di Filippo La Porta
[Filippo La Porta ci ha mandato questa recensione in forma di lettera all’ultimo libro di Oreste Scalzone ’77 e poi… Da una conversazione con Pino Casamassima (Mimesis)]
Caro Oreste Scalzone,
non ci conosciamo personalmente ma ti seguo da Valle Giulia, dove a 15 anni arrivai con il mio vespino, a scontri appena conclusi. Poi ho partecipato a quella intensa stagione di lotte politiche nel gruppo che probabilmente tu giudicherai il più noioso, il Manifesto. Infine: tra tutti i leader del ’68 tu mi sei sempre sembrato il più sincero e fragile – anche nella tua generosità -, quello meno tattico, certamente il più carismatico (in quegli anni vidi a teatro una Orestea dove il protagonista della tragedia di Eschilo era nientemeno che ispirato a te). Insomma, eri estraneo al tipico stile di PotOp, che a 15 anni mi attraeva: sprezzante e aristocratico, beffardo e antisentimentale, arrogante e lievemente reticente fino a essere esoterico (ben descritto allora da Fortini su «Aut Aut» in un saggio intitolato Gli ultimi Cainiti[1]). Incarnavi un operaismo dal volto umano. Eri sempre incuriosito dagli altri e dalla realtà, mentre lo stesso Operai e capitale di Tronti, si limitava a prescrivere il “che fare”, in ragionamenti affilati come teoremi matematici e spettacolari come un film di Peckinpah, ma pochissimo interessati alla realtà empirica. Per queste ragioni, e anche perché si tratta di un pezzo della mia storia, vorrei formulare alcune obiezioni al tuo saggio sul ‘77 pubblicato da Mimesis (con prefazione di Erri De Luca), scritto in una lingua sobria e al tempo stesso, credo involontariamente, espressionista, a tratti più balestriniana di Balestrini (c’è una pagina ingorgata da suffissi, prefissi, segni grafici, parentesi, parole scritte per metà in corsivo).
La morale non è solo rapporti di forza
Il ’77, rispetto al ’68, è stato più intrattabile, barbarico, disperato e dionisiaco. Inaugurò il connubio teorico, che a me continua a sembrare assurdo, Marx-Nietzsche: una improbabile gaia scienza dell’operaio sociale. Mi sembra che il suo errore fu di liquidare con il moralismo (sempre ipocrita e strumentale) la dimensione stessa della moralità, che non è solo espressione di volontà di potenza e di interessi di classe ma ha una sua kantiana autonomia, legata al singolo: il bisogno di giustizia è connaturato all’essere umano, qualcosa di primitivo, quasi preculturale, che nasce da riconoscere nell’altro una individualità identica alla mia. Se invece si ritiene che i “valori” sono una finzione e che la rivoluzione è soltanto Negazione, perché mi ci dovrei appassionare tanto? Perché la rivoluzione, in questa accezione, dovrebbe creare una convivenza più giusta e relazioni più amabili tra le persone? Tu dici: per liberare la potenza delle forme di vita… Va bene, ma questa potenza è moralmente neutra, non sappiamo mica in che direzione ci porta. Lo sviluppo delle forze produttive potrebbe distruggere il pianeta: Marx non aveva, né poteva avere, una sensibilità ecologica, anche se, sofferente di pleurite, si inteneriva sul chiaro di luna ad Algeri, a differenza dei futuristi che il chiaro di luna volevano ucciderlo.
