di Gilda Policastro
Una volta Arbasino disse che giudicare i libri a seconda del gradimento popolare sarebbe stato come valutare McDonald’s il miglior ristorante al mondo, perché il più frequentato. Oggi il paragone non reggerebbe non solo perché i ristoranti sono pieni e le librerie disertate, ma anche perché i programmi di cucina sono più seri delle pagine culturali dei quotidiani, dove i consigli di lettura (o di acquisto, che non c’è distinzione) si affidano a stellette e pallini tipo guida Michelin, ma quasi mai attribuendoli all’oggetto in sé e più spesso alla “migliore persona dello schermo”, come avrebbe detto il poeta: alla funzione, al ruolo, all’idea di personaggio connessa al libro-prodotto, difficilmente inquadrato in un contesto diverso da quello del “successo”, che ormai non si nega veramente a nessuno e si misura in follower e visualizzazioni un tot al giorno, a seconda degli orari. Caduto ogni pudore o reticenza, il sodale magnifica il collega, l’amico il compagno di merende, accade finanche che lo scrittore candidi se stesso a un premio (il prototipo, Scurati allo Strega del 2009). In generale è prassi affrettarsi ad acclamare il proprio simile, aspettandosi che il favore venga prima o dopo ricambiato (qualcuno lo definì “69 critico”): a leggere i giornali saremmo circondati da Flaubert e Proust e non avremmo di che lagnarci, esce un capolavoro di stile al giorno, non fosse che a decretarlo non c’è più nessuna comunità scelta, non l’accademia che fa fatica a registrare ciò che è accaduto dopo Svevo e Pirandello, non la cosiddetta società letteraria di cui non rimane traccia nemmeno nei salotti, che si sono peraltro, con tutta la ritualità e l’accolitismo dei Verdurin, trasferiti nella bacheche Facebook, dove argute signore della bella mondanità dispensano boutade ciniche o fintamente autodenigratorie (“sono una persona cattiva”, “non ho mai accompagnato mia figlia a scuola”) e ne ricevono commenti mai meno entusiastici di “genio!”, “senza parole!”, “solo tu!”
Qualche tempo fa Giuseppe Genna ha postato un video di Chiara Ferragni, giovane donna dal fatturato fuori misura, che un qualche sondaggio celebrava come il personaggio più influente del 2016 su twitter o Instagram (so’ soddisfazioni). Genna denunciava con gli abituali toni apocalittici l’inaridimento dei pensieri e del linguaggio di colei che per la verità nel video incriminato si comportava esattamente come una che di mestiere fa la “fashion blogger” (qualunque cosa significhi): «Scelgo di pubblicizzare i prodotti i cui brand rappresentino la mia identità» e via così. L’apoteosi della società delle merci, l’identità con-fusa con l’apparenza, i capelli Pantene invece della cura di sé foucaultiana. Solo qualche giorno dopo, Genna sarebbe accorso a magnificare “lo stile” dell’ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, La più amata (Mondadori), a leggere il post un’Orestea reloaded, con spolveratina dell’inevitabile Proust: «Spezzoni di universalità, che fanno scattare il racconto verso vette vertiginose, […] vicende di un “io” che parla, occupando i corpi fisici e immaginati e ricordati dei componenti di una rinnovata famiglia di Atridi, sono momenti di rivelazione e choc, che sono tali perché hanno a che fare con la verità e non con il genere narrativo». Poi apri e leggi: «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione. Non ci dormo la notte, allontano amici e parenti, mi occupo solo di questo: indagare, ricordare, collegare. A quarantaquattro anni do la colpa a mio padre per quello che sono. Anaffettiva, discontinua, egoista, diffidente, ossessionata dal passato. Litio ed Efexor prima, Prozac e Rivotril poi, colpa tua, solo colpa tua, papà». Ricapitolando: alle starlette di stagione si chiede di citare dei filosofi (o almeno fare finta, come la pornodiva Nappi), la narrativa può tirarsi via senza stile, perché pare non abbia più nessuna importanza come un libro è scritto, ma solo cosa racconta (contenutismo che a ben pensarci vanificherebbe una serie di capolavori, a partire proprio dalle morbosità proustiane, non fossero morbosità scritte). Il libro, anzi, i libri di Teresa Ciabatti hanno un grosso problema, un problema insormontabile di cui nessuno pare accorgersi, magari perché la massiccia promozione li sottrae in partenza a un discorso realmente letterario (difatti a recensire quest’ultimo sono accorsi le Concite e i D’Orrico, mica i critici): sono libri-chiacchiera, birignao, lallazione, e non hanno una scrittura degna della forma romanzo, che viene invece evocata dai follower dell’autrice-personaggio social come un a priori incontestabile. Leggiamo ancora, dunque, da La più amata: «Un bambino di un anno abbandonato sulla spiaggia, se non fosse per l’ombra che si allunga su di lui. Un adulto, mio nonno. Aldo Ciabatti. Potrebbe essere stato tutto, mio padre, prima di mia madre. Quello che ho conosciuto non era proprio lui, o lo era in parte, o forse non lo era affatto: pensavo fosse tirchio (la luce quando uscite dalle stanze, perdio!), invece regalava pellicce e gioielli». O ancora: «Non hai niente da darmi? Indugia lei sotto la pensione, un palazzetto in mattoni a Brooklyn. Lui tace, lei insiste: niente, niente?, abbassando lo sguardo alla valigetta». Di più? «Adesso lei mi abbraccia – nonostante io cerchi di divincolarmi, odio il contatto fisico – e mi tiene stretta. Che sia in realtà lei ad aggrapparsi a me? Che sia lei a chiedermi aiuto? Sussurrandomi che tutto si sistema, ogni cosa si sistema, piccola mia». Si procede così, in un continuo di lei tace, lui annuisce, lei replica, lui si limita a (sorridere, protestare etc.), lei ammonisce, lui controbatte: sintassi elementare e lessico vieto (i sintagmi obbligati dalla serena notte estiva al frinire assordante delle cicale ci sono proprio tutti) non per scelta formale, ma per mancanza di alternative. Sissignore, chiunque può scrivere così, cioè chiunque non sappia scrivere, e per sapere scrivere qui non intendiamo, alla maniera neoavanguardista, sapere bene come scrivere male, ma proprio conoscere le regole della lingua, più che tentarne un sabotaggio o una violazione (mimetica o antimimetica che si voglia), familiarizzare col Garzanti prima che col genere: l’autofiction alla Walter Siti, senza lo stile di Siti, non fa romanzo e Troppi paradisi lo è in quanto scritto da Siti, non perché ci sono i fatti suoi spiattellati. Ove il poderoso battage quasi senza precedenti per una non-scrittrice riuscisse nell’intento e La più amata vincesse davvero lo Strega, sarebbe il primo caso di libro-non scritto a ottenere un risultato simile. E perché non Faletti, ai tempi, o Fabio Volo, se è un problema di consensi attorno al personaggio e non di qualità della scrittura? Già un decennio fa un saggio capitale come La lettera che muore di Gabriele Frasca si interrogava sulla ragione per cui ai videogiochi, ad esempio, o alle serie televisive, si chiedano strutture e linguaggi ben più complessi di quelli che pare possano soddisfare le aspettative dei lettori: “Perché quest’ansia di semplificazione”, si domandava Frasca, “riguarda solo la narrativa letteraria?”. Nel frattempo il livello della cultura media si è vertiginosamente abbassato, ma l’impressione è che ciò non riguardi tanto o solo i fruitori, quanto i produttori stessi dei cosiddetti contenuti, con l’aggravante che questi ultimi ricevono opportunità in numero inversamente proporzionale alle loro qualità e ai loro titoli. Conduttori di programmi culturali che ignorano autori, cronologia, senso e pertinenza storica delle opere di cui sono chiamati a parlare, definiscono “frase” un verso, non sanno assolutamente nulla del presente letterario. Niente di grave, è divulgazione. Ma perché divulgare ciò che ai più non interessa sapere? Soprattutto, perché perpetuare l’equivoco che la comunicazione sia abbassamento dei codici, azzeramento delle gerarchie, livellamento delle competenze? Dilaga quell’aberrazione che Alain Deneault ha identificato con la mediocrazia, egemone a ogni livello, la politica, l’istruzione, la cultura: più ne sai, più devi far finta di no, andare di massime a pronta cassa, di slogan, di frasi brevi e comprensibili. Ascoltare Pasolini che parla in televisione o Sanguineti intervistato da Rossana Campo in oltre cinque ore di Abecedario è al contempo consolante e avvilente: perché dimenticare, oggi, che si scrive e si parla anche per chi vuole sapere, non solo per chi pretende la scorciatoia e la critica tweet form? Perché preferire per le terze pagine l’intrattenitrice sbarazzina dei social e per lo spazio dedicato ai libri in tivù una scrittrice pop e idiosincratica, del tutto digiuna di parametri estetici («questo romanzo ha una brutta copertina»), lasciando al contempo che i migliori critici delle ultime generazioni vengano relegati in spazi marginali e solo estemporaneamente riconvertiti in buffoni o ciarlatani a beneficio dell’audience?
Anni fa, dopo una tavola rotonda su Gomorra, una studentessa mi chiese come si diventa critico letterario. Non c’è in effetti un corso specifico, mentre ce ne sono per la moda – nelle facoltà di Lettere, non all’Accademia di belle arti- , per i media nuovi e vecchi e addirittura per la scrittura creativa (all’università). Non esistono corsi di critica, perché non esiste quasi più l’ambito disciplinare: il settore nei concorsi nazionali è accorpato ad altri, non ha dignità di sopravvivenza autonoma. Ma di cosa vive un’opera, se non del dialogo fra i lettori (e i primi lettori sono fatalmente i critici in senso ampio, cioè coloro che selezionano un testo a vari livelli, che lo scelgono per la pubblicazione, che ne parlano sui giornali, che lo citano ai convegni e così via)? Perché si considerano oggettivi i dati delle classifiche che rendono conto comunque di un campione ristretto e non ha più nessun tipo di udienza, riconoscibilità, utilità, la scrittura che costitutivamente dialoga con le opere, che le mette in relazione tra di loro e con il tempo in cui vengono prodotte, che le tramanda alle generazioni e a contesti diversi da quello di origine e di appartenenza, testando le possibilità o le capacità di oltrepassare confini e vincere resistenze? In un’epoca che sembra ormai antidiluviana George Steiner in Vere presenze lamentava che la letteratura cosiddetta secondaria avesse finito col soffocare le opere letterarie, che alle sterminate bibliografie sui massimi autori della tradizione occidentale non ci fosse da aggiungere molto e che si dovesse piuttosto tornare a leggere, a mettersi in diretto contatto coi testi. Un’emergenza di tutt’altro tipo è quella che chiede oggi al lettore di capire da solo come funziona un testo, di saperlo leggere, e di poterlo scegliere, nell’apparente libertà che gli regala il mercato, e in realtà nella conclamata evidenza che a decidere delle tirature non sia la qualità ma la possibilità di vendita. Come se Cannavacciuolo dovesse premiare un budino perché piace a tutti. E invece l’ultima edizione di Masterchef l’ha vinta il cuoco che ha creato un menu impossibile, con ingredienti pregiati e un’esecuzione funambolica. L’autore-cuoco si era subito segnalato come il più talentuoso, ma nemmeno in questo caso lo chef si è lasciato incantare da fattori estrinseci (la giovane età, l’esuberanza): hanno parlato i piatti. È pur vero che gli interventi critici restano una parte marginale del programma, sussurrati sullo sfondo, sfumati dalla regia: alla gente piace la gara. Ma chi l’ha detto, poi? Ne siamo sicuri? E chissà se invece, mentre diamo per definitivamente spacciati i direttori delle pagine culturali, non si possa salvare almeno Masterchef: meno inciuci e più analisi dei piatti. Se non serve, la critica, lasciatecela servire.
