[È uscito da qualche settimana Di tutti i mondi possibili. Nove saggi attraverso il fantasy (effequ), a cura di Silvia Costantino. Questo libro è nato da un ciclo di incontri che, su iniziativa di Vanni Santoni, prima per scherzo e poi sul serio, si è intitolato “Il Sublime Simposio del Potere”: una tavola rotonda formata da appassionati di fantasy e fantastico. Gli interventi sono stati poi rielaborati in forma scritta e pubblicati a puntate su 404: file not found. La raccolta Di tutti i mondi possibili è composta da un’ulteriore rielaborazione dei saggi del secondo ciclo, che aveva come filo conduttore i topoi e gli archetipi del fantasy, e contiene saggi di Silvia Costantino, Francesco D’Isa, Giovanni De Feo, Vincenzo Marasco, Francesca Matteoni, Vanni Santoni, Matteo Strukul, Edoardo Rialti, Sergio Vivaldi. Pubblichiamo una parte della prefazione di Licia Troisi, laureata in astrofisica e scrittrice di fantasy, e il saggio di Silvia Costantino].

Prefazione

di Licia Troisi

[…]

La grandezza del fantasy sta proprio nella sua straordinaria intermedialità. Io stessa, quando mi si chiedono le fonti d’ispirazione, non parlo quasi mai solo di libri, ma anche di videogiochi (lo splendido Thief II è stato d’ispirazione per Le Guerre del Mondo Emerso), film (come prescindere dalle battaglie de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, quando se ne descrive una…), fumetti (il meraviglioso Berserk, il dolente Alita…).

È nella natura di questo genere travalicare le barriere; del resto, il suo revival in Italia si deve soprattutto al cinema, con la saga di Harry Potter prima e quella tolkieniana poi. E molti di noi ragazzi degli Ottanta abbiamo iniziato ad avvicinarci al fantasy grazie ai giochi di ruolo, ai librigame, ai cartoni animati, persino (io sono stata segnata da Magic Knight Rayearth e Slayers, in Italia rispettivamente noti coi wertmülleriani titoli Una porta socchiusa ai con ni del sole e Un incantesimo dischiuso tra i petali del tempo per Rina). Il fantasy, assieme a tutte le sue declinazioni più ampie che sconfinano nel supereroistico e nel fantastico più puro, è stato probabilmente il primo genere a mostrare una così spiccata capacità di passare da un mezzo espressivo all’altro, declinando la stessa storia su media diversi, e lasciando inalterata la propria capacità immaginifica, che si tratti di evocare mondi fantastici su carta, sullo schermo di un pc o di un cinema.

Forse questa capacità mimetica del fantasy affonda le radici nel suo essere profondamente archetipico. Il suo modello diretto è infatti il mito: non è un mistero che Tolkien non avesse intenzione di scrivere una storiella di fantasia, ma di fondare una vera e propria epica moderna, che attingesse al mito e in qualche modo lo attualizzasse. E nel fantasy i riferimenti alla mitologia sono veramente in niti, che si tratti di quella classica o di quella norrena. C’è qualcosa di profondamente seminale nelle storie fantasy, che si rifà ai racconti che ci narravamo davanti al fuoco nella notte dei tempi, le stesse storie che, attualizzate, inserite in altri contesti, continuiamo a raccontarci anche ora. Perché – ne sono profondamente convinta – è da secoli che ci raccontiamo sempre la stessa storia, camuffandola di volta in volta in modi diversi, cambiando il punto di vista unico dell’autore del racconto, ed è in questo che sta l’originalità delle migliaia di storie che sono state prodotte nei secoli. Ma siamo sempre lì: alla fabula classica, al viaggio di iniziazione del giovane eroe che attraversando dure prove, coadiuvato da oggetti e aiutanti magici, muore e rinasce a nuova vita per ritrovare se stesso. E se questo lo conduttore può sembrare più difficile da rintracciare nella narrativa mainstream, nel fantasy il gioco si fa a carte scoperte: l’eroe, spesso giovane, la magia, tutto attinge in modo assolutamente palese alla Storia delle Storie. Ed è per questo, io credo, che il genere attira così tanto interesse, tanto più in un’epoca di cinismo e miti crollati come la nostra, in cui ci diciamo di non aver più bisogno di favole in cui credere, in cui anche solo lo sperare in un ideale viene ritenuto un segno di debolezza. Ma il mito e le storie sono là, a ricordarci che siamo davvero fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, che siamo, davvero siamo, le storie che ci raccontiamo.