Un filone di pensiero ai margini
Il 12 marzo a Roma ci fu, benché senza alcun piano insurrezionale, una “tumultuosa sollevazione” (tu dici, forse esagerando: 100.000 persone di cui 5.000 armate). Bene, ma ti chiedo: a quel punto, dopo essere arrivati in un giorno cupo, di pioggia battente, fino al termine della notte, dopo aver messo in scena la enorme (terribile?) potenza del movimento, dopo aver svaligiato armerie e assaltato commissari, forse il movimento era maturo per una riflessione diversa e per uno sforzo di immaginazione. Non tanto una improbabile riconversione al pacifismo, troppo estraneo alla cultura politica di quegli anni, quanto una maggiore attenzione ad un filone di pensiero e di esperienza che in altri paesi aveva avuto una straordinaria fioritura. Mi riferisco alla non-violenza radicale, creativa, “esagerata” (a un certo punto tu accenni a una non-violenza attiva) della New Left e degli anarchici americani dell’Ottocento, del sit-in inventato da Alinski “organizzatore di comunità” a Chicago negli anni ’20 (Reveille for Radicals, 1946), degli scioperi operai in Olanda e nei paesi scandinavi durante il nazismo, e poi di tutto il pensiero laterale di Paul Goodman e dell’inglese Colin Ward, della disobbedienza civile e del sabotaggio, degli hacker e dell’“azione diretta”, di una resistenza organizzata e di pratiche individuali e di gruppo tutte da inventare (a Seattle nel 1999, contro il FMI, si usarono tecniche, già collaudate dai provos olandesi, per ridicolizzare le forze dell’ordine). Una tecnica di lotta che già prefigura tangibilmente il fine cui aspiriamo, e che, tra l’altro, avrebbe conquistato un grande consenso nella società (e, beninteso, non intendo una morale assoluta: perfino Gandhi ammetteva eccezioni). Non solo il fine non giustifica i mezzi ma in un certo senso contano solo i mezzi, che qui ed ora ci modificano e ci plasmano. Ogni fine lontano è un inganno. Forse tutto questo era troppo estraneo all’immaginario del movimento. Eppure….
Il general intellect e la sua propensione alla non-violenza
Eppure: e se proprio la nuova intellettualità di massa – il general intellect così centrale nei tuoi discorsi – fosse allora già maturo per una scelta del genere, in quanto più vicina alle proprie attitudini di cooperazione sociale e comunicazione, di capacità di pensiero dialogante? E’ in fondo l’agire comunicativo stesso, che definisce l’identità di questo nuovo soggetto, a richiedere una prassi non-violenta. Parliamo di intellettualità di massa, provvista di una sua competenza retorica e argomentativa, e non dei dannati della terra dell’allora Terzo Mondo. Il giovane Franz Fanon riuscì a sedurre Sartre, cenando con lui in una pizzeria romana, ma la violenza che pure serve all’oppresso dal punto di vista psicologico, per emanciparsi, lo deforma per sempre (vedi il saggio sull’Iliade di Simone Weil, una grande mente filosofica, secondo me superiore a Heidegger, che certo ha scritto alcuni libri fondamentali, ma – scusami – per riprendere le tue parole almeno un momento è stato “cretino”, quando non distingueva tra una fabbrica della Singer e un campo di sterminio): lo abitua all’idea che tutto si raggiunga soltanto in quel modo, e ahinoi l’Algeria nata dalla guerra di liberazione non sembra un luogo tanto abitabile. Va bene, la violenza del movimento, almeno all’inizio “difensiva” (la guerra originaria è infatti quella che viene dall’alto), e che tu rivendichi con disarmata schiettezza (gli altri, ipocritamente, ci vedevano solo infiltrati, provocatori e manipolatori), soddisfa pure un bisogno di epicità e di eroismo. Vediamo però se, su quel piano lì, può avere dei sostituti o equivalenti.
Pacifisti di stagno
Non è questione di mistica del gesto. Una volta Orwell disse saggiamente: “Provate a far giocare i vostri bambini con i pacifisti di stagno”. Evidentemente non si divertono, non si esaltano. Ma qui occorre un cambio radicale di paradigma: sostituire nell’immaginario collettivo il guerrigliero boliviano con l’eroico studente che a Tien An Men fermò il carro armato, o il vietcong che spara con il contadino pacifico ma ostinato della rivolta del Chiapas. Lo so, la non-violenza evoca qualcosa di melenso e di impotente. Non ha effetti pratici nell’immediato. Soprattutto non è eccitante, non ha alcun glamour: ma qui intendo una non-violenza appunto “estremista” e immaginativa, al limite della illegalità, non lontana dagli umori più indocili e creativi settantasettini (tra Indiani Metropolitani e radio libere, e soprattutto l’onda del nascente femminismo), e capace di trasformare le persone qui ed ora. Molto prima dei micropoteri di Foucault l’anarchico Landauer aveva detto che lo Stato è la relazione con l’altro. William James, consapevole di questo deficit “emotivo” di ogni pacifismo, voleva trovare un equivalente non-violento dell’eroismo bellico – secondo lui radicato nella natura umana – e concluse che l’alternativa alla guerra non era tanto la pace quanto una “guerra pacifica” (1910). Ti prego, ora non citarmi il “vertiginoso” Carl Schmitt, pensatore lucido della politica ma moralmente inattendibile perfino quando si confessa, e ci fa sapere che disprezzava Hitler pur servendolo. Né intendo solo una dimensione di nobile testimonianza, però ineffettuale: nel suo Quale pace? (edito dalla tua stessa casa editrice) Giuliano Pontara elenca puntigliosamente le innumerevoli rivolte non-violente che nel Novecento hanno strappato risultati, dalle Filippine al movimento Sem terra in Brasile, dalla prima Intifada al Sudafrica. Certo, con la violenza spesso si vince. Ma alla fine: chi vince, e cosa vince?
