di Marielle Macé

[Un incontro con Marielle Macé dà inizio il 3 aprile, a Bologna, al ciclo “Prospettive critiche”, organizzato ogni anno dall’Istituto francese in Italia allo scopo di proporre al pubblico italiano uno sguardo sulle novità della scrittura saggistica e letteraria transalpina. Quest’anno, in occasione dell’anniversario dei Trattati di Roma, il ciclo s’intitola “Alternative europee”; gli incontri e le varie conferenze, che si terranno in diverse città italiane, proporranno una riflessione sui vari immaginari contemporanei dell’Europa. In occasione di ogni incontro un breve testo di approfondimento apparirà in anteprima su Le parole e le cose.
Marielle Macé, direttrice di ricerca presso il CNRS, insegna letteratura all’EHESS e alla New York University. Tra le sue pubblicazioni più recenti,  La lettura nella vita (Loescher, 2016, titolo originale in francese: Façons de lire, manières d’être, Gallimard, 2011), Styles. Critique de nos forme de vie (Gallimard, 2016) e Sidérer, considérer. Migrants en France (Verdier, 2017, in corso di stampa)]

Cosa significa interessarsi alle forme di vita? Significa interessarsi alle forme che animano, attraversano o abbandonano ogni singola vita – forme singolari e tuttavia impersonali: gesti, ritmi, legami, modi di relazionarsi, abitudini, habitat, modi di fare, modi di essere, pratiche, istituzioni, credenze… Il che non significa interessarsi a ciò che ogni vita ha di unico o di necessariamente insostituibile, ma a ciò che essa ha in comune e non con altre vite. Come viviamo, qui, altrove, e come vorremmo vivere, e potremmo vivere diversamente? Sì, “come?” è la domanda – ma anche il tormento – che apre ogni attenzione alle forme di vita.

Alcuni mesi fa ho pubblicato un saggio dal titolo Styles. Critique de nos formes de vie[1][Stili. Critica delle nostre forme di vita] che cerca di rivolgere lo sguardo proprio su questo. E a poco a poco ho capito che un simile approccio reggeva, in fine, una convinzione etica e politica a parer mio essenziale: quella dell’uguaglianza delle vite. Perché se ogni vita merita considerazione non è per il fatto di essere unica, anche se evidentemente lo è, ma per il fatto di essere uguale. E ciò che rende una vita “uguale” sono proprio le sue forme, singolari ma condivise, simili e dissimili, in comune e non con le altre vite.

Perché questo è particolarmente importante al giorno d’oggi? Perché il nostro appuntamento con la Storia è giocato sull’accoglienza di cui noi ci mostreremo collettivamente, e cioè “europamente”, capaci. Solo la convinzione profonda dell’uguaglianza delle vite può (ri)svegliare in noi la decisione collettiva dell’accoglienza. Eppure, come dimostra l’attuale situazione dei «migranti», è come se considerassimo che alcune vite non sono del tutto vite: non del tutto vive, non del tutto vissute e, anzi, perfino già un po’ morte – col risultato che la loro perdita non assume completamente le sembianze di un lutto[2]. Altrimenti come potremmo sopportare di veder naufragare sotto i nostri occhi così tante vite, se non attraverso una specie di incredulità, di difficoltà nel sentire che sono assolutamente vive e assolutamente vissute? È un pensiero assurdo, insensato, ma ben presente e molto efficace. È nostro compito stanarlo dentro di noi, “decolonizzarci” da una simile idea, e sposare la convinzione reale, ovvero realmente provata e concretamente messa in opera, dell’uguaglianza fondamentale delle vite. Non esistono vite meno vissute o meno vive di altre; nessuno è di troppo; ogni morte nel Mediterraneo dovrebbe assumere ai nostri occhi il senso immediato di un lutto, collettivo e pubblico: i morti nel Mediterraneo sono i nostri morti, definiscono chi siamo, chi è “noi”, chi è il “noi” europeo. – Il nome di un collettivo romano lo dice con forza: Nuovi Europei[3]. Sì, l’Europa deve definirsi attraverso coloro che arrivano e che ci arrivano. I migranti non sono gli “altri”, al cui contatto (distante e repulsivo) si definirebbe l’Europa: i migranti sono i nuovi europei, coloro grazie ai quali l’Europa esiste, coloro grazie ai quali l’idea di Europa potrà perfino conservarsi.