E in questo essere seminale del fantasy si nasconde un’altra sua caratteristica ignorata dai più, e che questa raccolta di saggi mette chiaramente in luce: un’estrema consapevolezza. Non sono solo storielle, e anche se il fantasy vuole eminentemente divertire il lettore – come del resto per tutta la letteratura ‘di genere’ – mediante trame avvincenti e personaggi credibili, ciò non significa che non possa aspirare anche a veicolare qualcosa: la visione del mondo dell’autore, o anche solo i dubbi e le domande con cui passare il testimone al lettore. Siamo perciò di fronte a un genere che conosce se stesso e la sua storia, i suoi illustri ascendenti (tra le pagine di questo libro non poteva non far capolino l’Ariosto) e i meccanismi che mette in moto per stringere il suo patto diabolico col lettore.

Al fantasy si è a lungo associata – e si associa ancora – un’accusa di vacuo escapismo: non è così, non sempre almeno. E quando lo è, si tratta dell’evasione del prigioniero e non del- la fuga del disertore, come ci insegna Tolkien. Il fantasy è un genere maturo, che fa appello alle nostre radici più profonde, alle nostre paure ataviche e ai suoi sogni più nascosti, che ci richiama all’infanzia, ma per parlarci del presente, del mondo che ci circonda, del cammino delle nostre esistenze.

In questa sua continua tensione tra l’alto e il basso, il mitico e il contemporaneo, credo che il fantasy rappresenti il meglio del pop. La sua capacità di passare di medium in medium, di mescolare ciò che è ‘colto’ con ciò che è popolare, lo rendo- no la perfetta espressione della società attuale, e un auspicato anello di congiunzione tra la ‘cultura alta’ e quella ‘bassa’, in una divisione che personalmente non condivido, ma che at- traversa da almeno cento anni il panorama culturale italiano. Il fantasy, con la sua stratificazione di senso, le sue molteplici incarnazioni, può essere di tutti: di chi predilige letture impegnate, di chi vuole solo divertirsi, di chi non ne conosce l’antica storia e di chi invece è appassionato ai classici. Basta saper guardare oltre la superficie, fare quel leap of faith che è poi abbandonarsi alla sospensione dell’incredulità, lasciarsi guidare dall’autore in un mondo che a prima vista sembra rimandare all’infanzia, ma che invece ha così tanto da dirci sulla nostra condizione umana, sul nostro cammino terreno.

Dunque la presente raccolta non è altro che questo: un tuffo dove l’acqua è più blu, un viaggio attraverso le profondità di un genere ricco di senso e meraviglia, con la guida di chi quel genere l’ha amato, letto, praticato.

Buona immersione, buone storie.

 

Sulla soglia. Adolescenze e riti di passaggio

di Silvia Costantino

Tutti i giovani dei fantasy che conosco subiscono lo stesso destino1. In moltissimi romanzi (dove Il Signore degli Anelli è quasi un’eccezione – ma solo perché gli hobbit hanno un’aspettativa di vita molto più alta del comune – e Il Leone, La Strega e L’Armadio è la regola), i protagonisti sono ragazzi, e di conseguenza protagoniste diventano le emozioni a fior di pelle, il violento passaggio tra adolescenza ed età adulta che nel fantasy si amplifica aggiungendo al divenire fisico una trasformazione – spesso magica, anche se magari senza bacchetta.