Il campo di segale e il sangue risparmiato
Confessi a un certo punto un avvenimento da tutti ignorato o rimosso, che – confesso – mi ha turbato. Appena dopo la bomba di piazza Fontana, in quel 12 dicembre 1969, arrivò in assemblea alla Facoltà di Matematica della Sapienza un compagno per comunicare la notizia dell’Ansa, e allora ci fu un applauso da standing ovation. Incredibile, dopo una bomba che aveva fatto 17 morti – la madre di tutte le stragi, di evidente segno fascista. Tu poi ce la metti tutta per capire “spinozianamente” l’applauso, e concludi con alcuni passaggi un po’ sofistici che si trattava della espressione deformata di una intuizione giusta, e cioè che per cambiare la vita e per cambiare il mondo occorre una sovversione, una “guerra sociale di liberazione”. Fino a ieri ignoravo quell’evento, che a me sembra qualcosa di indifendibile, espressione di puro orrore. Quando il nemico ti disumanizza fino a questo punto (basterebbe rileggere il Camus dell’Uomo in rivolta) allora qualsiasi società vorrai costruire somiglierà a un incubo. Avevi letto l’articolo di Anna Bravo, che negli anni Settanta militava in Lotta Continua, sullo strapotere dei servizi d’ordine (nel ’77 a volte si conquistava una assemblea SOLO attraverso l’esercizio della forza, altro che general intellect) e sulla fascinazione ludico-ipnotica della violenza (vedendo “Giù la testa” di Sergio Leone al cinema Farnese qualcuno amava riconoscere tutte le marche delle pistole)?[2] E poi il suo libro, commovente, su tutti gli eroi sconosciuti che per una inezia hanno evitato una morte o una strage (La conta dei salvati), su quelli che salvano i bambini afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale (ricordi il Giovane Holden?)[3]. Per loro non ci sarà mai nessuna statua.
Assenza del tragico
C’è nel tuo scritto l’assenza di qualsiasi senso del tragico. Forse chi fa politica, o immagina di farla, non se lo può permettere, deve ispirarsi a quella formula – estenuata – dell’ottimismo della volontà, ma così precipita nell’irrealtà e nell’autoillusione. Certo, Tronti indicò – con qualche narcisismo – i nomi di Mahler e Musil, “due grandi individualità in senso tragico”, e Asor Rosa chiosando Thomas Mann regalava a ciascuno di noi una (indebita) coscienza grande-borghese, ma ho l’impressione che nel filone operaista il senso del tragico difetti un po’: gli oppressi infatti potranno sempre consolarsi perché hanno determinato loro, anche senza saperlo, i movimenti del capitale e le innovazioni tecnologiche. Sono loro a guidare la dialettica storica. (Digressione: se leggo Emanuele Severino mi convinco di essere immortale, se leggo Toni Negri scopro che mi ritenevo sconfitto e invece sono un vincente, se leggo l’ultimo Agamben su Pulcinella apprendo che in ogni istante c’è una via d’uscita, quanto ai romanzi-videogame di Eco mi fanno sentire colto senza troppi sforzi: la Italian Theory dispensa i suoi doni con una generosità appena demagogica). Ma torniamo al tragico, che poi non è altro che la consapevolezza che nella Storia non si dà il Bene (nella Storia non si può che “far torto o patirlo”, su questo darei più ragione a Manzoni che alle formulette hegeliane per cui dal male nasce il bene), il che non porta affatto a conclusioni quietistiche: Simone Weil, che aveva una visione tragica, partì per la Guerra Civile in Spagna. Suggerirei due livelli distinti: da una parte battersi insieme agli altri, dovunque si può e senza delegare niente, per ridurre almeno di un po’l’ingiustizia sociale e per disinnescare il potere ovunque si celi, e dall’altra prevedere per ciascuno la possibilità di un esodo, la costruzione paziente (Ivan Illich direbbe “vernacolare”), anche in piccoli gruppi, di una “vita comunemente autonoma”. Tutto questo, potresti obiettarmi, è irrealistico e perfino “esotico” per la storia dei movimenti in Italia. E infatti sono pieno di dubbi. Ma una certezza ce l’ho. Peggio di così non poteva andare.