Portare avanti la convinzione dell’uguaglianza delle vite significherà, per esempio, superare il sentimento di siderazione e predisporsi alla considerazione[4]. La considerazione paziente di ciò che viene vissuto, perché si tratta innanzitutto di prendere atto che quelle che abbiamo di fronte sono vite, vite vissute, attraversate in prima persona, giorno per giorno, qui. Il che non significa certo che siano vivibili; ma pienamente vissute, quello sì. Nel caso dei migranti, questo presuppone un interessamento al loro quotidiano, che altro non è che l’insieme delle forme di vita. Forme di vite vissute: il ritmo dei giorni, il rapporto con gli oggetti, con i luoghi abitati, le relazioni ostacolate, o al contrario ricreate, il modo di vivere le proprie lingue, il proprio corpo, l’aria che si respira, i paesaggi che si attraversano. Questo ci permette, ad esempio, di scoprire tutto ciò che si tenta e si costruisce in pratica negli accampamenti. Perché ci si costruiscono molte cose: ripari, spazi collettivi, luoghi di culto, legami, abitudini, forme di sociabilità, perfino mobilitazioni, vale a dire pratiche politiche.

Dobbiamo rivolgere lo sguardo in questa direzione, verso la quotidianità dei migranti, o meglio verso le quotidianità di tutti coloro che noi chiamiamo migranti. Com’è la vita in un campo? Come si parla, come si mangia? Come ci si relaziona gli uni agli altri? Come si soffre? Ma anche: come si ama, come si ride, come si sogna? Così facendo smetteremmo di pensare con tanta facilità che esiste un “noi” e un “loro”, la nostra forma di vita e la loro, come due piccoli recinti separati. No, non c’è la nostra forma di vita e la loro: ci sono ovunque, e per tutti, modi in cui la vita va e in cui noi la facciamo andare, gesti, legami, luoghi, idee di vita e idee di città, simili e dissimili, che ci uniscono e ci strappano gli uni agli altri, in modo molto diverso da come lo fanno le nostre appartenenze, le nostre biografie o le nostre «identità».

Quindi, per poter parlare di queste vite tentate (e spesso devastate) ai confini con le nostre, è inutile evocare il concetto – avvilente, pietrificante e immobilizzante – di «nuda vita»: quello che dobbiamo considerare sono le “vite”. Perché non esiste la «nuda vita», non esistono vite senza valore; esistono solo vite denudate, rese precarie e denigrate (denudate da qualche atto di violenza, denigrate dall’assenza di considerazione, e innanzitutto di diritti).

Era, sarebbe stato (e sarà) fondamentale, per esempio, far conoscere la cosiddetta Giungla di Calais come un «luogo di vita»: non solo spazio insalubre, pericoloso o «indegno», ma anche luogo di vita, nel quale si vivevano effettivamente delle vite; questo non significa certo che quel luogo fosse vivibile, o che si sarebbe dovuto renderlo permanente, ma ci obbliga a vedere e a sapere che era effettivamente vissuto, abitato, utilizzato. Che a Calais, il campo era già diventato una «bidonville», un «abbozzo di città», come afferma l’antropologo delle migrazioni Michel Agier[5]: uno spazio di costruzione, di abitazione, di socializzazione, di traduzione, di creazione e di rafforzamento dei legami; uno spazio anche politicizzato, nel quale si reclamavano, si speravano, si preparavano altre forme di vita.