L’esempio più evidente e noto, peraltro corredato di bacchetta, si trova nella serie di giovani maghetti adolescenti per antonomasia: Harry Potter. Il nemico di Harry si chiama Voldemort, e se per l’inglese ‘mort’ non è una parola tanto evocativa quanto nelle lingue neolatine, il suo nome è sufficientemente potente da scatenare la caccia all’etimologia: l’ipotesi più accreditata è quella di un’origine dall’antico francese ‘vol de mort’, ladro della morte. Voldemort, antitesi di Harry, aspira all’immortalità e vive una vita parassita da anni, mentre l’altro si sta appena affacciando alla vita adulta e il suo cammino è circondato da presagi di morte. La profezia che lega i due sentenzia che “l’uno dovrà morire per mano dell’altro, perché nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive”, e il giovane Harry, quando capisce che l’unico modo per eliminare Voldemort è morire lui stesso, non esita ad accettare il proprio destino. Harry perciò muore fisicamente e, come da programma, dopo un momento di sospensione in un limbo, viene posto davanti a una scelta: restare lì, con i genitori, o tornare. E come da copione Harry torna, ‘rinasce’: più maturo, più cresciuto, segnato da qualcosa di molto più grande e profondo di una cicatrice a forma di fulmine.

Non ci può essere esempio migliore per spiegare come, a mio avviso, il fantasy sia il romanzo di formazione, del coming of age, per eccellenza. Non a caso è un genere che spesso e volentieri si fonde con la categoria, tutta di mercato, dello Young Adult.

Da grande lettrice di Young Adult di qualunque sorta, ho sempre amato identificarmi nelle figure dei ragazzini protagonisti, nei loro drammi privati e nelle loro crescite: drammi che per quanto adolescenziali (definizione dall’accezione fin troppo negativa nell’uso comune) possano essere, risultano di solito così scoperti e graffianti da toccare corde di un periodo della vita mai del tutto abbandonato. E la messa in scena così allo scoperto del fantasy, con le sue allegorie così evidenti e sfacciatamente dichiarate, anziché alleggerire il peso delle sensazioni legate alla crescita, le amplifichi all’infinito. In ogni romanzo di formazione che si rispetti, è chiaro, ci deve essere un momento di rottura, una crisi che porta alla crescita. Ma perché tutti i giovani eroi della narrativa fantastica, dalle fiabe russe o celtiche o italiane ai moderni fantasy – ed è una cosa che nemmeno la Disney nelle sue edulcorazioni riesce a eliminare definitivamente – a un certo punto si trovano ad affrontare la morte?

Hai tredici, quattordici, sedici anni, sei al principio del cammin della tua vita, e ti trovi di fronte la cosa più difficile, incomprensibile, oscura e tenebrosa di tutto il nostro immaginario. Che sia sotto forma di demone, di lama o di drago cambia poco, perché la metafora è, più o meno implicitamente, sempre la stessa. La questione non è tanto il sacrificio di sé come ultimo atto di coraggio – come in Harry Potter nel duello finale con Voldemort – quanto ciò che avviene intorno al sacrificio, intorno all’incontro con la morte: è un punto più sottile, oscuro, difficile da definire.

Per provare ad affrontare questo tema, su cui gente molto più competente di me si è cimentata e ancora si cimenta, partirei da lontano, per la precisione da Lyra Belacqua: la protagonista di Queste Oscure Materie, la meravigliosa trilogia di Philip Pullman, è priva di potere alcuno, ma è l’unica in grado di leggere l’aletiometro – una bussola-oracolo che parla solo per immagini da interpretare in successione, come i tarocchi – perché ha dodici anni, è bambina abbastanza da comprenderne il vorticare e le figure puntate dalle lancette. Il suo rapporto con la bussola si incrina nel terzo libro, Il cannocchiale d’ambra, con l’adolescenza, con la comprensione del mondo ‘reale’ e con i primi turbamenti sessuali. Lyra ha fronteggiato la morte prima, già da bambina, al momento in cui ha scoperto e sventato i terribili piani di Lord Asriel, ma questo non le ha impedito di mantenere la necessaria purezza e fede – quanto viene in mente Peter Pan in questo bisogno di conservare una mente bambina per mantenere viva la magia – perché il mondo magico continuasse a svelarsi intatto ai suoi occhi. Lyra2, ormai quasi adulta, si accorge smarrita che la bussola non è più trasparente per lei, e si trova a vivere un momento in cui sono la sua forza, la sua fede e la sua immaginazione a doverla sostenere. Nel crescere Lyra si troverà a dover studiare l’aletiometro senza riuscire più a tradurlo istintivamente: questo è il momento in cui più sarà spaventata. Ma sarà anche la spinta che inizierà a cambiarla e a trasformarla, da bambina dalla lingua argentina a giovane donna. La bravura di Pullman, e di molti altri autori del genere, non sta nel raccontare l’adolescenza come un momento di passaggio, di crescita positiva in cui il mondo adulto è la mèta felice, ma di mostrarne il lato oscuro, la zona d’ombra: quella che impedisce al mondo di dispiegarsi nella sua magica interezza, perché le sovrastrutture dell’età adulta creano una cortina dalla quale è sempre più difficile districarsi. Certe ‘oscure materie’ non sono solo le arti magiche contro cui la giovane Lyra Belacqua è costretta a combattere, sono anche la sostanza di cui è fatta l’adolescenza, quel rimestare torbido e ignoto in cui un po’ per volta bisogna immergersi, senza la certezza di ritornare in superficie (allegoria raccontata in modo pressoché perfetto da una splendida graphic novel, Watersnakes di Tony Sandoval, in cui la protagonista si immerge letteralmente in un mondo sottomarino e spettrale per salvare la sua giovane amica innamorata fantasma, e salvare se stessa).