Un caro saluto,
Filippo La Porta
[1] Franco Fortini, Gli ultimi Cainìti (1975), ora in Questioni di frontiera, Torino, Einaudi, 1977, pp. 90-106.
[2] Anna Bravo, Noi e la violenza, in «Genesis», III, 1, 2004.
[3] Anna Bravo, La conta dei salvati, Roma-Bari, Laterza, 2013.
[Immagine: 1977, scritte sui muri].
Importanti discorsi tra “ vecchietti” ! Senza far miei tutti i suoi riferimenti teorici e sottolineando i dubbi finali dello stesso La Porta, sottoscrivo in pieno questa sua lettera a Oreste Scalzone sul 1977. Del resto, non a caso, cita «Gli ultimi Cainiti» di F. Fortini
“ 18 dicembre 1985 – Il maggio francese va a vederlo ad agosto. Mentre i compagni di viaggio dormono lui rileva le tracce evidenti di quei celebri giorni. Le quali consistono: nella comparsa di un certo numero di alberi sul Boul Mich, nella comparsa di un certo numero di bancarelle dove si vendono poster libretti bottoms giornali tutto di produzione gauchiste. Sui muri poca roba stando comunque la loi 20 juillet 1881. Per il resto il solito. Le terrasses piene di gente traffico intenso ma ordinato le frites sono buone Parigi è sempre Parigi dopo un po’ torna a dormire insieme agli altri. “.
Importante lettera e importante libro (che a questo punto mi tocca leggere!). Una sola chiosa sull’applauso ignobile alla bomba di piazza Fontana: anche io lo ricordo (e mi sembra fosse a Chimica, non a Matematica). A dare la notizia – entusiasta – fu un dirigente di PotOp, ora felice giornalista al soldo di Ferrara e Berlusconi (non faccio il nome solo perché temo di ricordare male). Ma di certo Oreste ricorda molto male a proposito di una cosa fondamentale: l’applauso non fu affatto una standing ovation, fu di una parte sola, secondo me piccola, e tanti altri compagni di quell’assemblea (la grande maggioranza) se ne indignarono subito, senza aspettare 50 anni per farlo. Perché mi sembra così importante questo errore, e così importante correggerlo? Perché il Movimento fu sempre aspramente diviso, su questo come su tutto ciò che riguardava l’insurrezionalismo e la lotta armata, e la grande parte che non la pensava affatto come PotOp (e che aveva ragione) era la grande maggioranza del Movimento; essa è ora cancellata dalla memoria, almeno quella dei giornali e dei libri, così come al tempo fu schiacciata dalla tenaglia infame, tutta politica, fra Cossiga e il Pci da una parte e i sostenitori, nicciani o no che fossero, della lotta armata dall’altra. I compagni del Movimento di cui parlo erano – ripeto – la grande maggioranza (si leggano le mozioni del 77 pubblicate nei libri di Bernocchi, se se ne dubitasse). Questa cancellazione dunque va cancellata: anche perché quella parte del Movimento di cui parlo aveva ragione (e questo, francamente, non è particolare da poco).
