di Clarice Lispector
[Poche settimane fa Adelphi ha pubblicato la traduzione di Água viva (1973), di Clarice Lispector, a cura di Roberto Francavilla. Nel testo che segue si riporta la traduzione, per gentile concessione della casa editrice, la versione originale delle prime pagine e una nota di Roberto Francavilla preparata per Le parole e le cose (dbr)]
È con un’allegria così profonda. È un tale alleluia. Alleluia, grido, alleluia che si fonde con il più oscuro ululato umano del dolore della separazione ma è un grido di felicità diabolica. Perché nessuno mi tiene più legata. Sono ancora capace di ragionare – in altri tempi ho studiato matematica che è la follia del ragionamento – ma ora voglio il plasma… voglio nutrirmi direttamente della placenta. Ho un po’ di paura: paura di lasciarmi andare perché il prossimo istante è l’ignoto. Il prossimo istante lo creo io. O si crea da sé.| Lo creiamo insieme con il respiro. E con una disinvoltura da torero nell’arena.
Te lo dico: sto provando a cogliere la quarta dimensione dell’istante-adesso che da quanto è fuggevole già non è più perché si è appena trasformato in un nuovo istante-adesso che neppure lui è più. Ogni cosa ha un istante in cui è. Voglio impossessarmi dell’è della cosa. Quegli istanti che passano nell’aria che respiro: fuochi d’artificio che esplodono muti nello spazio. Voglio possedere gli atomi del tempo. E voglio catturare il presente che per la sua stessa natura mi è interdetto: il presente mi sfugge, l’attimo svanisce, l’attimo sono io sempre nell’adesso. Solo nell’atto dell’amore – nella limpida astrazione siderale di ciò che si sente – si coglie l’incognita dell’istante che è duramente cristallina e vibrante nell’aria, e la vita è questo istante irraccontabile, più grande dell’avvenimento in sé: nell’amore l’istante di impersonale gioia riluce nell’aria, gloria strana di corpo, materia commossa dal brivido degli istanti… e ciò che si sente è allo stesso tempo immateriale e così oggettivo che è come se accadesse fuori del corpo, fa scintille in alto, allegria, l’allegria è materia di tempo ed è l’istante per eccellenza. E nell’istante si trova l’è dell’istante stesso. Voglio cogliere il mio è. E canto alleluia all’aria, come fanno gli uccelli. E il mio canto non appartiene a nessuno. Ma non c’è passione sofferta con dolore e amore a cui non segua un alleluia.
Il mio tema è l’istante? Il mio tema di vita. Cerco di stare al passo con lui, mi divido migliaia di volte, tante volte quanti sono gli istanti che passano, frammentaria io, e precari i momenti – mi dedico solo a una vita che nasca con il tempo e con lui cresca: soltanto nel tempo c’è spazio per me.
Ti scrivo tutta intera e c’è un sapore nell’essere e il sapore-di-te è astratto come l’istante. È anche con tutto il corpo che dipingo i miei quadri e sulla tela fisso l’incorporeo, io corpo a corpo con me stessa. Non si comprende la musica: la si sente. Sentimi dunque con il tuo corpo intero. Quando mi leggerai chiederai perché non mi limito alla pittura e alle mie mostre, dato che scrivo in modo grezzo e disordinato. È che adesso sento il bisogno di parole… e quello che scrivo è nuovo per me perché la mia vera parola è ancora intatta. La parola è la mia quarta dimensione.
Oggi ho terminato la tela di cui ti ho parlato: linee curve che si intersecano, tratti sottili e scuri, e tu, che hai l’abitudine di voler sapere perché – e il perché a me non interessa, la causa è materia del passato – chiederai perché i tratti sottili e scuri. È a causa dello stesso segreto che ora mi fa scrivere come se fosse a te, scrivo rotondo, intricato e tiepido, ma a volte gelido come gli istanti freschi, acqua di torrente che trema sempre. Ciò che ho dipinto su questa tela è suscettibile di essere messo in una frase di parole. Tanto quanto può essere implicita la parola muta nel suono della musica. Mi accorgo che non ti ho mai detto come ascolto la musica… appoggio leggermente la mano sul giradischi e la mano vibra trasmettendo onde a tutto il corpo: così ascolto l’elettricità della vibrazione, sostrato ultimo nel dominio della realtà, e il mondo trema nelle mie mani.
