione che avviluppa al suo interno la differenza. Recupera così l’idea saussuriana della langue come rete di differenze, anziché sistema di segni, per cui il segno sarebbe un momento successivo alla differenza. La differenza divide, e diventa segno.
Come glossa Giuseppe Talia:
Non c’è un’anima che è la guardiana della originarietà,
l’anima, se c’è, è un repertorio di cose senza parole
che devono indossare un vestito di parole.
Trovo questi tre versi illuminati, a partire dalla negazione iniziale e il relativo “che” che alza la posta alla protasi “se”, senza parole e il soggetto (anima-repertorio) che si sparpaglia in una miriade di cose, mute e nel momento in cui vengono nominate la semasiologia le veste di parole.