Il tribunale di Lille ha tentato di far riconoscere Calais come un luogo di vita[6]. Questo avrebbe impedito il passaggio indisturbato delle ruspe sulle decine di ristoranti, sui luoghi di culto, sulle tre scuole costruite dai rifugiati stessi. «Questa non è vita», si dice; sì; ma anche no, perché alla fin fine è pur sempre vita; e persino per affermare che essa non è vivibile, per denunciare a gran voce le condizioni che le sono imposte, bisogna riconoscere che è pienamente vissuta, giorno dopo giorno, in prima persona. E’ comunque una vita. Coloro per i quali la vita è questa, non ne hanno a disposizione un’altra. Solo la collettività, solo noi europei, possiamo dar loro l’opportunità di averne e di costruirne altre.

 

[Traduzione di Francesca Bononi e Chiara Pellegrino]

 


[1] Marielle Macé, Styles. Critique de nos formes de vie, Paris, Gallimard, 2016.

[2] Si veda a questo proposito Judith Butler, Ce qui fait une vie. Essai sur la violence, la guerre et le deuil, Paris, Zones, 2010.

[3] Associazione Nuovi europei, https://www.facebook.com/Associazione-Nuovi-Europei-1390649017905472

[4] Marielle Macé, Sidérer, considérer. Migrants en France, Lagrasse, Verdier, 2017. È soprattutto l’azione del collettivo PEROU ad aver ispirato il titolo di questo libro in stampa; si veda: Considérant qu’il est plausible que de tels événements puissent à nouveau survenir. Sur l’art municipal de détruire un bidonville, testi riuniti da Sébastien Thiéry, Paris, Post Éditions, 2014.

[5] Michel Agier, in Décamper. De Lampedusa à Calais, un livre de textes et d’images & un disque pour parler d’une terre sans accueil, sotto la direzione di Samuel Lequette e Delphine Le Vergos, Paris, La Découverte, 2016.

[6] https://passeursdhospitalites.files.wordpress.com/2016/08/dc3a9cision-ta-lille-12-08-2016.pdf. Ordinanza sulla quale il Consiglio di stato è sinistramente e sistematicamente tornato: http://www.conseil-etat.fr/Decisions-Avis-Publications/Decisions/Selection-des-decisions-faisant-l-objet-d-une-communication-particuliere/CE-ministre-de-l-Interieur-12-octobre-2016 ; Ringrazio Loïc Azoulai per avermi fatto conoscere questi documenti giuridici.

[Immagine: Paolo Pellegrin, Desperate Crossing]

4 thoughts on “Vite uguali

  1. Certo che tutte le vite sono vite, e si somigliano anche in questo: che tendono ad affermarsi anche a danno di altre vite.
    Un po’ di riflessione su questo tema forse gioverebbe alla gentile signora Macé.

  2. «non esistono vite senza valore; esistono solo vite denudate, rese precarie e denigrate (denudate da qualche atto di violenza, denigrate dall’assenza di considerazione, e innanzitutto di diritti)» ( Macé)