“ Sabato 15 marzo 1997 – Il ‘77 rivisitato di Blob mi induce a pensare che l’ipotesi di Eco che vent’anni fa si sia trattato del conflitto fra due estetiche – quella « realistico-figurativa » del sindacato e del P.C.I. e quella « astratto-informale » del movimento (cfr. Sette anni di desiderio) – sia dopotutto soltanto l’ennesima boutade del fantasioso docente. Il ‘77 di Blob, per quello che si vede, era ispirato all’estetica del Mago Zurlì, o, volendo essere generosi, a quella del Mago di Oz. “.
“Chi vuole vivere nella Negazione si condanna alla retorica (nel senso di Michelstaedter); si può vivere solo accanto alla Negazione. Chi crede che la Negazione dia sollievo alla vergogna della Positività banale, alla nausea dei limiti, (…) si vota al sadismo e alla morte, altrui e propria” (Franco Fortini, “Gli ultimi Cainìti”, in “Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965 – 1977”, Einaudi 1977) http://lostraniero.net/i-cyborg-di-potere-operaio/
Questa lettera bellissima e intelligente (nel senso etimologico del termine: ‘intus legere’) di Filippo La Porta mostra ancora una volta, se ancora ce ne fosse bisogno, che solo un’opzione libertaria e nonviolenta, di stampo social-utopistico, è capace di vivificare la sua prassi quotidiana, abbeverandola alla fragilità del tragico. Le ideologie, gli schemi precostituiti, le morali dialettiche si prendono da sempre troppo sul serio. Non sono mai tragiche, bensì melodrammatiche.
La chiosa di La Porta è da sottoscrivere: Peggio di così non poteva andare.
“ Martedì 4 marzo 1997 – « “ Cose da melodramma “ “ Saranno cose da melodramma, però lei ha rischiato la vita, sa? “ » (I cannoni di Navarone, Thompson, 1961) “.
“Con la violenza spesso si vince. Ma alla fine: chi vince, e cosa vince?” Questa doppia domanda mi pare rappresenti il nucleo del bel discorso di La Porta. Se poi vi aggiungiamo la perentoria intuizione dell’assenza del tragico, il cerchio si chiude in una lettura dei fatti lucida e incontrovertibile. Vorrei aggiungere io che il tragico potremmo anche chiamarlo poesia: che cosa mancò al movimento? La Poesia. Ma la poesia, purtroppo o per fortuna, circola da pochi a pochi, si sa, da sempre.
Quindi, fatemi capire.
Tronti “indicò”, Asor Rosa “chiosò”, quelle hegeliane sono “formulette”, “basterebbe rileggere” (rileggere) Camus, esistono le classifiche delle “menti filosofiche”, Ivan Illich “direbbe”… però l’Orestea è di Sofocle.
Qualche mese fa si parlava del buon liceo dei cantautori di oggi, ma quello dei saggisti di ieri buono non dev’esserlo stato troppo.
“ Venerdì 10 dicembre 2010 – « Io Bologna, il Movimento, il ‘77 li ho attraversati come uno che arriva dalla provincia, capito? Io vivevo qui a Correggio. Sì, sono andato per assemblee e corsi al Dams quando sui muri c’era scritto: “ Ecò, coifeur pur dames “ e Celati si commuoveva e dava trenta a una sbarbina che gli diceva d’aver il terremoto in Friuli. Ma io a Bologna ci stavo di merda, mi sentivo più imbecille di tutti. Ero sempre in paranoia, due maroni… » (Dall’intervista di Nico Orengo a Tondelli, in Tuttolibri, 9 febbraio 1980) “.
“ Lunedì 23 luglio 2007 – Poi trovo qualcosa di penoso e, insieme, di illuminante. Alla data del 15 aprile 1993, Anceschi annota: « Il momento è importante e inquietante: su tutti i piani il paese è in malessere – e si tratta di un malessere profondo e radicale. Un ragazzo del ‘77 aveva scritto su un muro a poco a poco apocalisse. E quest’aria tesa e sporca in cui siamo immersi si inquieta in un vento mefitico che sembra portare in ogni cosa confusione, corruzione, caos e disordine morale. ». Quanto la frase l’abbia colpito lo si vede pochi mesi dopo, quando, alla data del 28-30 settembre, scrive: « “ A poco a poco apocalisse “ si trovò scritto sui muri dell’Università nel 1968 [*]. Non lo dimentico. ». Io, che credo di riconoscere in quella frase la manaccia semianalfabetica ma tanto « creativa » di un settantasettino, arrossisco per il povero vecchio: come fece a non accorgersi che quell’« apocalisse » era soprattutto un gioco di parole, cioè che, più che l’Evangelista, era, come sempre, Totò? E come ho fatto a non capirlo io? Io, per la verità, l’ho anche capito. Comunque ormai l’apocalisse c’è stata. A poco a poco si capisce, anche se capirlo non serve a niente. “.