Starei ore a parlare con lei, Gilda.
“ 14 giugno 1994 – « A scrivere sono buoni tutti, a leggere, no. ». È questa l’idea semplice e maliziosa da cui nasce la propensione a occuparsi, piuttosto che di letteratura, di critica letteraria. È un’idea nata negli anni Sessanta, quando si diceva « rivoluzione » ma si pensava « specializzazione ». Negli anni Sessanta per me era già un’idea vecchia. Grazie ad essa avevo attraversato pressoché trionfalmente gli anni della mia carriera scolastica, quando, mentre altri si ostinavano magari a scrivere, io leggevo, e leggevo bene. Dal punto di vista di chi ha rinunciato « professionalmente » a scrivere, chi scrive viene sempre a trovarsi, come direbbero i giornalisti, « nel mirino ». A scrivere si rischia sempre di passare per matto, o, se va meglio, per qualcuno che ha dei « problemi ». A maggior ragione se si tratta di scritti che rasentano, Dio ne scampi, il deprecato territorio dell’autobiografia. È così che si diventa giornalisti. O professori. Pur di non parlare di sé. Pur di fare finta di non esserci. « Ma lei, perché scrive? », si potrebbe alla fine chiedermi. Qualcuno lo dovrà pur fare, rispondo io. Intanto, leggo anche. O forse è perché mi piace il rischio (e poi chi ha detto che scrivo?). “. [*]
[*] In quanto a Teresa Ciabatti, “ dépasse mes espérances “, come diceva Mallarmé della Torre Eiffel.
Avrei voluto – ma dubito che la Policastro risponderà – leggere una critica più larga ai testi della Ciabatti.
Perché io non la capisco, la critica. Non capisco perché secondo lei la Ciabatti (che non ho mai letto) sia così sciatta, perché: “Sissignore, chiunque può scrivere così, cioè chiunque non sappia scrivere, e per sapere scrivere qui non intendiamo, alla maniera neoavanguardista, sapere bene come scrivere male, ma proprio conoscere le regole della lingua, più che tentarne un sabotaggio o una violazione (mimetica o antimimetica che si voglia)”.
Potrebbe essere vero, ma si potrebbe benissimo obiettare che lo stile usato dalla C. sia il risultato di un lavoro sulla lingua, ad asciugare e essere il più possibile fedele al parlato. Una scelta, magari legata alla struttura del romanzo. Perché non può essere vista così? Perché invece è indubitabilmente sciatteria?
Sarebbe bello anche avere considerazioni legate più ai testi e al testo, nel loro complesso; più quindi centrati sui rapporti fra stile e testo. Perché se si lamenta l’assenza del critico è anche perché il critico raramente si sofferma sull’insieme. Cosa me ne faccio di giudizi su qualche frase?
L’attacco del romanzo che viene citato, ad esempio, mi sembra funzioni a meraviglia: poi magari scade tutto e il resto fa schifo e si mantiene così. Ma se leggo solo qualche sparuta critica a qualche mozzicone di frase, come faccio a capirlo?
Gentile Giuliano, le racconto un piccolo fatto vero, non proprio fresco di giornata: ero al primo passaggio d’anno di dottorato, avevo studiato le varianti di Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli e ne davo conto in un’esposizione minuta di tutte le redazioni e dei materiali preparatori. ”Quanto dispendio di mezzi per un’opera tutto sommato minore: la filologia”, mi fu detto dal mio tutor, ”bisogna meritarsela”. Manganelli, non Teresa Ciabatti. Anche la critica bisogna meritarsela (e comunque se legge dei saggi su una qualsiasi opera letteraria non è che la trovi chiosata riga per riga: troverà degli specimina, dei passaggi esemplari, dei singoli momenti rappresentativi etc.), e scommetto che quando guarda un disegno di suo figlio di 5 anni non ha bisogno di esaminarne tutta la serie da quando ha impugnato per la prima volta la matita per capire che non è Keith Haring. Qui Ciabatti è campionata perché serve a un discorso più ampio: non sto preparando un’edizione critica sulla sua opera, per il semplice motivo che non la ritengo un’opera, ma un ”caso”, di cui in questo pezzo credo di dare ampiamente conto. Se i passaggi citati non le restituiscono un’idea di povertà linguistica e stilistica, mi perdoni, è forse opportuno che vada a googlarsi Keith Haring perché corre il rischio di pensare sia suo figlio.
Gentile signora Policastro, i suoi parametri di valutazione mi sembrano utili solo ad esprimere un risentimento (che tipo di risentimento non saprei dirlo) piuttosto che una critica ragionata e seria su un testo letterario. Le sue valutazioni sono così ricche di frasette sconnesse e malignità sottintese (di grande spessore suoi riferimenti a scrittrici di dubbia caratura taciute come farebbe un adolescente immaturo tra i banchi di scuola) che davvero non capisco come un blog serio come LPLC possa ospitare un intervento che rifiuta qualsiasi compromesso col testo ed elude il dovere dell’argomentazione: “Il libro, anzi, i libri di Teresa Ciabatti hanno un grosso problema, un problema insormontabile di cui nessuno pare accorgersi, magari perché la massiccia promozione li sottrae in partenza a un discorso realmente letterario (difatti a recensire quest’ultimo sono accorsi le Concite e i D’Orrico, mica i critici): sono libri-chiacchiera, birignao, lallazione, e non hanno una scrittura degna della forma romanzo, che viene invece evocata dai follower dell’autrice-personaggio social come un a priori incontestabile”. In che modo questa analisi dovrebbe collegarsi alla porzione di testo riportata? Di cosa parla esattamente quando dice che i libri della Ciabatti “non hanno una scrittura degna della forma romanzo”? Cosa sono i “libri-chiacchiera” o i “libri-lallazione”? Come giudica questi campioni estemporanei in rapporto con l’intero testo? Certo i saggi di critica letteraria spesso ragionano sui “singoli momenti rappresentativi”: eppure, quando i critici sono seri, il tasso di rappresentatività di un campione viene adeguatamente discusso e commentato. Le sue considerazioni non aggiungono e non tolgono nulla al discorso sul romanzo della Ciabatti e questa mi sembra la pecca più grave di tutte.
Consiglio numero 1: si rilegga Auerbach perché temo che abbia frainteso i motivi del suo metodo di lavoro.
Consiglio numero 2: prima di commentare un testo, provi almeno a leggerlo.
Meraviglioso pezzo. Finalmente qualcuno che capisce qualcosa. Grazie.
Avviso ai naviganti: non entrerò oltre nel merito della questione ”citazioni”. La Commedia dantesca si studia a salti, figuriamoci se ”non posso” campionare Ciabatti. Quanto al riferimento alla scrittrice di cui evito il nome perché non solo non è indispensabile al ragionamento ma risulta fuorviante (non va a suo carico l’esser stata scelta per un ruolo al quale si dimostra inadeguata, evidentemente), se ce n’è più d’una ad avere una rubrica fissa sui libri in una trasmissione televisiva me lo si faccia presente e a quel punto mi sentirò in dovere di disambiguare. Grazie.
Il testo parrebbe interessante, ma negare che il presente è fatto anche di questa lingua, per quanto fastidiosa, non aiuterà a spostare i problemi. Citare Genna e smontare Genna per arringare contro Ciabatti è francamente inutile. Genna sa bene che quelle conversazioni intorno ai libri hanno questi modi, e perché. Se il tenore della critica dev’essere quello qui proposto allora meglio fare come Scurati, e dire qui che su Eulalia c’è un’altra recensione su “La più amata”. L’ho scritta io? Oh, che sbadato. Sarà perché parlo del romanzo e non di birignao critici. Buon proseguimento.
Gentile Gilda, sono contento di aver avuto una risposta.
Mi sta bene, capisco che possano bastare anche dei passaggi, specie quando particolarmente illuminanti.
E ha ragione, si può non meritare la filologia, ma si può meritare la stroncatura nel dettaglio: per cui non l’opera meriterebbe la critica filologica, ma l’importanza che ha l’opera sul mercato, la merita. Per convincere proprio i lettori.
Ho una piccola laurea in lettere e critica del testo letterario, e, per quanto quindi sia modesta la mia formazione in questo campo, quei passaggi, no, non mi restituiscono una povertà di stile.
Ogni prosa povera è per forza esteticamente indegna? Oppure è povera in un modo diverso? Perché non tiene conto della possibilità che quella prosa ha di significare all’interno di un testo più ampio?
Insomma, chiedo per imparare.
E senza polemica, ma davvero senza polemica, credimi!, vorrei capire nel dettaglio – senza entrare troppo nel dettaglio – cosa non ti convince.
Conoscendo internet meglio essere chiari e ripetersi: non conosco la Ciabatti, non ho molta simpatia per la Ciabatti di conseguenza; al massimo mi trovo d’accordo con qualche passaggio di Genna, ma senza esagerare.
E anche io mi stupisco di queste lodi con sbrodolature continue.
In due parole: no, non ho capito perché non ti convince, puoi spiegarmelo meglio, che vorrei capirlo?
Il pezzo della Policastro è un bellissimo pezzo di autofiction. Una romanziera – perché è anche questo, no? è anche questo il punto di vista da cui parla, no? – che spiattella tutto il suo risentimento per la massiccia promozione di un altro romanzo trincerandosi dietro la maschera di critica, e non facendo l’unica cosa che la critica sempre fa, o dovrebbe fare quando seria: esplicitare la propria posizione, il punto da cui si parla e, nel suo caso, si emettono sentenze. Se si fosse trattato di un pezzo di critica avrei fatto notare all’autrice che i brani selezionati e le sue argomentazioni non sono affatto convincenti, anzi per essere precisi non ci dicono niente di niente, ma visto che si tratta invece di sofisticata finzione narrativa possiamo apprezzare il fatto che il gioco funziona: non ci dicono niente del romanzo della Ciabatti, nessuno bada allo stile della Ciabatti, ma tutti stanno a guardare lo spettacolo della romanziera-critica-rosicona che mette in scena se stessa. Forse bastava un selfie, ma questo è meglio. Chapeau.
Questa non è una recensione ma una reazione allo zoccolo duro che s’è formato sui social con fan più o meno affezionati alla scrittrice, quindi manca del tutto di obiettività (ammesso che una “recensione” possa davvero esserlo).
Andava tutto molto bene fino al masterchef, il cui successo pure fa parte di una curiosità tutt’altro che buongustaia (e poi, comunque, in quanti se lo mangiano quel piatto là?)
