di Vanni Santoni
[Esce in questi giorni, nella collana Solaris di Laterza, La stanza profonda di Vanni Santoni. Testo ibrido tra saggio e romanzo, ma sbilanciato verso il romanzo, La stanza profonda racconta una subcultura giovanile negletta che era in realtà un’avanguardia – i giocatori di ruolo. Ma racconta anche la provincia italiana, la sua dissipazione e la nascita di un mondo in cui non è più ovvio che il virtuale sia meno importante o meno reale del reale].
Perché il gruppo sia veramente al completo, mancano ancora due elementi. La prima è Leia, resa all’oggi da quei giorni d’infanzia. Quando arriva, nessuno dei ragazzi le darebbe tre lire, né aiuta il fatto che abbia già giocato con te, visto che all’epoca avevate nove anni. Depone a suo favore giusto il fatto che quello è il suo nome vero, segno che i suoi seguono una via onorevole. È forse quel latente pregiudizio da liceali, che tiene le donne lontane dal tavolo a meno che non siano davvero anticonformiste, e anche in tal caso le fa avvicinare più tardi, e peggio. C’è anche un fondo di realtà: quasi sempre le ragazze che si avvicinavano al gioco lo facevano senza interesse, spesso per via di un compagno giocatore, e finivano per tirare due dadi, non capire mai fino in fondo cosa stava succedendo, magari morire pure alla cazzo tra i risolini, perché il coinvolgimento, prima ancora che l’attenzione o la competenza, nel gioco di ruolo è la chiave della sopravvivenza. Invece Leia, quella ragazza ben diversa dalla bambina taciturna degli anni ottanta vallombrosani, tornata in valle dalla Bologna dove ha studiato, per fare il dottorato in letterature comparate a Siena, da una Bologna degli anni novanta che alle vostre orecchie è come Berlino, con le sue storie da un altro mondo e le cose che sa, e voi non sapete, Artaud e Dürrenmatt, la poesia inglese e francese dell‘800 a memoria, le controculture e Hakim Bey e i rave ben prima che il Paride, il Mella e compagnia ne scoprissero l’esistenza e venissero a darvene notizia, quell’alfiera insomma di un mondo altro, più grande e aperto della vostra provincia, sarebbe diventata anche l’alfiera del fine playing più estremo, potenza e controllo nella piena interpretazione del personaggio. Quasi precisa quanto il Paride e il Bollo e allo stesso tempo fantasiosa quanto il Silli e spontanea quanto Andre, e quindi la migliore, se avesse senso catalogare così i giocatori. Di certo la ammirate tutti, a parte il Silli, che con lei avrà sempre un atteggiamento un po’ sostenuto, sospeso giusto quando scoprirà (lei mai ne avrebbe fatto parola) che era pure la traduttrice italiana di un paio di moduli. In ogni caso, di avere un legame speciale con la stanza lo dimostra quasi subito.
Alla prima giocata non va in bagno. Fa il personaggio, un’arciera abbastanza standard, destrezza e prontezza alte e pedalare, puro entry level, tira due frecce ai mostri e se ne torna a casa. Alla seconda, giusto il tempo di cominciare la sessione e chiede dov’è la toilette. I ragazzi ghignano. C’è infatti tutta una mitologia intorno all’andare in bagno, intorno al raggiungerlo; intorno, insomma, ai tuoi fondi. Perché sono grandi, e irrazionali quanto possono esserlo i fondi di una casa – o meglio di due case, perché è sottoterra che le due abitazioni di genitori e nonni trovano una comunione, intrecciando le rispettive combinazioni di garage, cantine, ripostigli, stanze della caldaia, accessi al giardino, scale, scalette, cucine aggiuntive e stanze di servizio – progettata da un non professionista come il padre di tua madre. Questa casa l’ho fatta io, aveva a dire, e non era del tutto falso, perché i lavori li aveva davvero diretti, assieme a un geometra suo amico. Certo a quei tempi immaginava che una casa così, in altura, sarebbe stata eterna, e non solo nei muri e negli impianti, ma anche nella posizione, nel ruolo e nel valore rispetto ai paesi vicini e rispetto all’Italia, e l’Italia rispetto al mondo; che mai si sarebbe potuta dissipare la città, la nazione, la realtà intorno. Di tutto quel lavoro, i fondi dovevano essere la parte che lo rendeva più orgoglioso, dato che ci passò metà della sua vita. Il suo laboratorio, altrimenti detto “stanza del miele” – eccolo in una foto in bianco e nero, in maschera e affumicatore; eccolo in un’altra più recente, col padre della vostra amica di villeggiatura Cristiana, suo sodale nell’apicoltura – era il luogo dedicato alla sua passione, e anche dopo che lui era morto, e da dieci e più anni, esalava un profumo solo un poco polveroso di cera, propoli e corbezzolo, che poteva ben essere inteso come un fantasma, tant’è che il Silli si divertiva sempre a dire ai nuovi arrivi che una volta, andando in bagno durante una giocata protrattasi fino a molto tardi, ne aveva incontrato lo spettro. Vi è in effetti molto di spettrale in quel susseguirsi contorto di stanze, in cui, nell’accumularsi degli oggetti più vari, delle attività di tuo nonno e tuo padre e tua nonna, si erano polarizzati angoli tutti caotici e diversi tra loro, ma affini per spirito e attitudine: un’eco, un’aura, un campo psichico magari benevolo ma comunque inquietante. E non è la sola insidia. Ci sono i ragni, che affollano alcune aree degli immensi e polverosi sotterranei (amano in particolare un vecchio divano – mai sedersi