C’è una componente di elaborazione del lutto, nel momento in cui si diventa giovani adulti. È il momento in cui si sceglie di reagire al caos e alla paura e si fa una scelta, lasciandosi dietro le certezze felici dell’infanzia.

È evidente che questa fase della vita è percepita e raccontata, anche da chi scrive, come la più difficile di tutte. I tormenti degli adulti, per quanto forti e appassionanti possano essere, per quanto a volte infantili e immaturi, difficilmente eguagliano quelli degli adolescenti. Forse perché c’è già una buona corazza, forse perché si è più facilmente in grado di reagire a cose che ormai non sono nuove. Essere inermi, essere giovani, è doloroso. Ma è forse anche l’unico modo per poter percepire “l’anello che non tiene”3.

Sempre a proposito di Lyra, l’onniscienza di Wikipedia ci informa che

Il cognome originario di Lyra, Belacqua, è il nome di un personaggio della Commedia di Dante, un’anima nell’Antipurgatorio che rappresenta coloro che rimandano il proprio pentimento fino in punto di morte. Nell’Antipurgatorio di Dante regna un’atmosfera di impotenza, nostalgia e bramosia: Belacqua e le altre anime nell’Antipurgatorio sono catturate tra due mondi e non hanno piena consapevolezza di se stessi4.

L’adolescenza, dunque, come momento di passaggio e di rinuncia a qualcosa – la mancanza di una chiara comprensione di sé stessi. Le domande esistenziali (chi sono? Chi voglio essere?) sono onnipresenti nella fase in cui bisogna definirsi e, in qualche modo, decidere cosa si vuole essere. Un passaggio obbligato che può tradursi anche in un lutto: ancora una volta, la morte di Harry Potter è fisica prima ancora che allegorica. Harry lascia il bambino dietro di sé, e torna adulto. A cosa ha rinunciato?

In La soglia di Ursula K. Le Guin i due giovani, goffi, depressi e disperati protagonisti vengono spediti in un viaggio suicida proprio dagli abitanti felici del paese in cui loro andavano per sfuggire dalla durissima realtà ‘normale’. Ora, La Soglia è un ottimo libro per esemplificare quello che vorrei rendere chiaro. Purtroppo Le Guin per troppa costruzione sacrifica molto dei personaggi, ma il loro essere così ‘spiegati’ può aiutarci a comprendere meglio il ragionamento:

Non pensi mai ad andare oltre il drago, si disse Irena. Pensi soltanto a raggiungerlo. Ma cosa accade dopo?
Ricominciò a piangere, sommessamente, senza soffrire. Le lacrime le rotolavano sulle guance in un velo, come l’acqua di fonte. Pensò alle braccia orribili e penose [del drago appena ucciso, ndr], alle mammelle appuntite, mise il volto tra le braccia e pianse. Sono passata oltre la tana del drago e non posso tornare indietro. Devo andare avanti. Questa era la mia patria, la luce alla finestra, il fuoco del focolare, là ero una figlia, ma è tutto finito. Ora sono soltanto la figlia del drago e la figlia del re, quella che deve proseguire da sola e andare avanti, perché non c’è una casa dietro di me 5.