Ed ecco che comprendo di volere per me il sostrato vibrante della parola ripetuta in canto gregoriano. Sono consapevole di non poter dire tutto ciò che so, mi riesce solo dipingendo o pronunciando sillabe cieche di senso. E se qui devo usarti parole, esse devono avere un senso quasi solo corporeo, e io sono in lotta con la vibrazione ultima. Per dirti il mio sostrato, eccoti una frase con parole fatte soltanto di istanti-adesso. Leggi dunque la mia frase inventata di pura vibrazione senza significato se non quello di ogni sillaba sibilante, leggi quello che ora segue: « con il passare dei secoli ho perduto il segreto dell’Egitto, quando mi muovevo in longitudine, latitudine e altitudine per l’azione energetica di elettroni, protoni, neutroni, nel fascino che è la parola e la sua ombra ». La cosa che ti ho scritto è un disegno elettronico e non ha passato né futuro: è semplicemente adesso.
*
É com uma alegria tão profunda. É uma tal aleluia. Aleluia, grito eu, aleluia que se funde com o mais escuro uivo humano da dor de separação mas é grito de felicidade diabólica. Porque ninguém me prende mais. Continuo com capacidade de raciocínio – já estudei matemática que é a loucura do raciocínio – quero me alimentar diretamente da placenta. Tenho um pouco de medo: medo ainda de me entregar pois o próximo instante é o desconhecido. O próximo instante é feito por mim? Fazemo-lo juntos com a respiração. E com uma desenvoltura de toureiro na arena.
Eu te digo: estou tentando captar a quarta dimensão do instante-já que de tão fugidio não é mais porque agora tornou-se um novo instante-já que também não é mais. Cada coisa tem um instante em que ela é. Quero apossarme do é da coisa. Esses instantes que decorrem no ar que respiro: em fogos de artifício eles espocam mudos no espaço. Quero possuir os átomos do tempo. E quero capturar o presente que pela sua própria natureza me é interdito: o presente me foge, a atualidade me escapa, a atualidade sou eu sempre no já. Só no ato do amor – pela límpida abstração de estrela do que se sente—capta-se a incógnita do instante que é duramente cristalina e vibrante no ar e a vida é esse instante incontável, maior que o acontecimento em si: no amor o instante de impessoal jóia refulge no ar, glória estranha de corpo, matéria sensibilizada pelo arrepio dos instantes – e o que se sente é ao mesmo tempo que imaterial tão objetivo que acontece como fora do corpo, faiscante no alto, alegria,alegria é matéria de tempo e é por excelência o instante. E no instante está o é dele mesmo. Quero captar o meu é. E canto aleluia para o ar assim como faz o pássaro. E meu canto é de ninguém. Mas não há paixão sofrida em dor e amor a que não se siga uma aleluia.
Meu tema é o instante? meu tema de vida. Procuro estar a par dele, divido-me milhares de vezes em tantas vezes quanto os instantes que decorrem, fragmentária que sou e precários os momentos – só me comprometo com vida que nasça com o tempo e com ele cresça: só no tempo há espaço para mim.
Escrevo-te toda inteira e sinto um sabor em ser e o sabor-a-ti é abstrato como o instante. é também com o corpo todo que pinto os meus quadros e na tela fixo o incorpóreo, eu corpo-a-corpo comigo mesma. Não se compreende música: ouve-se. Ouve-me então com teu corpo inteiro. Quando vieres a me ler perguntarás por que não me restrinjo à pintura e às minhas exposições, já que escrevo tosco e sem ordem. É que agora sinto necessidade de palavras – e é novo para mim o que escrevo porque minha verdadeira palavra foi até agora intocada. A palavra é a minha quarta dimensão.
Hoje acabei a tela de que te falei: linhas redondas que se interpenetram em traços finos e negros, e tu, que tens o hábito de querer saber por quê – e porque não me interessa, a causa é matéria de passado – perguntarás por que os traços negros e finos? é por causa do mesmo segredo que me faz escrever agora como se fosse a ti, escrevo redondo, enovelado e tépido, mas às vezes frígido como os instantes frescos, água do riacho que treme sempre por si mesma. O que pintei nessa tela é passível de ser fraseado em palavras? Tanto quanto possa ser implícita a palavra muda no som musical.
Vejo que nunca te disse como escuro música – apóio de leve a mão na eletrola e a mão vibra espraiando ondas pelo corpo todo: assim ouço a eletricidade da vibração. Substrato último no domínio da realidade, e o mundo treme nas minhas mãos.
E eis que percebo que quero para mim o substrato vibrante da palavra repetida em canto gregoriano. Estou consciente de que tudo que sei não posso dizer, só sei pintando ou pronunciando, sílabas cegas de sentido. E se tenho aqui que usar-te palavras, elas têm que fazer um sentido quase que só corpóreo, estou em luta com a vibração última. Para te dizer o meu substrato faço uma frase de palavras feitas apenas dos instantes-já. Lê então o meu invento de pura vibração sem significado senão o de cada esfuziante sílaba, lê o que agora se segue: “com o correr dos séculos perdi o segredo do Egito, quando eu me movia em longitude, latitude e altitude com ação energética dos elétrons, prótons, nêutrons, no fascínio que é a palavra e sua sombra”. Isso que te escrevi é um desenho eletrônico e não tem passado ou futuro: é simplesmente já.