“ Mercoledì 12 aprile 2017 – « “ Lo conosciamo di vista, avrà sui 35-40 anni, ogni tanto passava e tentava la fortuna. D’altra parte era senza lavoro, ora gli è cambiata la vita “ dice Gianni Baroni, titolare del bar. “ L’ho visto passare la monetina sul tagliando e sbiancare, quasi svenire. Ha portato la mano alla testa e ha iniziato a sudare. Ho guardato e ho capito perché. Riscuoterà subito 300mila euro e il resto diviso tra una rendita mensile di circa 6mila euro e un maxi-premio finale. Insomma, è sistemato “. » (Dai giornali)
A parte che ritenere la critica in stile Masterchef scevra da fattori di valutazione estrinseci è ridicolo, vorrei capire che hanno di male i capelli Pantene… Siamo ancora a dire – stante la contrapposizione – che per leggere Foucault bisogna per forza averli unti?
Un po’ di leggerezza, suvvia: non toglie nulla alla cultura, ma solo al tasso di acidità che traspare da ogni riga di questo scritto sgradevolmente moralistico e sostanzialmente inutile.
In chiusura del pezzo si legge: «meno inciuci e più analisi dei piatti». Sarebbe stato bello se l’autrice avesse applicato a se stessa questo principio assai condivisibile.
Invece, così com’è, questo pezzo è una brillante illustrazione di quello che rende insignificante buona parte della critica letteraria italiana: scaramucce di bottega, illazioni, arroccamenti risentiti.
E ai lettori che importa? Insomma, il libro di Ciabatti ha qualcosa da dire oppure no? E perché sfoderare dottorati quando manca la logica di base nelle argomentazioni? Il passaggio su Genna è lampante in questo senso: Genna critica la fashion blogger, quindi non può lodare Ciabatti. Se lo fa è in mala fede, è un venduto. Che ragionamento sarebbe? A meno che Policastro non parli come portavoce di una congrega in cui si dà come verità autoevidente che Walter Siti è un grande scrittore e Teresa Ciabatti no. In questo la sua risposta a Giuliano, qui sopra, è esemplare: di nuovo sfoderamento di credenziali accademiche, poi uno splendido ragionamento circolare: “Anche la critica bisogna meritarsela”, “Qui Ciabatti è campionata perché serve a un discorso più ampio: non sto preparando un’edizione critica sulla sua opera, per il semplice motivo che non la ritengo un’opera, ma un ”caso”, di cui in questo pezzo credo di dare ampiamente conto.” Ciabatti non si merita la critica perché Policastro ritiene che non se la meriti. Amen.
E, per inciso, il riferimento al campionamento di Dante non sta né in cielo né in terra: non penso di dover perdere tempo a spiegare la differenza che passa tra il metodo di analisi che si può applicare a un autore trecentesco irrevocabilmente parte del canone e quello che è appropriato per una scrittrice nata nella seconda metà del ‘900 e sconosciuta a molti.
Al netto dell’acrimonia, ha ragione Lidia: questo è un pezzo di autofiction.
Meno inciuci e più analisi dei piatti.
“Avviso ai naviganti: non entrerò oltre nel merito della questione ”citazioni”. La Commedia dantesca si studia a salti, figuriamoci se ”non posso” campionare Ciabatti”.
Signora Policastro, lei può e deve campionare. Lo faccia però con criterio e serietà: i lettori di questo blog sono abituati a ben altro tipo di analisi.
Sembra tanto la “vittoria del falso indiscutibile”, come metodo e strumento. Funzionale a ogni tipo di potere. Cracco, Ferragni, e tutto il resto del circo, sono già, in questo senso, perfettamente funzionali.
Ho letto con attenzione il romanzo della Ciabatti. Non sa scrivere. Nel senso che non ha disposizione i mezzi per poterlo fare. Il suo è un riassuntino superficiale della sua vita o presunta vita.
Se la profondità la si nasconde spesso in superficie qui non ci sono ne l’una ne l’altra.
C’è una morbosità patologica nei fatti che dissimula. Tanto da renderla simile a tutti quei lettori che leggono solo per dimenticarsi.
Bene. Dimenticatevi la Ciabatti.
http://m.memegen.com/glknwg.jpg
“ Martedì 13 gennaio 2009 – « Andersen seguì di sicuro con attenzione la nascita della tecnica delle punte. Intanto, avendo avuto un padre ciabattino, conosceva la tecnica di costruzione delle scarpe. E poi, soprattutto, aveva studiato danza. Con quale spirito non si sa. Di fatto il ballo, nella fiaba di Andersen, ha qualcosa di demonico, di irrefrenabilmente macabro. Tanto che Karin deve chiedere al boia di tagliarle non la testa ma i piedi con indosso le scarpette. Ridotta alle stampelle, troverà la pace solo quando le si spezzerà il cuore e volerà in cielo (epilogo alla Marcellino pane e vino) dove nessuno le parlerà mai più di scarpette rosse. » (Dal web) “.
invidio chi è riuscito a leggere tutta questa “recensione” che non dice assolutamente nulla, io l’ho saltata a piè pari: tanto era evidente dall’incipit che la Policastro non sarebbe mai entrata veramente nel merito ma voleva solo togliersi il classico italianissimo sassolina dalla scarpa, ahi.
Da questo deduco che Marsilio ti ha rifiutato il libro.
brava gilda! paghi uno compri due: prossimo premio strega + prossima ministra pd.
http://blog.iodonna.it/teresa-ciabatti/2014/05/13/siamo-tutti-puttane/
Vorrei scusarmi con Gilda Policastro per il tono del mio commento: rileggendolo, mi sono resa conto di essere stata sgradevolmente aggressiva e per niente urbana. Ho ceduto alle lusinghe dell’anonimato internettiano per esercitare un po’ troppo sgarbatamente il mio diritto di critica.
Del contenuto non mi pento, della forma sì: spero Policastro voglia accettare le mie scuse.
Non ho letto il libro di Teresa Ciabatti, non ho letto neanche Cognetti, visto che si parla di Strega, e in generale mi sembra che il tono di questo pezzo sia un po’ troppo astioso e si facciano troppi esempi dallo stesso libro perché nn venga il sospetto di un risentimento ad personam. Peccato, perché invece il discorso, la sciatteria di certa scrittura contemporanea italiana (solo italiana?), le camarille papaline e tutto il resto erano e sono discorsi interessanti, da sostenere e da continuare.
Forse molti di voi dovrebbero leggere il libro anziché offendere la Policastro e tuttavia questo è quello che penso del libro della signora Ciabatti.
Non so cosa mi ha spinto verso questo libro. Non la candidatura allo Strega che è arrivata dopo. Forse solo una banalità: l’autrice è nata ad Orbetello e il romanzo è ambientato quasi tutto lì. Orbetello è un posto davvero speciale. Colonia spagnola in mezzo alla laguna.
Non starò a raccontarvi la trama che potete trovare ormai ovunque tanto è il battage pubblicitario per questo libro.
Avevo appena finito di leggere il bellissimo “Costellazione familiare” di Rosa Matteucci. Entrambi affrontano esperienze ravvicinate, familiari appunto. Nella Matteucci però non si calca la mano sull’autenticità o meno mentre in quello della Ciabatti tutto è costruito come se si trattasse di una cronaca familiare infantile scritta in prima persona da chi c’era.
Sorvolo sul fatto che la scrittrice e la sua famiglia ricca, con il padre fascista, la villa, la piscina e tutto il resto volutamente esibito mi davano un cattivo sapore: di ostentazione dell’ostentazione.
Dopo il primo capitolo ero basito. C’è sì un gioco di sponda temporale che porta avanti e indietro e che poteva essere interessante ma è svolto in maniera grossolana. Sono andato avanti nella lettura e sempre di più non potevo non notare la scrittura (qui lo stile è la sua mancanza) elementare, basica, come fosse stato scritto da una studentessa. Voglio credere che sia voluta ma questa noiosa superficialità conduce solo ad un fastidio martellante. Intanto il plot del libro promette rivelazioni e su queste fa gioco perché si presenta come una STORIA VERA. Quindi continui a leggerlo non perché ti piace e godi nella lettura, ma solo per soddisfare lo sciocco desiderio del “come va a finire”.
Hofmannsthal diceva che la profondità va nascosta in superficie e lì si deve cercarla: una grande verità per chi frequenta i grandi scrittori. In questo romanzo c’è solo superficie. Un lago stucchevolmente dolce che si ripete e si ripete come in una confessione analitica.
Conosco l’autrice solo via Fb e anche da lì, da questa sorta di culto malsano che gli si è creato attorno, nasce il sospetto che in lei ci sia una problematica patologica che non si trasforma mai – ma proprio mai – in istanza poetica. E nasce il sospetto obbrobrioso che la Mondadori stia sfruttando questo elemento patologico per lanciare un libro. Mi spiace che la Ciabatti non se ne sia accorta o che stia al gioco.
Alla fine Teresa Ciabatti, questo nome ripetuto fino alla nausea, diventa il simbolo glamour di tutti coloro che avrebbero voluto e non hanno potuto. Compreso me che sperando di trovare Orbetello mi sono ritrovato altrove. In un luogo che non porta da nessuna parte.
Critica non so, ma di cattiveria gratuita e invidia mascherata qui ne gira tantissima.
Quando, anni fa, lessi “Il farmaco” di Gilda Policastro, misi in riga qualche velleità di scrittore che avevo e mi dissi che non avrei mai potuto scrivere nulla che fosse da meno dal punto di vista della scrittura. (E infatti poi non scrissi nulla.)
È in questo senso che tanti libri pubblicati oggi sono libri senza scrittura. Si può dire del loro essere “leggibili” quello che Adorno disse di ciò che passa per “comprensibile”:
“Solo ciò che non ha bisogno di essere compreso passa per comprensibile; solo ciò che, in realtà, è estraniato, la parola segnata dal commercio, li colpisce come familiare. Nulla contribuisce altrettanto alla demoralizzazione degli intellettuali. Chi vuol sottrarsi a questa demoralizzazione, deve respingere ogni consiglio a tener conto della comunicazione come un tradimento all’oggetto della comunicazione.”