[*] Gli anziani, si sa, confondono le date…
“La profondità della tragedia mondiale, che si è vissuta nel corso di questi ultimi 15 anni; la profondità della demolizione della cultura della sinistra europea; la insufficienza persino – arrivo a dire – di questa medesima demolizione; il fatto che le strutture politiche dei partiti politici ufficiali, tradizionali e anche una buona parte di quella delle formazioni minori, dei gruppi, dei movimenti che si sono avuti fra ’65 e ’75 – dicevo – la loro presenza continua (questa secondo me è la cosa più terribile) a mantenerci un resto di illusione.
Non crediate che io pensi al “tanto peggio tanto meglio”. È che tanto peggio di così è difficile che ci sia. Qualcosa ancora, tanto nei partiti tradizionali – voglio dire, per essere chiaro Partito Comunista, Partito Socialista e le formazioni di DP o Pdup o residui di altri gruppi e perfino coscienze individuali continuano in qualche modo, in qualche forma, a suonarci una sorta di ninna nanna. Non vediamo, non vogliamo vedere fino in fondo l’ampiezza del disastro.
Ebbene, è solo se noi tocchiamo veramente e realmente il fondo del disastro; è solo se noi riusciamo davvero con un atto, direi, più di volontà che d’intelletto (a raggiungere) una visione dei rapporti internazionali e di come questi rapporti internazionali si riflettono nella nostra vita quotidiana, qui nel nostro Paese; solo in questo caso, solo – starei per dire paradossalmente – con la disperazione analoga a quella che ha massacrato una generazione a colpi di prigione, di terrorismo e di droga; solo in queste condizioni possiamo legittimamente sperare di cominciare un nuovo discorso.”
( 14 ottobre 1983. Stralcio di un intervento di Franco Fortini – non rivisto dall’autore – alla presentazione a Cologno Monzese di “Le nude cose. Lettere dallo ‘speciale'” di Piero Del Giudice, Spirali Edizioni, Milano 1983)
Mi lascia un po’ perplesso (come sempre in Filippo La Porta) questa valutazione di Simone Weil come figura esemplare o di riferimento. Fatta salva l’importanza determinante di questa pensatrice, a me sembra una personalità contraddittoria da cui trarre insegnamenti sia ben più difficile di come la mette F.L.P. Va a fare la guerra in Spagna? Sì, ma appena ha l’impressione (giusta purtroppo) che si tratti più della guerra di Stalin contro la sinistra eretica che della guerra dei contadini contro i latifondisti se ne va a casa: senza (mi pare) neanche chiedersi quanto la vittoria dei repubblicani, sotto qualunque bandiera, avrebbe potuto contribuire ad arginare il nazifascismo. E nel più fitto della seconda guerra mondiale esce da questo mondo lasciandosi morire di stenti: scelta legittima e (per coerenza interna) ammirevole, ma tutt’altro che “esemplare” nel senso militante con cui la esamina F.L.P.
Scalzone col 77 c’entrava poco. Molto poco, per fortuna. A differenza di Roma, il centro più autentico del 77 bolognese (convegno escluso) fu una riedizione del movement californiano anni ’60, con Deleuze, Bataille, Celati e Paolo Fabbri come fidi Maestri sostituti di Marcuse e Adorno. Citavamo i provos di “Ci sentiamo come biciclette bianche in mezzo all’autostrada”… Era un movimento pop di nostalgia hippie e hipster, con tracce a volte abbondanti di retorica kitsch. Io lo definisco “l’ultimo anno concesso all’innocenza”.
Articolo pieno di passaggi ispirati.