Nonostante Irena e Hugo abbiano circa vent’anni e siano quindi più maturi rispetto ai personaggi osservati finora, la loro condizione è quasi esemplare: difficilmente li si definirebbe adulti o quasi. Entrambi vittime di qualche tipo di sopruso, si trovano in una situazione di stallo e confusione perenne dalla quale non riescono a uscire. Oltrepassare la soglia, o entrare nel ‘beginning place’ (titolo originale del romanzo nonché nome del mondo alternativo cui entrambi, proprio grazie alla loro condizione, hanno accesso), significa per loro trovare un mondo in cui la realtà che li opprime smette di esistere, in cui possono smettere di pensare. Presto però questo mondo incantato, per loro così benefico, si rivelerà molto differente, giacché la ragione per cui là i due ragazzi si sentono benvenuti è in realtà molto più crudele di quanto avessero immaginato. Il processo di prendere coscienza di questa differenza, di questa crudeltà, e di decidere di accettare il proprio destino, sarà ciò che finalmente renderà Irena e Hugo in grado di andare avanti con le proprie vite.

Ma Alfonso era in uno di quei momenti quando la giovinezza è attraversata da qualche melanconia che spaventa; quasi dall’odore della morte. Gli pareva di non avere nessuna ragione per essere triste; e voleva essere forte, anche dentro di sé. Qualche volta si sentiva ancora un ragazzo, e allora camminava più lesto per lasciare questo ragazzo, che era stato una parte di lui stesso, dietro di sé. Lo voleva mandare via a tutti i costi; e credeva che quella passeggiata gli facesse trovare definitivamente il senso della sua adolescenza; di cui non era abbastanza sicuro. Ma sperava che gli capitasse per istrada qualche cosa per provare a sé stesso che ormai poteva fidarsi del proprio animo. Già, passando rasente a qualche fonte del borro, s’accertava sempre di più che non provava ormai quella curiosità di fermarsi a guardarla come una volta: ora gli pareva di conoscere tutte le cose che vedeva, e a pena le sdegnava di uno sguardo, badando soltanto dinanzi a sé. Ogni tanto, però, aveva paura perché l’erba frusciava sotto i suoi piedi6.

Questo passaggio proviene da un discorso di un autore che non potrebbe essere più distante dal mondo del fantasy: si tratta di uno stralcio dalla novella Un giovane di Federigo Tozzi. Quando all’università studiai Tozzi mi rimasero fortemente impresse due cose: la sua interpretazione della ‘giovinezza’ in un modo quasi clinico, come fosse una lunga depressione destinata a non guarire, e allo stesso tempo il suo espressionismo ‘magico’, metafisico, comunque sempre proteso a cogliere i barlumi di un mondo ormai perduto. Una validissima interpretazione delle opere di Tozzi è proprio quella che lega i suoi ‘giovani’ e il loro sentire a un momento di elaborazione del lutto: il momento che intercorre tra il distaccamento dall’infanzia e l’ingresso nell’età adulta, cioè l’adolescenza, equivale a una perdita profonda e traumatica, decisamente vicina alla morte. Così vicina che fa paura: i giovani di Tozzi sono sempre tremebondi, impauriti. Scrive Romano Luperini:

La giovinezza è per Tozzi una malattia dell’anima […], non ci lascia il tempo di guarire. Nessuna possibilità, più, di romanzo di formazione. La malattia della giovinezza è caratterizzata dallo sperpero di tempo, dalla dispersione delle sensazioni, dall’incapacità di conservare le esperienze e di tesaurizzarle in vista di una crescita e di uno sviluppo. Il tempo non è progressione, conquista, evoluzione. La giovinezza è un eterno presente da cui è impossibile uscire, metafora dell’estraneità dell’uomo al proprio destino. Porta con sé […] un sentore di morte7.

D’altra parte, pochi meglio di Tozzi hanno saputo descrivere anche l’incanto della giovinezza. Persi in questi momenti privi di riferimenti concreti, i protagonisti del suo bestiario, o delle sue novelle, o dei suoi romanzi, hanno quasi sempre un momento in cui riconoscono il mondo ‘reale’, cioè quello al di là del convenzionale. Si tratta di pura metafisica, si tratta di scostare le cortine del vero per trovare il magico.