Il pezzo consta di 11.791 caratteri, di cui 3700 si dedicano al libro di Teresa Ciabatti. Parla di rinuncia alla funzione critica a partire da un paragone tra le terze pagine e le trasmissioni dedicate alla cucina stellata. Prosegue interrogandosi su quanto i social incidano sulla creazione di un consenso blindato attorno a certe figure leaderistiche e quanto queste cordate sollevino dal confronto aperto e dalla verifica critica i personaggi acchiappalike, a scapito di scrittori più schivi che “non sono su Facebook” (penso a Giorgio Falco o a Francesco Pecoraro che ne è uscito per saturazione). L’esempio, piuttosto consistente dato che è “il caso” del momento, essendosi creato attorno all’autrice un battage pubblicitario e insieme un cordone di protezione senza precedenti, è il libro di Teresa Ciabatti, esempio lungo e articolato, ma (cifre alla mano) non determinante. Provate a espungere quei 3700 caratteri e ditemi se il pezzo perde il suo contenuto. Ve lo dico io che ho fatto l’esperimento al posto vostro: la risposta è no (chi è lei per sostituirsi a noi, chiederebbe la lettrice di qualche commento fa, io potrei rovesciarle la domanda, ma per fortuna c’è Google per tutti e ci togliamo rapidamente il pensiero delle presentazioni e delle credenziali). Questo sarebbe il sassolino dalla scarpa o selfie come lo chiamate? E perché mai dire di un libro “non mi piace, non mi piace com’è scritto” è livore, mentre dirne “mi piace, mi piace tantissimo, lo adoro!” è legittimo? In base a quale legge di natura o di diritto? Non mi è parso di sentire ipotizzare che chi elogia sia in cattiva fede o abbia un legame di qualche tipo con l’autore, invece il vessillo del risentimento viene agitato di fronte a ogni dissenso, a nientificarlo (o almeno a provarci). Che poi l’assunto “questo libro è brutto, pessimo o indecente” vada dimostrato con il commento interlineare, o come un teorema, beh beh. Il critico, come ho sostenuto in diversi commenti, campiona: lo fa quando vuol dire bene e lo fa quando vuole dir male, lo faceva Pampaloni leggendo Il giuoco dell’oca e Zanzotto recensendo i Novissimi. Non mi pare che fossero dei teoremi, quelle stroncature. O delle sentenze giuridiche: che un libro sia brutto, pessimo, indecente (o bello, meraviglioso, capolavoro) lo si può, quindi, mostrare, non dimostrare. E non sareste convinti, ove vi sia piaciuto o vogliate immaginare che possa non piacere solo in ragione del livore personale, nemmeno se ne avessi pubblicato il riassunto o una parafrasi riga per riga, a dimostrazione che sì, certo, l’avevo letto, tutto-tutto, perché invece individuare delle criticità o delle sequenze rappresentative, no, non è da critico, è da “autofiction” o da “romanziera”. Il mio pezzo, infine, s’interroga sull’abbassamento delle competenze richieste ad autori e critici nei contesti della comunicazione culturale, in favore di un malinteso senso della divulgazione come impoverimento dei contenuti e dei linguaggi, che è uno dei temi guida della mia militanza di questi anni (ci ho scritto un libro per Carocci nel 2012, per dire del sassolino che aspettava Ciabatti per ruzzolar via dalla scarpa). A fare da puntello al ragionamento, la domanda di Gabriele Frasca, su cui mi sarei aspettata duemila commenti, like, condivisioni e su cui NESSUNO ha invece speso mezza parola: come mai dai film e dalle serie tivù ma finanche dai videogiochi ci si attende livelli di complessità e raffinatezza cui la narrativa contemporanea abdica in partenza? Mi capita spesso di fare l’esempio di Nolan, perché è indicativo di come il film di genere senta il bisogno di adoperare i codici delle teorie scientifiche e filosofiche (a tacere del più recente Arrival che scomoda la lessicografia e la reversibilità temporale) mentre dal romanzo ci si aspetta che ci accompagni per mano come il fantolino dantesco (che peraltro “muore di fame e caccia via la balia”). A nessuno interessa questo punto, siete tutti (o quasi: felice di constatare che molti hanno apprezzato, condiviso e discusso in modo non pregiudiziale e senza i soliti riferimenti psicologici a caratteri nature e conflitti inesistenti) a ripararvi dietro il più detto che dimostrato assioma per cui chi critica rosica? Forse chi non critica rosica di più: perché si accontenta di quel che gli basta a confermarsi nelle sue certezze, ma non saprà mai che cosa c’è fuori dal suo rassicurante mondo in ciabatte.
Ho letto. E non riuscivo a smettere di leggere. Sarà che racconta di storie che mi ricordano le mie. Sarà che anche io, che di indole sono sempre stato triste, penso sempre all’infanzia con felicità. Sarà poi che la mia infanzia non è stata felice affatto.
Se sia o non sia letteratura però gentilissima Gilda non saprei dire. Dovrebbe forse spiegarmelo lei, e mi piacerebbe lo facesse di più e meglio. Per vivere, o meglio dire, per sopravvivere ( e dove sarei ora se non ci fossero state le case di mio padre chirurgo) mi occupo di poesia quattrocentesca.
Carlo sei un mito ahahahahah
voglio un feed che mi aggiorni su quando commenti qualunque cosa
> la domanda di Gabriele Frasca, su cui mi sarei aspettata duemila commenti, like, condivisioni e su cui NESSUNO ha invece speso mezza parola: come mai dai film e dalle serie tivù ma finanche dai videogiochi ci si attende livelli di complessità e raffinatezza cui la narrativa contemporanea abdica in partenza?
Perché sono media più sintetici, veloci e complessivamente immersivi del solo testo scritto, quindi fin dall’inizio con budget di produzione e target di mercato diversi? Il contenuto mitopoietico è altrettanto veicolabile e dove non arriva il genio contemporaneo si attinge a piene mani dai classici. Aggiungiamo la componente artigianale integrata, la catena di produzione, la combinazione di audio-video, la distribuzione in diversi formati, ecc. ecc.
Carlo, per quel che vale, sono esattamente in sintonia con te. Il simbolo di qualcosa che tutti avremmo voluto e non abbiamo potuto. E proprio questo infastidisce. Chi non ha pensato di poterlo fare: se scrivere e vincere, forse, lo Strega è scrivere come scrive lei. Una qualunque borghese con la casa a Cortina che arriva a vincere lo Strega.
Sì, un blog di critica della letteratura contemporanea per Carlo, subito. O forse no, non subito. Forse dopo che avrà imparato la differenza tra “basico” e “basilare” (o “banale”, nel suo caso), e tra “problema” e “problematica”. Che avrà rinunciato a usare “il plot” in luogo di “la trama”. Che avrà ripassato l’opportunità di scrivere “le si è creato intorno”, parlando di una scrittrice, anziché “gli”.
A quel punto sarò riconoscente di potermi abbeverare anch’io alla fonte delle sue ficcanti analisi, io che ne ho tanto più bisogno di altri perché dopo oltre quarant’anni di letture voraci quanto eterogenee sono ancora afflitta dallo “sciocco desiderio” di sapere come va a finire: sarebbe davvero ora di smettere questo vizio di volersi anche far intrattenere, dai libri, anziché cercarvi solo edificazione estetica e morale.
“Non mi è parso di sentire ipotizzare che chi elogia sia in cattiva fede o abbia un legame di qualche tipo con l’autore, invece il vessillo del risentimento viene agitato di fronte a ogni dissenso, a nientificarlo (o almeno a provarci).”
Gentile signora Policastro, mi fermo qui. Queste parole sono l’esempio di quanto la sua critica sia semplicemente una risposta risentita a quelle che secondo lei sono le tendenze culturali del momento. La sua posizione è questa: chi per mestiere dovrebbe parlare di libri viene incontro solo alla logica dello sbrodolamento, del compiacimento, del favore ecc., dunque io, che sono critico, rispondo con l’operazione opposta e stronco a manetta tutto quel che c’è di stroncabile. Il problema è che lei reagisce alla logica della recensione compiaciuta, ammiccante e acritica non con la logica della stroncatura critica, obiettiva e professionale, ma con una tendenza apparentemente opposta che ha però la stessa base acritica e poco professionale, oserei dire emotiva e un po’ infantile. Lei non dà peso all’argomentazione perché i suoi “nemici” non danno peso all’argomentazione ed essendo la sua una reazione emotiva, definisce il suo metodo di lavoro in modo inavvertitamente speculare.
“E perché mai dire di un libro “non mi piace, non mi piace com’è scritto” è livore, mentre dirne “mi piace, mi piace tantissimo, lo adoro!” è legittimo?”.
Cos’è questa, la lagna di una ragazzina del secondo anno di liceo? È davvero questa la domanda alla base del suo metodo di lavoro? La sua critica è rivolta ad una tendenza che commenta di pancia e acriticamente un testo letterario: se la controproposta cambia solo di segno mantenendo le caratteristiche di cui pur si lamenta, allora è livore, o semplice ingenuità.
Sulla questione dei campionamenti sono in parte d’accordo, come le ho detto. Ma le riconsiglio di rileggersi Auerbach. Il metodo dei campioni serve ad estrarre un che di universale da un dato particolare: le sue considerazioni sui campioni della Ciabatti sono troppo arbitrarie per raggiungere questo scopo.
Il fatto è che, cara Gilda, la sua recensione a molti è parsa poco distaccata, anche a chi, come me, non ha letto questo libro. Se ne faccia una ragione, non riesce a nascondere il suo livore, nonostante i suoi sforzi forbiti.
Mettendo insieme molti di questi commenti, si potrebbe creare una bella antologia esemplificativa delle “Meditazioni della vita offesa”.
“Se ne faccia una ragione, non riesce a nascondere il suo livore…” è perfetta per l’aforisma sul “bottleneck”: in basso e sempre più in basso.
Ho molto apprezzato il testo di Policastro che -recuperando la domanda di Frasca- ha posto un problema reale non solo sulla letteratura ma sull’industria culturale odierna. Ho divorato il libro di Ciabatti e l’ho trovato intenso. Questo però non significa che un testo critico su di esso –o chi per esso- debba essere attaccato a suon di “livore personale” e via dicendo. Alcuni toni sono discutibili, certo, ma le logiche tribali –tu cattiva, io buona, io per Ciabatti, io contro Ciabatti- non portano a granché se non a reiterare fino alla noia il frusto teatrino del prosaico “chi ce l’ha più lungo”. Con questa coltissima citazione, saluto.
con gilda ma, a sorpresa, con teresa!
è buono e giusto che la borghesia e la orbetello bene si autorappresentino
attraverso un romanzo che, abbiamo capito tutti benissimo,
non ha proprio un cazzo da dire a nessuno e lascia il tempo esattamente così come lo trova
proprio come le chiacchiere da ombrellone delle signore borghesi tutte firmate
anche loro hanno diritto di esistere e di divenire premio strega
è come se fosse la loro autotrasparenza di sé a sé
Condivido al cento per cento. Purtroppo questo romanzo pare piacere a tutti, non solo i critici da vetrina. Chi lo critica si sente molto solo. Mala tempora
“(Più ci si avvicina al presente) Più si vedono delle falle, delle crepe. Anche se penso ai miei amici. Ad esempio uno che stimo moltissimo, che aveva incominciato con grande credito critico e poi non è più riuscito a pubblicare come avrebbe voluto è Dario Voltolini. Vedo pubblicati degli autori che non valgono nulla e mi chiedo perché.” (Michele Mari)
@ Gilda Policastro
Il suo pezzo è intitolato “La più amata dagli italiani. Teresa Ciabatti e l’eutanasia della critica”, ed è costruito a partire dall’assunto (che assume i caratteri di dogma, perché non viene mostrato) che il libro di Ciabatti sia un pessimo esempio di letteratura, anzi che addirittura non lo sia. Dato che questo assunto è il perno su cui ruota l’intero pezzo, non mi pare fuori luogo che si discuta della sua fondatezza.