    Caro Roberto Buffagni , Marielle Macé non fa che affermare i diritti dell’uomo che oggi sono trascurati e cancellati. Lo tenta ormai fuori tempo massimo? Bisognerà rifare (altrove) la Rivoluzione francese del 1789? Forse. Tu però la liquidi troppo in fretta e vai al (solito) sodo: la gentile signora dimenticherebbe che la vita è (anche o soprattutto) *struggle* e che tutte le vite «tendono ad affermarsi anche a danno di altre vite». Sempre? In ogni caso? I profughi o i migranti che scappano da situazioni di guerra o dalla miseria tenderebbero in ogni caso ad «affermarsi anche a danno di altre vite»? Nel caso qui analizzato non mi pare. La Macé fa notare ai distratti intellettuali europei con le fette di salame ideologico (buonista o cattivista poco importa) sugli occhi che la « la cosiddetta Giungla di Calais», giungla non era, se «il campo era già diventato una «bidonville», un «abbozzo di città», come afferma l’antropologo delle migrazioni Michel Agier: uno spazio di costruzione, di abitazione, di socializzazione, di traduzione, di creazione e di rafforzamento dei legami; uno spazio anche politicizzato, nel quale si reclamavano, si speravano, si preparavano altre forme di vita».
    Perché non spendere un pensierino in più su questa faccenda e affacciare qualche ipotesi? Se quella spinta costruttiva, manifestatasi in condizioni tanto difficili, fosse vera e documentata (come mi pare) e venisse provato che i migranti sono riusciti a *restare umani*, dimostrando cioè che si parla, si mangia, ci si relaziona gli uni agli altri, si soffre, ci si ama, si ride, si sogna persino in quelle condizioni invivibili (per noi), non verrebbe smentito l’ormai diffuso darwinismo sociale che dipinge profughi e migranti come pericolosi invasori, quasi tutti collusi coi “terroristi”? Neppure mi permetto di immaginare cosa sarebbe potuto accadere se quella spinta costruttiva e vitale fosse stata riconosciuta, governata e maturata politicamente invece che essere soppressa in culla com’è accaduto. E tuttavia, non mi pare che quei migranti abbiano procurato alla società (francese) i danni che sicuramente le procurano certi funzionari del capitale che chiudono fabbriche e le esportano nei paesi dell’Est, certi mercanti d’armi, certi esportatori di democrazia a suon di bombe. Non sono più ardui da risolvere i gravi problemi che creano costoro? Forse la signora Macé è troppo ottimista a pensare che da soli « i migranti sono i nuovi europei, coloro grazie ai quali l’Europa esiste, coloro grazie ai quali l’idea di Europa potrà perfino conservarsi». Eppure, se anche una parte di “noi” si alleasse con “loro”…

  3. Caro Abate,
    una parte di “noi” si è GIA’ alleata con “loro”, e sono precisamente “certi funzionari del capitale che chiudono fabbriche e le esportano nei paesi dell’Est, certi mercanti d’armi, certi esportatori di democrazia a suon di bombe” + le classi dirigenti politiche UE + le agenzie addette alla gestione dell’immigrazione + le Chiese cristiane tranne l’Ortodossa.
    Delocalizzazione delle imprese, immigrazione di massa, destabilizzazione del Medio Oriente sono fenomeni strettamente correlati, nei quali la responsabilità etica e politica degli immigrati è = 0.
    A me poi pare che non si sia bisogno alcuno di provare che “i migranti sono riusciti a *restare umani*, dimostrando cioè che si parla, si mangia, ci si relaziona gli uni agli altri, si soffre, ci si ama, si ride, si sogna persino in quelle condizioni invivibili (per noi).” Personalmente ne sono sicurissimo, certo che si resta umani anche in condizioni difficilissime, ben più difficili di quelle! Si resta umani in guerra, si resta umani in condizioni di dura prigionia, etc.
    Ti vorrei solo ricordare che nell’aggettivo “umano” ci stanno dentro tante cose. L’autrice dell’articolo, e mi pare anche tu, espunge dall’aggettivo “umano” alcune regolarità del comportamento degli esseri umani che io invece trovo molto rilevanti. Una è quella che ho ricordato io nel mio breve commento: il conflitto come dato permanente nelle comunità umane. C’è sicuramente anche la collaborazione, ma di solito si collabora più facilmente con il simile che con il diverso. E’ anche questa una regolarità che si vede all’opera in tutti i paesi dove c’è immigrazione di massa: da un canto gli immigrati formano enclaves extraterritoriali su base etnica e religiosa, dall’altro gli autoctoni manifestano sempre più forti sintomi di rigetto, paura, insofferenza.
    E’ “umano” anche questo, no? E dimenticarsene non fa bene.

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