Articolo pieno di passaggi ispirati. Questi su tutti:
…il suo errore fu di liquidare con il moralismo (sempre ipocrita e strumentale) la dimensione stessa della moralità, che non è solo espressione di volontà di potenza e di interessi di classe ma ha una sua kantiana autonomia, legata al singolo: il bisogno di giustizia è connaturato all’essere umano, qualcosa di primitivo, quasi preculturale, che nasce da riconoscere nell’altro una individualità identica alla mia…
…Perché la rivoluzione, in questa accezione, dovrebbe creare una convivenza più giusta e relazioni più amabili tra le persone?…
…Non solo il fine non giustifica i mezzi ma in un certo senso contano solo i mezzi, che qui ed ora ci modificano e ci plasmano. Ogni fine lontano è un inganno…
…Certo, con la violenza spesso si vince. Ma alla fine: chi vince, e cosa vince?… (passaggio chiave)
…Quando il nemico ti disumanizza fino a questo punto… allora qualsiasi società vorrai costruire somiglierà a un incubo…
…C’è nel tuo scritto l’assenza di qualsiasi senso del tragico… (altro passaggio chiave)
…se leggo Emanuele Severino mi convinco di essere immortale, se leggo Toni Negri scopro che mi ritenevo sconfitto e invece sono un vincente, se leggo l’ultimo Agamben…
…nella Storia non si dà il Bene (nella Storia non si può che “far torto o patirlo”, su questo darei più ragione a Manzoni che alle formulette hegeliane per cui dal male nasce il bene)…
…la costruzione paziente (Ivan Illich direbbe “vernacolare”), anche in piccoli gruppi, di una “vita comunemente autonoma”… (conclusione)
Mi sembra che il suo errore fu di liquidare con il moralismo (sempre ipocrita e strumentale) la dimensione stessa della moralità, che non è solo espressione di volontà di potenza e di interessi di classe ma ha una sua kantiana autonomia, legata al singolo: il bisogno di giustizia è connaturato all’essere umano, qualcosa di primitivo, quasi preculturale, che nasce da riconoscere nell’altro una individualità identica alla mia.
Solo questo per me vale 10 anni di galera a lettera, punteggiatura inclusa. Credo tu abbia fatto venire un terribile infarto al mio piloro.
La generazione cretina di quegli anni HA perso ma stranamente la troviamo ai vertici politici, culturali, giornalistici etc.
Fatevi delle domande più semplici…Perché non crescere? Perché non lasciarli alle spalle con tutto il LORO odio?
La sinistra ha fallito, non rappresente nulla, la cultura deve essere SOPRA la politica. Questi erano i Demoni di cui parlava DOstoevskij e alcuni di loro l’hanno scampata bella dino a diventare opinionisti seguitissimi da milioni di allocchi.
Questa generazione ha dato a noi il mondo e L’Italia in fallimento che abbiamo. Il bisogno di appartenenza li ha spinti a uccidere e gambizzare. Si tratta di delinquenti. A destra come a sinistra che per me rimangono indicazioni per dove svoltare son la bicicletta.
Passate oltre, passate oltre, la politica mischiata all’arte genera Mostri populisti e opere puzzolenti che non respirano più dei dieci anni della loro “GRANDE EPOCA RIVOLUZIONARIA”. Sarebbe ora di finirla. Mi rendo conto che molti dei vostri professori sono appartenuti a quel gruppo di terribiloni. Bene, andate oltre, senza intellettualizzare, ma riflettendo voi stessi nella mancanza di morale dei suddetti voltagabbana
disobbedienza civile
termine osceno come “Napalm frescolino”
cose che non faranno la differenza
io non pratico alcuna disobbedienza e se lo facessi NON sarei civile ma accetterei di essere punito. Certo! Ma mai mai, da ragazzo viziato, quali erano quei cari studenti idioti, ucciderei qualcuno per rivendicazioni rivoluzionarie scadute come un merluzzo lasciato sul balcone per due mesi d’estate a Malta.
VoI potete fare la differenza scrivendo, visto che scrivete e stando fuori dalla storia e dalla politica
la politica cambia in continuazione
la poesia è eterna. Non ci sono liriche barricadere che non siano vomitevoli
SIate una nuova generazione e non fatevi imbrigliare
E’ davvero una bella lettera, che fa venir voglia di leggere il libro e di approfondire la conoscenza delle dinamiche di quegli anni