(“Arrival” è opera letteraria prima che film: il film è basato piuttosto fedelmente su un racconto di Ted Chiang dal titolo “Story of Your Life”.)
Non saprei ma mi pare che il fulcro del pezzo della Policastro sia più o meno questo:
“[…] esce un capolavoro di stile al giorno, non fosse che a decretarlo non c’è più nessuna comunità scelta, non l’accademia che fa fatica a registrare ciò che è accaduto dopo Svevo e Pirandello, non la cosiddetta società letteraria di cui non rimane traccia nemmeno nei salotti, che si sono peraltro, con tutta la ritualità e l’accolitismo dei Verdurin, trasferiti nella bacheche Facebook, dove argute signore della bella mondanità dispensano boutade ciniche o fintamente autodenigratorie […]”
ed è un discorso che la Policastro ha fatto altre volte. La Ciabatti è strumentale al ragionamento sulla decadenza di ogni giuria letteraria.
Ma il problema è un altro: chi dovrebbe fare oggi la giuria?
Propongo alla Policastro di unire le nostre forze, io ci metto il poeta, cioè l’idiota che è in me, lei ci mette la critica, cioè l’intelligente che è in lei e facciamo la giuria. Secondo me, facciamo il botto. Si riempiono i teatri. E soprattutto le librerie che ci garbano a noi.
Ci pensi, Gilda.
Saluti
Gentile Gilda,
la ringrazio di questa conversazione appassionante. A partire dalla sua difesa dello stile contro i contenuti, mi chiedo, e credo che come me molti si chiedano, cosa risponderebbe lei alla recensione di Michela Marzano del romanzo di Siti, l’autore che per lei è l’anti-Ciabatti: http://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/?ref=RHPPBT-BH-I0-C6-P1-S1.6-T1
Davvero una sua argomentazione sarebbe utile a tanti lettori confusi per capire cosa definisce il compito di una vera critica letteraria, e cosa distingue un caso commerciale dalla vera letteratura.
La ringrazio in anticipo.
Ettore Andenna: deduzione sbagliata. Lo dico da consulente di Marsilio per la narrativa italiana.
da Celle, di G.P.
“Se avessi accettato di essere brutta, di parere normale. Di perdere i capelli, di non tingere i bianchi. Di avere larghi i fianchi, come le donne di altre età senza le palestre, le creme speciali. Di uscire a testa bassa, occhi mai sfacciati. In una serie di giornate tutte finite con la lancetta mai tarata sulle novità, la cosa imprevista. Se avessi accettato di restare infelice, senza curarmi, le pasticche, le sedute. Elena lo ha visto per le ultime richieste: vuole la casa a Roma, vuole andarsene per sempre. Quando morirò, chissà in quale maniera, lei non sarà con me, e forse sarò sola. Non sono troppo vecchia per altri uomini, è così che la pensa.”
“Come il beato dell’edicola al centro della piazza, lo veneravano, e forse di più. Come il papa, o il presentatore di un programma della tivù. Ma non sapevano che Giovanni avrebbe amato solo me, nessun’altra come me comunque. Da quando era tornato le donne non gli erano mancate, stando a quel che si diceva. Era lui che non ci provava il gusto di una volta, forse troppe se n’era prese e adesso aveva voglia di fare altro, si diceva pure questo. Era stato sull’altare e nella polvere, come Napoleone e Maradona.”
quello per questo? meglio nessuno dei due
Ma il critico non dovrebbe fare solo il critico? Conflitto di interessi, anyone?
@marco: il mio romanzo s’intitola Cella, non Celle.
@Marisa Laurito: quindi Teresa Ciabatti, scrittrice, non dovrebbe recensire su la Lettura e meno che mai essere giurata del premio che si candida a vincere. O il conflitto riguarda solo la critica che non osanna? Alle solite.
@Eduardo Saverin: Il libro di Siti è uscito oggi, quindi vorrei prima leggerlo.
@odilia mancinelli: ”piuttosto fedelmente” non mi pare: il passaggio transmediale è un tradimento di per sé, della trama c’importa poco, in questo discorso.
Il resto, credo di averlo ampiamente argomentato, chiosato e postillato. Forse dopo millemila condivisioni, interazioni e viralità assortite, possiamo serenamente passare ad altro. Grazie a tutti per la lettura partecipata e la discussione animata, e ad maiora semper.
@ sì Cella non Celle mi scusi. I due testi sotto tratti dal libro Cella e non Celle restano quelli.
Signori, ecco come si scrive una recensione.
Anzi, qualcosa di più: quasi un canone.
Gianluca, non ho capito se scherzi, davvero. Ma comunque: son due giorni che, tra lettura del libro della Ciabatti e inseguimento dei commenti a questo pezzo, non penso ad altro. Non voglio dir nulla su contenuti né su stile di questo romanzo massicciamente discusso, tantomeno sullo spessore critico di questa recensione e dei passaggi scelti a supporto delle tesi esposte -tranne il sospetto che l’autrice si sia fermata alle prime 30 pagine. Noto soltanto che, da uno che studia il genere autofiction da quattro anni, abbiamo perso un’occasione per ridefinirne la fisionomia, o almeno quella che ha assunto in Italia. Abbiamo perso un’occasione per indagare le contaminazioni fra letteratura di consumo (orrenda definizione, lo so, alla quale assegno un valore affatto neutro, tendenzialmente “positivo”), autorappresentazione sui social, capacità di stare al gioco, di reggere l’identificazione inevitabile, di scappare a gambe levate quando diventa pervasiva (rimosso l’account fb da qualche ora). Che sarà pure un sottoprodotto dell’intera operazione editoriale, dal momento che quel che ci interessa davvero è, ovviamente, l’esito estetico dell’opera. Ma che, signori, ci piaccia o meno, è essa stessa letteratura, se con questo sostantivo intendiamo il flusso di narrazione che si serve di diversi media per veicolare una “storia”. Chissà se Lorenzo Marchese è all’ascolto. Sarei davvero interessato alla sua opinione.
Ad ogni buon conto, davvero, siamo seri: Volo e Faletti, in questo ragionamento, c’entrano davvero poco, servon solo a colorare il pezzo.
Aggiungo: il letterario, la forma della lingua qui rivendicata a valore intrinseco come se fossimo nel 1920 invece che nel 2020, e’ oggi un orpello individuale di stile comparabile a tutti gli orpelli individuali di stile sdoganati in alto dal potere dei soldi che compra tutto e tutti, in basso dal pop e dalle molteplici forme di espressione individuale che colmano la ferita narcisistica di massa. Lauree, master e dottorati per ritrovarsi nel 1920, quindi? Piu’ interessante anche a scopo di lascito ai posteri il personaggio perfettamente contemporaneo di una sciattona disastrata di provincia, avvenga o non avvenga la transustanziazione del suo diario in lente universale.
Ho ripreso l’argomento nel mio vibrisse, con un appunto dal titolo Perché alla letteratura si chiede di impoverirsi, mentre altri media narrativi (il cinema, le serie tv, i videogiochi) continuano ad arricchirsi?
Caro Giulio, prendendo alla lettera la tua interrogazione-affermazione, sarei tentato di concludere che io sono forse il massimo scrittore vivente. Considerato come mi sono impoverito io. Naturalmente, questo non è quello che intendevi dire tu etc.
Teresa Ciabatti + Gilda Policastro =
«Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione. Non ci dormo la notte, allontano amici e parenti, mi occupo solo di questo: indagare, ricordare, collegare. A quarantaquattro anni do la colpa a mio padre per quello che sono. Anaffettiva, discontinua, egoista, diffidente, ossessionata dal passato. Litio ed Efexor prima, Prozac e Rivotril poi, colpa tua, solo colpa tua, papà».
«Entravi nella clinica e vedevi Giovanni Principe scartare il panino nei corridoi come un qualunque specializzando, portarselo alla bocca divorandolo in un ahm, proprio come le donne, tante che ormai se n’era perso il conto, e dei figli, a quanto dicevano. Si puliva la bocca col dorso della mano, la bocca larga da cannibale e però mansueto, rassicurante»
«Un bambino di un anno abbandonato sulla spiaggia, se non fosse per l’ombra che si allunga su di lui. Un adulto, mio nonno. Aldo Ciabatti. Potrebbe essere stato tutto, mio padre, prima di mia madre. Quello che ho conosciuto non era proprio lui, o lo era in parte, o forse non lo era affatto: pensavo fosse tirchio (la luce quando uscite dalle stanze, perdio!), invece regalava pellicce e gioielli».
«Appena dopo lo vedevi magari stringere con quelle stesse dita la mano dell’assessore venuto a chiedergli a che punto si fosse poi con quel condono, il collaudo del nuovo reparto oncologico, e cosa dicevano a Roma, oppure al lattaio che ce lo portava fresco ogni mattina, che il Principe distinzioni non ne faceva, e la cordialità della casa aperta non si nega a nessuno. Poi magari tornavamo alle lenzuola scostate coi piedi, il groviglio dei vestiti strappati a morsi sul parquet, la mano protesa verso il comodino per le pillole azzurre o il preservativo dietro la cornice grande con la foto di mammà il giorno della laurea di Giovannino, l’orgoglio di casa. »
«Adesso lei mi abbraccia – nonostante io cerchi di divincolarmi, odio il contatto fisico – e mi tiene stretta. Che sia in realtà lei ad aggrapparsi a me? Che sia lei a chiedermi aiuto? Sussurrandomi che tutto si sistema, ogni cosa si sistema, piccola mia».
a Livio Romano: la mia opinione su cosa?
Lorenzo, ti cito: “[l’autofiction è un] componimento in cui l’autore scrive quella che in apparenza è la propria autobiografia, ma nel contempo fa capire, attraverso strategie paratestuali e testuali, che la materia della storia che si racconta è da interpretarsi come falsa, cioè non corrispondente alla realtà dei fatti avvenuti e non credibile come resoconto testimoniale”. E Walter Siti: “l’autore di autofiction, mentre dice al lettore “credimi”, gli comunica con altrettanta sfacciataggine “sto mentendo””. Ebbene, in questo clamoroso caso (perché annunciato a lungo su FB, perché oggetto di polemiche e interviste e pezzi giornalistici), io ho l’impressione che questo patto sia sovvertito. Che l’autrice faccia di tutto, al contrario, per far passare il messaggio: “E’ un memoir vero al 100%”. Nuova via all’autofiction? Nessuna autofiction tout court ma “autobiografia un po’ romanzata”? Ma soprattutto confesso che l’impressione mia è: a. che il grande pubblico (quello, che non legge letteratura, per dirla con Giulio) richieda questo genere di operazioni; b. che, mettendosi dalla parte dell’autore, devi poi avere spalle larghe e cinismo sconfinato per gestire il can can, oppure devi ritirarti dalle scene e lasciar parlare il libro (opzione che mi pare abbia alfine scelto Teresa); c. che ora dobbiamo aspettarci valanghe di memoir i quali -per quanto gli autori potranno giurare che è tutto vero- saranno più finzionali delle autofinzioni e delle autobiografie propriamente dette. Insomma, come funziona, qui, il patto? Non mi chiedo come funziona per un lettore smagato, bensì per uno occasionale.