***
Sulla vista obliqua. Note a margine della traduzione di Acqua viva di Clarice Lispector
di Roberto Francavilla
1
Il primo problema che abbiamo con Clarice è il problema del senso e del significato. Problema che, al contrario e a parte un’eccezione, non pare attanagliare la scrittrice, la quale afferma con disarmante candore: “Ermetica? No, io mi capisco. (Tranne un racconto, L’uovo e la gallina, quello non lo capisco)”.
Il senso è il valore preciso di una parola che si connette con altre infinite parole producendo o meno rapporti logici e determinando le regole dell’interpretazione. Se una cosa ha senso è più facile capirla. L’atto del tradurre, che si realizza in un corridoio – quasi sempre posto in penombra (una penombra illuminata da repentini bagliori) – implica, oltre alla ricerca del senso, un’indagine sul significato in un’accezione emotiva (e in senso lato culturale, ideologica, mitica): le vaste connotazioni del linguaggio di cui si alimenta l’opera letteraria; i significati che Clarice dispiega sulla pagina e che invitano, respingono, assecondano, invalidano la nostra capacità di comprenderli.
Ma come si decide sulla correttezza di una traduzione? Spesso i vocabolari offrono soluzioni plausibili senza tuttavia garantire l’intuizione (Einsicht) della verità di ciò che il vocabolo significa veramente. Perlomeno nell’intenzione autoriale. Cosa significa acqua viva?
In termini circensi, tradurre Clarice Lispector significa compiere un salto mortale: capire il significato della sua lingua brasiliana; capire il significato della sua lingua brasiliana nella sua scrittura. Alcuni pezzi di un arsenale dell’inesprimibile restano impigliati in una ragnatela tessuta fra questi due luoghi. In una lettera a Egelmann, Wittgenstein coglie un aspetto per me fondamentale per la resa di questa scrittrice nella mia lingua: “quando non ci si sforza di esprimere l’inesprimibile, non va perduto nulla. Anzi, l’inesprimibile è contenuto – nella sua inesprimibilità – in ciò che viene espresso”.
2
Stendhal definì la letteratura come l’arte della selezione, dal momento che essa è chiamata ad eliminare il superfluo (laisser de coté). Clarice non va in quella direzione. O almeno credo (in realtà procedo per ipotesi). In ogni caso, quanti scarti sono contenuti nelle parole che Clarice ha eletto alla dignità di comparire davanti a me sul foglio stampato per essere tradotte? E le altre, laissé de coté, delle quali si percepisce il silenzio? O a volte l’eco? Come diceva Maria Callas: che la musica continui a pulsare anche attraverso le pause!
3
Dal punto di vista della lingua letteraria, le avanguardie del Modernismo brasiliano hanno segnato un autentico spartiacque. La lingua parlata da Macunaima, protagonista dell’eponimo romanzo-rapsodia di Mário de Andrade (1928), che secondo i lettori coevi e perfino (o soprattutto) i raffinati critici della sua generazione rasentava l’incomprensibilità, costituisce il punto zero se non di una nuova lingua sicuramente di un faticoso percorso di costruzione identitaria, di natura postcoloniale, che, da quegli anni 20 così fondamentali, procede fino ad oggi. Una volta archiviato il solenne e rituale ribaltamento del canone (Tupy or not tupy, scriveva l’altro De Andrade, Oswald, per esorcizzare ogni possibile esitazione e per ribadire un interessamento – peraltro ormai conclamato – verso la materia indigena tupi-guarani, pre-lusitana, tellurica), si comincia a costruire. Da Graciliano Ramos, Guimarães Rosa, João Cabral de Melo Neto, Drummond de Andrade, i poeti del concretismo fino a buona parte degli scrittori contemporanei: ognuno con la presenza viva e ingombrante di incastri esogeni dentro a quella lingua che per anni, decenni, secoli è stata chiamata oscenamente “portoghese standard”. Fine dei meccanismi imitativi. Largo alla lingua nuova.