lì – e gli angoli delle stanze di passaggio), cacciatori che escono a notte fatta e vengono quindi regolarmente sorpresi a mezzo muro o sulla lavatrice dal giocatore che, andando verso il bagno, accende d’improvviso la luce; ragni a volte innaturalmente grossi, tegenarie domestiche mai schiacciate – tuo nonno, figurarsi, non uccideva manco le vespe – e le tegenarie vivono a lungo, e come tutti i ragni non smettono mai di crescere, così dopo trenta, quarant’anni, raggiungono dimensioni, se non da migale, da ragno lupo australiano certamente. Scolopendre, poi, rapide nel loro acciottolio di cheratina sul pavimento; a volte, in estate, nidi di calabroni che si insediano dietro i cassoni degli avvolgibili, specie nella stanza del miele, attratti da quegli afrori, dalla promessa di cibo e terre di conquista. E tutta una serie di minacce inorganiche, i cavi scoperti nella cucina, il fornelletto a bombola che getta lingue di fuoco quando l’incauto di passaggio pensa di usarlo per accendersi una cicca, il forno a gas pure incendiario, le travi e i pezzi di arnia e portafavo appoggiati ovunque, irti di chiodi arrugginiti come trappole vietcong, i vecchi mobili stracolmi che possono crollarti addosso se solo li sfiori, le scaffalature di lamiera che danno la scossa perché toccano una presa rotta da qualche parte, impossibile da scovare dietro il sovraccarico di quaderni, barattoli, utensili, scatoloni a loro volta pieni di scatole da scarpe ricolme di cavi, colori, giocattoli, ninnoli e cianfrusaglie, tavoloni, già spessi e ingombranti di per sé, completamente pieni di casse, cassoni, ziri d’olio, enormi racchette di vimini un tempo sempre piene di susine portate da parenti e amici di famiglia, cassettiere e credenze in bilico su zampe laccate e instabili, ancora più pesanti perché, oltre che ricolme di roba, riempite anche nel loro ventre di libri, vecchi corredi, servizi di piatti e bicchieri e trenini e bottiglie vuote o piene di vino divenuto da tempo liquore, borracce Stella Alpina e scatole di fiammiferi e tritacarne di metallo e statuine di ceramica senza mani o testa.
Né mancano, appunto, le minacce astratte: il quadro col clown, il manichino da sarta della zia di tua madre, in agguato senza volto in un angolo della stanza della caldaia, le tre bambole di porcellana che la nonna considerava di pregio e forse lo erano prima di tramutarsi in esseri tarmati, spelacchiati e certamente maledetti; il piccolo cavaliere medievale, infine, un nano in armatura, che non è altro, poi, che un vecchio costume di carnevale realizzato da tuo padre con bristol e spray metalizzati, gioia di bimbo che ora, le due mani appoggiate alla spada e il cimiero reclinato, pare solo pronto a svegliarsi e uccidere, a mettersi alla testa dei tre pupi siciliani, appesi al muro come impiccati, dono dei parenti di giù, Bradamante, Rinaldo e Orlando, le facce terrifiche, con gli occhi da trireme dipinti grossolani sul legno…
Per questo, e per via della struttura labirintica, che anche i più attenti impiegavano un bel po’ a dominare, andare in bagno è un affare a sé, da farsi velocemente, col fiato sospeso, i più suggestionabili, o aracnofobici come il Bollo, addirittura con gli occhi socchiusi, e quando qualcuno va c’è spesso il risolino, un risolino che vuol dire “chissà se tornerà”, e così esorcizza la possibilità che possa capitare a voi. Così, quando Leia, la ragazza carina nuova, l’ingenua neofita, chiede dove sia il bagno, ecco alzate di sopraccigli e triangolazioni di sorrisi.
Insomma, dov’è?
Allora, prendi quella porta…
Cosa ridete, voi?
Non gli dare retta… Dicevo, esci di qua, vai a dritto, non la prima porta, la seconda a sinistra…
NON andare nella porta a destra. Il Paride.
Perché, cosa c’è nella porta a destra?
Ma niente, la stanza della caldaia…
Sì certo della caldaia e del…
E dai, Paride. Non gli dar retta, davvero.
Perché, cosa c’è?
Un manichino, nulla di che. Dicevo, seconda porta a sinistra, ti trovi in un garage, ci sono tre porte, prendi quella nell’angolo in fondo a sinistra.
O’ cos’è, un dungeon?
Gli altri si guardano come a dire è sveglia questa, magari dura più di due giocate…
[Immagine: Pierre Huyghe Streamside Day]
Qui, come in altre parti dell’impianto ibrido tra narrazione e il digressivo, è potentissima la sorgente didattica del GdR. Come pure nell’ambito dei Free Party – espediente centrale, “caleidoscopico”, del precedente testo di Santoni, simmetrico e complementare a questo, “Muro di Casse” – anche nel paradigma comportamentale di Dungeons&Dragons vi è una forte componente di responsabilità coadiuvata, un’alternativa, se vogliamo, – ed è qui la rilevante caratura sociale che emerge da “La Stanza Profonda” – al modello neoliberista, il cui ingranaggio centrale si basa sulla competitività, sulla dialettica privata, sul tèlos individualista. Così come certe forme di ImproTeatro, o sui laboratori biomeccanici della (pre-)drammaturgia contemporanea, centrano la dinamica attuativa del gesto “produttivo” su una tensione comune. Ecco, nel piano di questa sineddotica post-narrativa, in cui Santoni “racconta” il contemporaneo attraverso il _frame_ culturale, per quanto marginale – si fa per dire – per quanto “sotterraneo”, sembrano poggiare i fondamenti ideologici dei due volumetti usciti nella collana ‘Solaris’.