Uhm. Scrivi:
io ho l’impressione che questo patto sia sovvertito. Che l’autrice faccia di tutto, al contrario, per far passare il messaggio: “E’ un memoir vero al 100%”. Nuova via all’autofiction? Nessuna autofiction tout court ma “autobiografia un po’ romanzata”?
Secondo me, tutte le autobiografie “propriamente dette” sono un po’ romanzate, offrono una versione rocambolesca e confezionata in modo da essere accattivante: non alterano il passato a tal punto da indurre il lettore a non prestare fede a nulla, ma è chiaro che ci sono sempre passaggi poco chiari.
Avendo letto il libro, mi sembra che abbia la forma di un semplice scritto di memorie familiari. Ciabatti ricorda il passato, racconta ciò che ne ricorda senza dar mostra di mentire o stare distorcendo il suo discorso, lascia in ombra alcune cose. Probabile che menta di nascosto, come tutti, sul suo passato. Nulla di nuovo, sul fronte del patto narrativo, rispetto a ciò che hanno fatto milioni di autobiografi, di redattori delle proprie memorie.
Premetto di non aver letto la Ciabatti e non aver letto lei, Policastro.
Però francamente incuriosito dal dibattito mi son letto l’estratto: Della più Amata.
Non ho trovato grande letteratura, ma nemmeno la schifezza che lei denigra.
E quindi, leggendo fra i commenti a questo post, che il suo romanzo si chiama Cella, sono andato a cercarlo su Amazon.
Ho trovato solo due recensioni. Sintomo che il suo libro sfortunatamente ha venduto pochino. Ma soprattutto i due recensori le hanno dato il primo una stella e il secondo due stelle.
Ho detto possibile? All’esame dei lettori veri e non dei critici che pompano titoloni come per la Ciabatti, la Policastro va così male?.
Allora sono andato da Ibs. Qui ho trovato tre recensioni. I voti: tutti una stella.
I giudizi di questi lettori sono pressoché unanimi su quanto sia noioso e con ambizioni letterarie pretestuose il suo romanzo Cella.
Non è che le recensioni online siano oro colato. Figuriamoci. Però su cinque recensioni avere un giudizio così unanime che il suo libro non piace ai lettori, è un vistoso sintomo.
Da qui, tralasciando tutti gli altri temi giustamente trattati dal suo pezzo, mi domando in piena coscienza: non è che la scrittrice Gilda Policastro rosichi un po’ e forse parecchio, per il successo della scrittrice Teresa Ciabatti, che nonostante non sia una cima nella scrittura, riscontra così diffusi consensi?
Francamente, il dubbio mi rimane.
Luca Amato non è il primo ad avanzare il dubbio che l’autrice di questo articolo “rosichi”. Ora, non è che questa ipotesi sia necessariamente falsa o infondata: il fatto è che essa è irrilevante.
Commettendo lo stesso errore, ci fu chi sostenne che il pensiero di un grandissimo poeta e filosofo italiano non fosse che la conseguenza della sua gobba, con la sprezzante superbia di chi pensava di poterne liquidare le idee senza nemmeno doverle affrontare sul piano della ragione.
Chi non ha argomenti, o ne ha di deboli ma è convinto che siano fortissimi, cade in queste fallacie.
Dello stesso repertorio fa parte anche il ricorso all’autorità, che è sempre disdicevole, ma lo è ancora di più quando la pretesa autorità non è la più grossolana: il numero. Il numero dei lettori in questo caso: ciò che non dice assolutamente nulla, tant’è che si possono citare infiniti casi di grandi opere che il grande pubblico ha ignorato o disprezzato, mentre opere di nessun valore ne suscitava l’entusiasmo.
Siamo dunque nel campo del nulla. Si seminano livore o si fa confusione, senza con ciò formulare un solo argomento.
Ineccepibile risposta Stefano Montani. Logica ed essenziale nonché vera.
Stefano Montani, a me il dubbio pare più che fondato. Perché se io nel mio ufficio taccio un collega di incompetenza o di successo immeritato, ci saranno altri che diranno, ma tu prima di accusare sei certo d’essere così obiettivo?
Perché io mi domando: se la Policastro avesse lo stesso successo di critica, di pubblico e fosse fra i vincitori designati per lo Strega (o vince la Ciabatti o vince Paolo Cognetti, vince uno della scuderia Mondadori, lo sappiamo) avrebbe la stessa forza per sollevare tali argomenti? D’essere voce fuori dal coro contro il sistema editoriale o la critica defunta? Potrebbe sputare su chi la fa vendere e su chi la applaude?
O si è paladini della giustizia solo quando si è vittime dell’ingiustizia?
Sul resto, credo che la Policastro abbia ragione per manifesta evidenza. Non c’è nulla da dire, se non che il mercato editoriale è questo. Gli editori sono aziende che devono far quadrare i conti e quindi vendere quel che si vende più facilmente; che i critici sui giornali tranne rari casi sono un circolo di favori e di clientele.
Tutto per me ampiamente assodato. Ha ragione.
Però, io che amo i libri e gli scrittori, mal sopporto vedere uno scrittore non di successo, inveire contro uno scrittore di successo.
Questo compito spetta alla critica e ai lettori. E ci sono critici e lettori forti che muovono già queste accuse. Uno scrittore non può auto incensarsi a modello letterario. Uno scrittore deve rispondere scrivendo libri belli. Che siano questi di intrattenimento come gialli e rosa, o libri propriamente letterari.
Forse data la mia età, appartengo a un mondo in cui i valori di rispetto del proprio ruolo, del non stigmatizzare un collega che ha ottenuto di più, anche forse immeritatamente, sono sacri.
Per Luca Amato: se cinque recensioni tra Amazon e Ibs sono un campione sufficiente per sospettare che Cella non piaccia “ai lettori”, le segnalazioni positive di “Grazia”, “Io donna” e “D di Repubblica” sono un campione sufficiente per sospettare che Cella piaccia “alle lettrici”? (Con il presupposto, ovviamente, che settimanali così market-oriented come quelli “femminili” sappiano quello che fanno).
Qui la scheda del libro nel sito dell’editore; dove si può trovare anche la rassegna stampa.
Ringrazio Stefano Montani che ha avuto la pazienza di dire ciò che è ovvio, ma spesso dimenticato.
La rosicata viene da lontano, c’e’ anche da dire che la linea sperimentale ha del tutto perso l’aura e la collocazione editorial-culturale, con stipendietti annessi, per cui e’ proprio un discorso di fare la fame. Devo ancora vederlo un barone che rinuncia a due terzi della propria tenure per mantenere i robottini che si e’ selezionato ed allevato con tanta cura, invece di mandarli poi al macello in campo libero a tirare calcetti a vuoto.
Mah, signor Giulio Mozzi, per me cinque recensioni online non sono certo una verità, magari un indizio; così come sono tutt’altro che verità le segnalazioni di Cella su Grazia, Io Donna e D di Repubblica. Ho controllato la rassegna stampa su Marsilio e tali giornali hanno dedicato un trafiletto ciascuno di meno di 150 parole. Sono trafiletti tanto per segnalare l’uscita del libro.
Lei è dentro l’editoria, e sa benissimo che queste sono semplici segnalazioni degli uffici stampa dell’editore.
Fra l’altro se la Policastro stronca i giornali e i critici che esaltano la Ciabatti, come possiamo tenere fede ad altri giornali di uguale spessore? Gli uni smentiscono gli altri. Un po’ di coerenza per favore.
Io nei miei commenti non metto in dubbio né la bravura della Policastro, non ho elementi per valutare, ma né mi sento di crocifiggere la Ciabatti che non sarà un’eccellenza, ma non è neppure spazzatura come la si vuol far credere.
Il problema che io scorgo, da lettore, è che il vostro mondo è ricorsivo. Voi addetti dell’editoria, gli scrittori, i critici, tutti, vivete dentro un mondo in cui vi parlate fra voi. Il vostro intento è di arrivare ai lettori, certo, ma sostanzialmente vivete nel vostro limbo.
La Policastro ha sollevato un problema irrilevante, per me lettore.
Il fatto che i critici si mobilitino per sostenere il romanzo della Ciabatti della potente Mondadori, a me non frega nulla.
Semplicemente perché non leggo né mi faccio influenzare nelle mie scelte di lettura dai critici. E francamente credo che il potere di tali critici nell’incidere sulle vendite sia in forte declino anno dopo anno.
I giornali dove pubblicano sono dei morti che camminano sostenuti soltanto dai contributi pubblici.
Ma sostanzialmente la critica italiana si è screditata ormai da tempo. I lettori non sono scemi come pensano molti addetti ai lavori. I lettori leggono i libri e li apprezzano o meno a seconda di quel che il libro trasmette loro.
E questa critica professionista spara fesserie da troppo tempo. Esalta libri che non hanno un reale valore.
Io credo che il problema di questo articolo, non sia tanto nella validità del tema. Quando nel livore avvertibile a pelle della Policastro per la Ciabatti.
La Policastro dice che la parte minore del pezzo è dedicata alla Ciabatti. Sì, ma lei è una critica e dovrebbe comprendere che non è la quantità delle parole, ma bensì la qualità che determina il testo.
L’attacco forte e sferzante del pezzo è contro la Ciabatti relegata a scribacchina dal successo immeritato. E’ questo il tema che emerge. E non si può dire nell’analisi di un testo, no, ma io… volevo propendere per l’altro argomento.
Capisco che la frittata è fatta. Probabilmente se la Policastro dovesse riscrivere il pezzo renderebbe più marginare il suo livore nei confronti della Ciabatti e virerebbe sul tema di fondo.
Ma tant’è, questa è la palude editoriale italiana. Io francamente non salvo nessuno. Semplicemente comprendo. Sguazzano tutti in uno stagno sperando che il cacciatore abbatta chi starnazza al vostro fianco.
Questi scrittori vivono non per scrivere dei libri letterari, ma per riceve menzioni, titoli, recensioni eccelse e premi.
Chi li riceve vola in paradiso, chi non li riceve regna all’inferno.
E questi sono normali sentimenti umani. Paradossalmente questo articolo è letteratura stessa.
Uno dei pochi capolavori letti in questi anni è Stoner.
Williams narra del suocero di Stoner:
“Come molti uomini che ritengono di aver avuto solo in parte il successo che meritavano, era straordinariamente vanesio e roso dall’affermazione della propria importanza.”
Altro che fuori tema i miei commenti. Credo che la verità del tema sia tutta qui.