4
Del resto, anche Clarice Lispector aveva un modo di scrivere che eccedeva quella che viene considerata una scrittura canonica. Non è raro, infatti, imbattersi in scomodi neologismi o in un uso volutamente scorretto delle forme grammaticali e sintattiche. Trappole, sfide, vicoli ciechi per il lavoro del traduttore. Claire Varin, una studiosa canadese della sua opera, indica nel suo presunto plurilinguismo la causa del suo stile non canonico. La condizione di immigrati della sua famiglia genera le difficoltà della scrittrice ad apprendere il portoghese: Clarice nasce nella cittadina ucraina di Tchetchelnik nel 1920, in una famiglia di ebrei in fuga dai pogrom. Due anni dopo, i Lispector si imbarcano da Amburgo per il Brasile. A Maceió, dove giungono nel 1922, la scrittrice smette di chiamarsi Haia e le viene consegnato, oltre a un nuovo paese e una nuova lingua, un nuovo nome: Clarice.
La prima lingua udita: una lingua materna lontana, presente in forme invisibili. Ciò che Hölderlin, in una poesia bellissima (Die Stille) chiama Mutterzartlichkeit, “muta pedagogia materna”. E una lingua dell’apprendistato: il portoghese del Brasile, che diventa una conquista. In una cronaca giornalistica, scrittura a cui si dedicò per anni, Clarice descrive il suo amore per la lingua portoghese, soffermandosi sul senso di lotta che in lei suscita il cercare di dominarla, come si trattasse di una lingua raccolta in un processo di formazione ancora incompiuto. L’atto di scrivere e di forgiare la lingua portoghese è analogo al tentativo di domare un cavallo: “Questa è una confessione d’amore: io amo la lingua portoghese. Non è una lingua facile. Non è malleabile. E, poiché non è stata elaborata a fondo dal pensiero, tende a non possedere sottigliezze, e a reagire con un vero e proprio calcio negli stinchi contro coloro che temerariamente si azzardano a trasformarla in un linguaggio di sentimento e d’amore. La lingua portoghese è una vera e propria sfida per chi scrive. Soprattutto per chi scrive togliendo dalle cose e dalle persone il primo velo di superficialità. A volte essa si ribella di fronte a un pensiero più complicato del solito. A volte si imbizzarrisce per una frase imprevedibile. Mi piace maneggiarla, come mi piaceva stare in groppa a un cavallo guidandolo per le redini, a volte lentamente, a volte spronandolo al galoppo”.
5
Ho escogitato un modo per sviare dall’inesprimibile e per non restare impigliato nella ragnatela di cui parlavo all’inizio. E, infondo, anche per eludere un ulteriore problema: la resa di una scrittura così decisamente scaturita dalla più profonda aderenza all’identità di genere. Clarice Lispector non è la prima scrittrice che traduco ma, per la prima volta, ho percepito con chiarezza la necessità di scavalcare una barriera – non invalicabile – o forse meglio un solco, fra il maschile, che è la mia prospettiva, e il femminile. All’inizio, ho percepito l’appartenenza a un genere altro da me come un fardello ingombrante. Meglio ammetterlo.
La strategia che ho escogitato è semplice. Ho immaginato che uno dei codici più originali della poetica di Clarice, lo sguardo di sbieco, potesse funzionare non solo per capire il suo testo (compresi i vuoti, gli scarti, l’incomprensibile) ma anche da viatico alla mia traduzione. Sulla vista obliqua , strabica, Clarice Lispector ritorna in Acqua viva, eleggendola (accanto alla propria animalità) a modo di percepire gli strati meno superficiali della realtà, a strumento per scrutare dentro all’invisibile e per individuarvi la presenza di forme.
Ho capito che se avessi tentato di assecondare questa percezione deformata avrei potuto superare alcuni limiti altrimenti impossibili da affrontare. È la stessa Clarice ad ammonirci: quello sguardo non è che un alibi, una strategia per mettersi al riparo dalla geometria delle cose. “L’obliquo della vita” come sortilegio, come unico modo per accettarne le contraddizioni, gli abissi di un universo personale così complesso, labirintico e frantumato. La sua scrittura, come la vita, si ribella alle rette e alle parallele. Solo così, la strana pittrice che in Acqua viva scrive la sua struggente missiva a un amante perduto che forse non l’ha mai capita, può affrontare il destino, l’incomprensione, il desencontro (lo spazio liminare che ha bisogno di continui aggiustamenti) che si insinua fra le cose, fra gli eventi e soprattutto fra le persone.
Obliqua, infine, è la natura di alcune puntuali ricorrenze testuali: il pronome inglese it, il neutro di un’entità indefinita che assume il non-nome di “X”. Neutra, obliqua, informe è soprattutto la creatura contenuta nello sdoppiamento di significato – raggio del genio clariciano – che origina il titolo del romanzo. Agua Viva: “acqua viva”, “medusa”.
[Immagine: Meduse]
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