Se ci facciamo caso, i giovani protagonisti dei romanzi che noi amiamo leggere sono tutti estremamente vicini a questa descrizione. Frastornati, scossi, spesso feriti e fragili, spesso incapaci di affrontare la propria situazione e reagire. Si lasciano trasportare dal flusso, e ogni loro azione li porta sempre più vicini alla catastrofe. Senza voler tentare di inscrivere Tozzi tra i precursori del fantasy, quel che colpisce è la precisione chirurgica con cui quest’ultimo sia riuscito a identificare una condizione, quella della sospensione tra due mondi – sulla soglia – e della paura di andare avanti e di tornare indietro, che è così realistica e al tempo stesso apre a numerosi universi narrativi. Tozzi lo sapeva, e ha sempre cercato di farci intravedere il luccichio dell’oltremondo. Ma i suoi giovani erano incapaci di procedere: l’unica cosa che potevano fare era chiudere gli occhi, e smettere di guardare.

C’è però una grande differenza tra i romanzi fantasy che conosciamo e la visione tozziana: le nostre storie proseguono. Al contrario di quello che avviene per i giovani di Tozzi, bloccati in un eterno e terribile indefinito, gli scrittori dei fantasy per ragazzi (e non solo) ci raccontano che dalla giovinezza, da questa confusa e oscura incertezza, si può uscire, e lo si fa nell’unico modo possibile: attraversando la soglia, affrontando la morte e la paura, per uscirne rinati – stanchi, segnati, ma consapevoli. Abbracciando la morte, consapevoli che sia l’unica scelta sensata, e matura, possibile.

Ben diversamente da quanto accade nei romanzi in cui sono gli adulti i protagonisti, nella chiusura di questo tipo di romanzi aleggia spesso una sensazione di incompiutezza, di dolore: è successo quello che doveva succedere. Nel migliore dei modi possibili, spesso nel peggiore dei mondi possibili: solo gli adolescenti possono abbracciare la morte e rinascere, e sentirsi completi e pronti ad andare avanti, ma questo non significa che l’età adulta sia il luogo della certezza, anzi. Andare avanti significa accettare il compromesso.

Gli assoluti dell’infanzia, già messi violentemente in discussione durante l’adolescenza, si frantumano in migliaia di dubbi, lasciando i nostri eroi adulti a combattere con il sospetto, con la colpa, con la paura, con miriadi di sfumature quasi inesistenti in precedenza. Addio Ailis, Lyra, Laura, Harry. Benvenute, e benvenuti, nel regno degli adulti, dove il sangue scorre copioso e la morale è relativa.

Ma questa è ancora un’altra storia.


1 Nei romanzi fantasy e fantastici si ripete quasi sempre uno schema fisso, che aderisce perfettamente alle teorie dei formalisti russi. Semplificando all’inverosimile la Morfologia della fiaba di Propp [V. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 2000]: Allontanamento – Danneggiamento – Inizio della reazione/ partenza – Acquisizione oggetto magico – prova – conclusione. Nella fiaba il finale corrisponde spesso a un lieto fine; qui, come vedremo, le cose si fanno più complesse.

2 Nome che ha una certa assonanza con ‘lyrics’, le parole delle canzoni, e dunque le bugie, e dunque l’immaginazione: ancora una volta la parola, e la magia – non dimentichiamo che il suo soprannome è Linguargentina.

3 E. Montale, Ossi di seppia (ed. definitiva a cura di P. V. Mengaldo), Mondadori, Milano 1977:
“Vedi, in questi silenzi in cui le cose /s’abbandonano e sembrano vicine /a tradire il loro ultimo segreto, /talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta /nel mezzo di una verità”.

4 Da Wikipedia, alla voce Lyra Belacqua (trad. mia).

5 U. K. Le Guin, La soglia, Gargoyle, Roma 2013.

6 F. Tozzi, Opere. Romanzi, prose, novelle, saggi, Mondadori, Milano 1987.

7 R. Luperini, L’autocoscienza del moderno, Liguori ed., Napoli 2006

[Immagine: Serafina Pekkala interpretata da Eva Green in La bussola d’oro, regia di Chris Weitz, 2007]

 

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