Buon proseguimento.
la prima che ha usato gli argomenti ad hominem però è stata proprio Gilda Policastro, contro Ciabatti e Genna, qualche commentatore le ha chiesto di argomentare meglio certi giudizi e la risposta è che lei mica può perdere tempo a sezionare la Ciabatti
tra l’altro l’accusa le si può facilmente ritorcere contro, Policastro stessa parla di “69 critico”, “il sodale magnifica il collega” eccetera poi però gli unici che hanno apprezzato “Cella” sono dei giornalisti mentre il lettore comune non se la fila di striscio (Amazon e Ibs non sono abbastanza? ci sono anche Anobii e Goodreads, prima o poi si troverà un lettore comune a cui il romanzo è piaciuto)
qualcuno parlava di invidia della scrittrice Policastro per la scrittrice Ciabatti, a me pare che sia la critica Policastro a rosicare di essere limitata all’online invece di avere una cattedra universitaria (tra l’altro i differenti luoghi richiederebbero differenti strategie retoriche, sennò si verifica quello che è successo in questa pagina)
la vena polemica sarebbe anche buona, sono gli argomenti che non reggono a una minima analisi
in conclusione non c’è nulla di nuovo, Gilda Policastro è semplicemente un’apocalittica come già li descriveva Eco 50 anni fa, tutto il mondo è brutto, sporco, cattivo e disonesto e solo l’apocalittico dice la verità senza nessun tornaconto personale
Appunto, Luca Amato: se non si può imbastire un discorso a partire dalle tre recensioni in settimanali popolari, nemmeno si può imbastire un discorso a partire dalle cinque recensioni cinque in Amazon e in Ibs.
A me non sembra “irrilevante” per i lettori una discussione sui modi in cui l’editoria e la “società letteraria” italiana agiscono per la promozione di questa o quell’opera.
Dopodiché, per carità, se lei ha deciso di “non salvare nessuno” – mi rendo conto che c’è da parte sua una scelta che precede qualunque esame della cosa. Dunque addio.
“Già un decennio fa un saggio capitale come La lettera che muore di Gabriele Frasca si interrogava sulla ragione per cui ai videogiochi, ad esempio, o alle serie televisive, si chiedano strutture e linguaggi ben più complessi di quelli che pare possano soddisfare le aspettative dei lettori: “Perché quest’ansia di semplificazione”, si domandava Frasca, “riguarda solo la narrativa letteraria?”.
Ecco sì perché quest’ansia di semplificazione nei nostri romanzieri? Perché ridursi a una prosa come:
“I pazienti, mi disse poi, da grande, le pareva una parola bella, non capiva perciò il divieto della nonna. Ugualmente le obbediva, oppure si avvicinava appena, a distanza di sicurezza, ma arrivava puntuale il richiamo ipocrita dell’educazione: non disturbare.”
Perché quest’ansia di semplificazione? E chi se lo chiede poi scrive cose come:
“Non lo so se l’amore è questo andarsene ognuno per conto proprio, la mattina, per sempre. Non posso pensare che l’amore si sposti, cambi persona. È proprio questo, dice lo psicologo, non c’è amore che basti. Avremmo dovuto farcelo bastare, Giovanni.”
Qua il cortocircuito. Se chi invoca la non semplificazione poi scrive nella semplificazione… Si può credere a persone così?
Eh già, Riccardo. Uno mette in scena un personaggio che pensa male, parla male, scrive male, e lo accusano di pensar male, parlar male, scrivere male. Come se si attribuisse a Molière la morale di Tartuffe, o a Manzoni la visione del mondo di don Ferrante.
@Giulio Mozzi. Non ho letto la Ciabatti, ma, chiedo, perché lo stesso ragionamento non vale per la Ciabatti? Lei non mette in scena un personaggio? (E poi, c’è uno stile Molière che è altro dal personaggio Tartuffe; ma c’è uno stile Policastro distinguibile dal vaniloquio del personaggio Cella?)
La critica è morta
chi scrive sa (se è intelligente e non un pavone) se quello che fa può avere un seguito o se magari sia meglio smettere
i media sono cresciuti a dismisura
i dinosauri se ne andranno
qualcuno, forse cucirà questa mancanza
Certo non mancheranno le figure degli eterni soloni da accademia filosovietica
Eh già, Giulio. Sì sì Molière e Manzoni, sì certo.
Teresa Ciabatti vs Gilda Policastro
Trovate le differenze nel testo:
«Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione. Non ci dormo la notte, allontano amici e parenti, mi occupo solo di questo: indagare, ricordare, collegare. A quarantaquattro anni do la colpa a mio padre per quello che sono. Anaffettiva, discontinua, egoista, diffidente, ossessionata dal passato. Litio ed Efexor prima, Prozac e Rivotril poi, colpa tua, solo colpa tua, papà».
“Entravi nella clinica e vedevi Giovanni Principe scartare il panino nei corridoi come un qualunque specializzando, portarselo alla bocca divorandolo in un ahm, proprio come le donne, tante che ormai se n’era perso il conto, e dei figli, a quanto dicevano. Si puliva la bocca col dorso della mano, la bocca larga da cannibale e però mansueto, rassicurante”
«Un bambino di un anno abbandonato sulla spiaggia, se non fosse per l’ombra che si allunga su di lui. Un adulto, mio nonno. Aldo Ciabatti. Potrebbe essere stato tutto, mio padre, prima di mia madre. Quello che ho conosciuto non era proprio lui, o lo era in parte, o forse non lo era affatto: pensavo fosse tirchio (la luce quando uscite dalle stanze, perdio!), invece regalava pellicce e gioielli».
“Appena dopo lo vedevi magari stringere con quelle stesse dita la mano dell’assessore venuto a chiedergli a che punto si fosse poi con quel condono, il collaudo del nuovo reparto oncologico, e cosa dicevano a Roma, oppure al lattaio che ce lo portava fresco ogni mattina, che il Principe distinzioni non ne faceva, e la cordialità della casa aperta non si nega a nessuno. Poi magari tornavamo alle lenzuola scostate coi piedi, il groviglio dei vestiti strappati a morsi sul parquet, la mano protesa verso il comodino per le pillole azzurre o il preservativo dietro la cornice grande con la foto di mammà il giorno della laurea di Giovannino, l’orgoglio di casa”
«Adesso lei mi abbraccia – nonostante io cerchi di divincolarmi, odio il contatto fisico – e mi tiene stretta. Che sia in realtà lei ad aggrapparsi a me? Che sia lei a chiedermi aiuto? Sussurrandomi che tutto si sistema, ogni cosa si sistema, piccola mia».
“ Mercoledì 1 ottobre 2008 – Poi, quando sento che la Rai farà una maratona per la lettura integrale della Bibbia e a leggerla saranno, fra gli altri, Andreotti, Benigni, Caprarica e Valentina Vezzali, ripenso a quel brano di Eutanasia della critica in cui Lavagetto racconta di una gita a Roma, da Parma, nel ‘63, per andare a sentire Ungaretti che faceva lezione all’università. Racconta che rimasero tutti stupiti quando Ungaretti, letta una poesia di Leopardi, disse: è così bella che non c’è da aggiungere niente, e poi la lesse di nuovo, e poi di nuovo, e di nuovo, finché l’ora della lezione non fu consumata. Penso che anche da questo si vede quanto tempo è passato, perché, francamente, fra Ungaretti e Benigni, e Andreotti, e Caprarica, e Valentina Vezzali, la differenza è troppo grande per non fare venire voglia di darsi, sia pur dolcemente, la morte. “.
Gentilissimo dottor Mozzi,
ma come mai lei non può fare a meno di difendere la Policastro; che pare in questo caso indifendibile.
Non ho capito e vorrei capire: se non bastano le critiche dei lettori, se non bastano i pur pochi giudizi negativi, se non bastano le stelline, cosa serve per decretare il fallimento editoriale della Policastro?
Al contrario: pareri positivi e candidature a premi letterari, per quanto non trasparenti, sono sufficienti per decretare che la Ciabatti sia un fiasco o non letteratura?
qualcosa non mi torna.
Vorrei capirlo, senza ironia o presunzione.
Saremmo pari e patta a pensare che entrambe non sono letteratura nonostante la presunzione di una di esserlo?
Teresa Ciabatti vs Gilda Policastro
Trovate le differenze nel testo.
Soluzione:
«Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione. Non ci dormo la notte, allontano amici e parenti, mi occupo solo di questo: indagare, ricordare, collegare. A quarantaquattro anni do la colpa a mio padre per quello che sono. Anaffettiva, discontinua, egoista, diffidente, ossessionata dal passato. Litio ed Efexor prima, Prozac e Rivotril poi, colpa tua, solo colpa tua, papà». (Ciabatti)
“Entravi nella clinica e vedevi Giovanni Principe scartare il panino nei corridoi come un qualunque specializzando, portarselo alla bocca divorandolo in un ahm, proprio come le donne, tante che ormai se n’era perso il conto, e dei figli, a quanto dicevano. Si puliva la bocca col dorso della mano, la bocca larga da cannibale e però mansueto, rassicurante” (Policastro)
«Un bambino di un anno abbandonato sulla spiaggia, se non fosse per l’ombra che si allunga su di lui. Un adulto, mio nonno. Aldo Ciabatti. Potrebbe essere stato tutto, mio padre, prima di mia madre. Quello che ho conosciuto non era proprio lui, o lo era in parte, o forse non lo era affatto: pensavo fosse tirchio (la luce quando uscite dalle stanze, perdio!), invece regalava pellicce e gioielli». (Ciabatti)
“Appena dopo lo vedevi magari stringere con quelle stesse dita la mano dell’assessore venuto a chiedergli a che punto si fosse poi con quel condono, il collaudo del nuovo reparto oncologico, e cosa dicevano a Roma, oppure al lattaio che ce lo portava fresco ogni mattina, che il Principe distinzioni non ne faceva, e la cordialità della casa aperta non si nega a nessuno. Poi magari tornavamo alle lenzuola scostate coi piedi, il groviglio dei vestiti strappati a morsi sul parquet, la mano protesa verso il comodino per le pillole azzurre o il preservativo dietro la cornice grande con la foto di mammà il giorno della laurea di Giovannino, l’orgoglio di casa” (Policastro)
«Adesso lei mi abbraccia – nonostante io cerchi di divincolarmi, odio il contatto fisico – e mi tiene stretta. Che sia in realtà lei ad aggrapparsi a me? Che sia lei a chiedermi aiuto? Sussurrandomi che tutto si sistema, ogni cosa si sistema, piccola mia». (Ciabatti)
Risultato: Nessuna differenza
Gilda Policastro = Teresa Ciabatti
la Policastro non l’ho mai letta, quindi non ne dico nulla. Ma sulla Ciabatti sono sufficienti le poche righe campionate per capire che é sciatta e banale. Non è che ci voglia chissà quale finezza d’orecchio o specializzazione universitaria; basta aver letto qualche romanzo – di quelli veri, intendo. Che ne so, mica solo Proust o Faulkner: basterebbe Philip Roth (avercene, in Italia, di Philip Roth). A me sembra che nella letteratura italiana manchi proprio, quella forza lì, che sta nella lingua anche perché sta prima nello sguardo. Ovvio che non si possono sempre pubblicare capolavori, però un livello minimo di dignità ci vuole, no? E compito della critica, che io sappia, dovrebbe essere segnalare se è stato raggiunto. Quindi, che la Policastro sia scrittice in proprio ergo invidiosa o non so che altro a me sembra del tutto irrilevante: rimane che qui ha ragione, quel libro è un brutto libro, e la ringrazio per aver svolto la sua funzione critica in modo corretto e per quanto mi riguarda convincente
Impossibilitati a dimostrare la propria nobiltà, ci si ingegna a dimostrare la miseria altrui.
Le catastrofi di questo paese sono edificate su questo principio.
Ricordiamo ciò che è ovvio: l’articolo che sta all’inizio di questa troppo lunga pagina non ha come obbiettivo principale la stroncatura di un libro. Perciò, anche quando si dimostrasse che la scrittura di Gilda Policastro non è migliore di quella di Teresa Ciabatti (e non è così), non si sarebbe ancora detto nulla riguardo la validità o infondatezza della tesi espressa dal suo articolo.
In fondo, il riscontro migliore del vero valore dei libri di Teresa Ciabatti e della consistenza del loro successo lo si può trovare nella solidità degli argomenti dei suoi apologeti.
Raga oggi ho scorso qua e là teri e confermo tutto! Lo stile parossisticamente paratattico fa proprio venire il vomito! Praticamente è illeggibile….
Andrebbe letto ad alta voce nelle piazze per ridere tutti insieme
Oh ma ancora qua state? ma non ce l’avete una famiglia o un profilo fb?
Leggo solo ora il pezzo di Gilda Policastro. E mi hanno incuriosito i tanti commenti. Non ho letto la Ciabatti, ma mi ha rinfrancato leggere la Policastro, perché le questioni che solleva sono tutte importanti, e si è presa il rischio di fare critica fino in fondo. Mi ha invece sorpreso la quantità di accuse di “risentimento” che ha ricevuto dai commentatori. E mi ha fatto pensare a una studentessa del liceo dove insegnavo filosofia che aveva finito per considerare l’atteggiamento di chi “critica” (alludeva sopratutto alla critica sociale), come qualcosa di sbagliato in sé, come una forma di maleducazione, o di disturbo personale. Ma questa idea, che rovescia uno dei capisaldi della cultura progressista, almeno dall’Illuminismo in poi, l’avevo già vista in opera in altre occasioni, anche durante dibattiti televisivi. All’epoca pensavo che fosse il segno della lunga propaganda berlusconiana, nei confronti di tutti coloro che osavano insistere sugli aspetti negativi della realtà italiana, perché magari avevano la speranza che si potesse vivere meglio, fare le cose diversamente, ecc. Leggendo tutte queste reazioni che hanno applicato di slancio l’equivalenza “critica=risentimento”, mi dico che anche nel mondo letterario dev’essere passata una certa idea, secondo cui criticare è intrinsecamente sbagliato. “Quel che conosciamo ci basta, di altro non vogliamo neppure sentir parlare”. Triste.
Condivido #Inglese.
ah ok, quindi chi non è d’accordo con la Policastro (con ciò che scrive o come) è per forza uno che di Letteratura non capisce niente e si beve Volo, Faletti, Carolina Invernizio e tutta la peggiore monnezza mai scritta
e ovviamente sono pure tutti fan di Teresa Ciabatti
eh ma la mancanza di argomenti di chi critica la Policastro…
“ 7 luglio 1994 – Se stai buono a Natale ti regalo Il piccolo critico. “.
Io però vorrei capire una cosa: davvero quella della Policastro al romanzo della Ciabatti può essere considerata una critica? Io ci vedo solo una serie di discutibili giudizi arbitrari, senza metodo e rigore. E’ per questo che alcuni parlano di risentimento: nessuno nega che la critica debba prendersi la libertà di stroncare un’opera letteraria. Ma che lo faccia almeno con professionalità e, soprattutto, con criterio.
Inglese ciabatti policastro genna Mozzi…
Ma di Cosa state parlando? Di scrittori genna policastro Mozzi ciabatti da poche migliaia di copie vendute in un anno tutti insieme quindi editorialmente incostistenti. Di gente over 40 50 che non ha ancora scritto un’opera destinata a restare. E voi state qua a dare credito a questi Scrittori?
Mentre dovreste tutti correre a leggere (o, se non ancora pubblicato, a pubblicare) il fondamentale testo di Achille che ha già venduto migliaia di copie e che perciò, come Annie Vivanti e Harold Robbins, è destinato a restare.
@ Alessandro F. Peraltro, Giulio Mozzi pensa un gran bene di Annie Vivanti (https://vibrisse.wordpress.com/2015/08/16/ultime-letture-6/), come pensa un gran bene di Policastro…
@alessandro mi dica un libro di questi scrittori genna policastro Mozzi ciabatti che lei ritiene fondamentale per la letteratura italiana.
Mi pare difficile dire cosa resterà di questi anni nella storia della letteratura italiana, ma a queste persone va almeno concesso l’onore delle armi: per lavoro o per passione, fanno qualcosa di prestigio sociale ormai inesistente e di rendita monetaria men che meno, per cui a cantarsela e suonarsela fra loro cento, trecento o mille, male non fanno, almeno stringono legami personali e tirano avanti. Non vorresti averli sulla coscienza.
Brava Gilda ! Brava davvero ! Grazie a chi ha campionato si possono cogliere le differenze ! Eccome se ce ne sono ! E non è una questione di competizione, ma semplicemente di livelli…
«Enza quando ritorna lo guarda come se si stupisse di trovarlo in casa, come se il suo volto le facesse rabbia o pena, lui non dice niente, si trattiene per non litigare, che è sempre capace di rovinarle tutto, lui, anche quella ora di svago che si è concessa per l’unica volta per una intera settimana». Policastro
“E quando lui, mi pare Filippo, mi diceva non insistere, ti prego, e io niente, ho insistito, continuando a telefonare, mandare messaggi, scrivere mail, ti amo, non ho mai amato nessuno in questo modo, finché stremato lui è stato costretto a dirmi: non mi piaci fisicamente, ok?” Ciabatti
@Vito: eh sì i livelli…
Certo @Riccardo ! Io non ci posso far nulla e credo neanche Gilda Policastro se qualcuno considera i prataioli e i tartufi allo stesso modo…sempre funghi sono !
Giusto per rimanere nel tema ” masterchef” .
C’ è pure chi dice ” i tartufi non mi piacciono ! ”
Ma anche i libri evidentemente vanno letti con tutti i 5 sensi, non fermiamoci solo alla vista ! Italo Calvino docet…
Sentite, a sto punto chiamatele Gilda Ciabatti e Teresa Policastro così la finite qua
“ 25 aprile 1991 – La « nuova cucina » che si fa nei nuovi ristoranti impasta tutto in certe salse cremose viscide collose cercando non diversamente che nell’arredamento dei locali l’effetto bagnoschiuma cuore di panna chiara d’uovo sborro di bimbo liquido amniotico l’effetto placenta placebo placet alla gente che piace (dove tutto si tiene) “.
@Vito. Hai ragione: sempre funghi sono. policastro e ciabatti appartengono allo stesso genere. giusto. hai ragione.
“Sta di fatto che gli unici libri di critica ancora in grado di accendere un minimo di discussione pubblica […] sono proprio quelli che hanno come oggetto la critica stessa: quasi che la critica possa darsi ormai solo in forma crepuscolare, nel suo venire meno.”
https://www.nazioneindiana.com/2011/03/24/verifica-dei-poteri-2-0/
Forse chi non critica rosica di più: perché si accontenta di quel che gli basta a confermarsi nelle sue certezze, ma non saprà mai che cosa c’è fuori dal suo rassicurante mondo in Ciabatti.
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Cara Gilda, ho letto con attenzione (anche se in ritardo) questo tuo articolo e poi, con altrettanta attenzione, ho letto i commenti (velenosi e/o solidali) che le tue parole hanno scatenato…in verità ne ho letti solo 7 o 8, poi mi sono fermata, frastornata (e anche un po’ annoiata) dal “rumore” che la tua lucida analisi sull’attuale crisi della critica letteraria ha scatenato. Recensioni alla tua recensione (ma la tua lo era davvero??) che, condivisibili o meno, mostrano il narcisismo e la auto-referenzialità di molti “critici del web”. È evidente che la Ciabatti è stata tirata in ballo nell’articolo solo perché era funzionale al tuo discorso, nulla di più. Il nodo centrale del tuo testo era un altro ed è su quello che vorrei provare ad intervenire. Lo faccio dal mio triplice punto di vista, quello di insegnante di lettere nella scuola superiore, di docente a contratto all’università (Laboratorio di italiano scritto), di madre di un adolescente molto social. Ho contatti continui con ragazzi, lettori più o meno deboli, ai quali tento umilmente di insegnare a scrivere e a leggere (abilità di base). Se la prima è un’impresa difficile, la seconda è quasi impossibile…Per far acquisire competenze di scrittura vi sono tecniche oramai consolidate, ma insegnare a LEGGERE un testo, quale “sinolo inscindibile” di forma e contenuto, è davvero arduo e soprattutto è difficile guidare i ragazzi verso buone letture. È vero che non possiamo sempre ritornare su Svevo e Pirandello, ma è pur vero che dobbiamo partire dai classici per educare il gusto alla lettura, per far capire cos’è lo “stile” di un autore. Il sommo Giancarlo Mazzacurati (che di critica ne capiva, eccome), negli anni del mio dottorato di ricerca in Italianistica alla “Federico II” di Napoli, mi disse: “prima di mettere ali di farfalla, devi essere ape operaia”. Si rivolgeva a tutti noi critici in erba (erano gli anni Novanta), spingendoci a studiare come matti, a leggere e rileggere i classici, per farci le ossa e approcciarci con umiltà a questo difficile mestiere. La figura del critico non sta scomparendo, ma, ahimè, si sta evolvendo in altre forme. Oggi si legge frettolosamente quello che capita (e che passa in TV o in rete) per “buttar giù” una recensione facile facile. Criticare, commentare sui social con sfoggio (ove possibile) di riferimenti colti, è diventato sport nazionale.
Anche io, in verità, non sono sfuggita alla tentazione del web e ho creato un blog (ad uso di colleghi, amici e soprattutto studenti) per condividere materiali didattici e critici, te lo segnalo: italianostoriablogsite.wordpress.com
Attenzione: è il blog di “un’ape operaia”…
Troppi attacchi a Gilda Policastro, la cui colpa maggiore è quella di assomigliare troppo alla Canalis.
penso che la recensione vada nella direzione giusta, ma si fermi a metà: uno scarpa e una ciabatti, per intenderci, quando si tratta urgentemente di mirare più in alto, oltre la cintola, fino alla testa. non il grande vecchio per carità, ma: l’industria culturale sant’iddio – anzi sant’adorno! vogliamo capirlo o no che tra editoria e carta stampata è in atto uno smottamento a destra? qui bisogna affondare, qualsiasi sia poi il senso che avrà desso affondare.
Ho letto il libro della Ciabatti, a differenza di molti commentatori di questo sito, senza alcun pregiudizio visto che non la conoscevo, come non conosco questa signora che ha espresso qui la sua critica. Beh, questo romanzo è una vera schifezza, sia come forma che come contenuto, scritto male, irritante a dir poco. A chi può interessare la storia di una bambina isterica che diventa una ragazzina isterica che poi diventa una donna isterica, raccontato con uno stile da prima liceo?
E ce l’ hai fatta ad arrivare fino alla fine ?
A leggere certi commenti, si ha la conferma che la scomparsa della critica in Italia non è che la conseguenza della scomparsa dei lettori. Un saluto e tanta stima a Gilda Policastro.