di Claudio Giunta
Giuseppe Sciortino (Palermo, 1963) insegna Sociologia del mutamento nella Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Ha studiato a Bologna; ha insegnato, oltre che a Trento, a Phnom Penh (sa il cambogiano) e alla Yale University. Insieme ad Asher Colombo ha curato la serie di volumi «Stranieri in Italia» per Il Mulino; è membro, tra l’altro, dell’Istituto Cattaneo di Bologna e del board delle riviste «Polis» e «Sociological Theory». Il suo ultimo libro, scritto in collaborazione con Gianfranco Poggi, è «Great Minds. Encounters with Social Theory» (Stanford University Press). Quelle che seguono sono sei domande ‘telefonate’ sull’immigrazione. Nel senso che ho cercato di far dire a Sciortino le cose che gli premeva dire, senza contraddirlo: anche perché non avrei la competenza per farlo; e anche perché sono d’accordo con lui praticamente su tutto.
1. Prima di dire quello che non va nell’approccio della sinistra all’immigrazione, vediamo quello che non va nell’approccio della destra. Possibile che l’unica policy a cui si riesca a pensare, su quel versante, sia la repressione? Possibile che l’idea-guida sia quella di «essere cattivi coi clandestini» (Maroni)?
Ma la destra in questi anni è stata tutto salvo che repressiva e crudele. La crudeltà la si ritrova, in modo per altro piuttosto trito, nei disegni di legge e nelle interviste. E la sinistra regolarmente ci casca, si mobilita, s’indigna, evoca spettri epocali, poi perde e dimentica, regalando così alla destra una patente di rigore del tutto virtuale. I fatti stanno diversamente. È stata la destra a promuovere le sanatorie e i decreti flussi più generosi, a tagliare le spese per le espulsioni (che infatti non aumentano), a costringere i poliziotti a stare chiusi negli uffici a fare i travet di un’anagrafe parallela invece che a pattugliare le strade, a riconoscere lo status di protezione umanitaria ai giovani tunisini sbarcati a Lampedusa soltanto per toglierseli di torno. I fatti sono che nessuna delle misure repressive della Bossi-Fini ha mai prodotto gli effetti desiderati: alcune norme sono state rapidamente dichiarate incostituzionali (ed era praticamente certo sin dall’inizio che lo sarebbero state), altre sono risultate impraticabili (e si sapeva anche questo), altre ancora troppo costose (ed era addirittura scritto nella relazione tecnica che accompagnava la legge). Se oggi ci sono in Italia un po’ meno irregolari di qualche anno fa è solo per effetto della crisi economica e dell’allargamento ad est dell’Unione Europea. Non sicuramente per le politiche della destra, che si sono limitate solo a qualche dispetto, generalmente rivolto agli immigrati onesti. La realtà è che la destra non ha una politica per l’immigrazione, ma tira solo a campare facendo la voce grossa, senza sapere nemmeno approntare un centro di detenzione decente. Più che la repressione, è la loro improvvisazione che fa paura.
2. Bene, allora archiviata (speriamo) questa Destra, parliamo della Sinistra. Cosa dovremmo fare? Dovremmo, come sostengono alcuni, spingere per un coordinamento a livello europeo, per una politica europea che gestisca l’immigrazione nella UE?
Che Dio ci scampi e liberi. Pensare di affidare le politiche migratorie all’Europa è semplicemente una pessima idea. Qualunque studioso può dimostrare che i diversi paesi europei sono coinvolti in moltissimi sistemi migratori indipendenti e largamente non comunicanti. La situazione sociale degli immigrati nei diversi paesi europei è diversissima. I paesi scandinavi hanno tassi d’occupazione degli immigrati molto più bassi rispetto a quelli dei nativi, i paesi mediterranei hanno invece tassi d’occupazione superiori. In alcuni paesi sono ‘stranieri’ i nipoti degli originari immigrati, in altri il grosso dell’immigrazione è fatto da gente arrivata da meno di un decennio. In queste condizioni, una politica europea sarebbe una camicia di forza.
A questo aggiungiamo che l’obiettivo di una politica europea a tutti i costi ha già prodotto seri danni all’Italia. Abbiamo accettato di controllare le frontiere esterne dell’unione senza chiedere alcuna una seria condivisione dei costi ai paesi che hanno solo frontiere interne. Ci vergogniamo per chi sbarca a Lampedusa, pensiamo di essere il ventre molle dell’Unione, ma non ci chiediamo mai come mai buona parte dei migranti dall’Europa orientale – molti, molti di più – sia entrato in Italia con un visto Schengen rilasciato da un’ambasciata tedesca. Infine, si sa benissimo che solo gli italiani sono favorevoli a una politica europea dell’immigrazione. Tutte le altre opinioni pubbliche, lo ricorda anche la recente survey internazionale Transatlantic Trends, sono ferocemente contrarie. Noi ormai cederemmo quote di sovranità persino all’impero ottomano, se esistesse ancora. Ma gli altri no. Quindi, non è solo un obiettivo sbagliato ma anche perdente.
Questo è forse il primo consiglio per la sinistra: nessuno verrà a salvarci dall’esterno. Accettiamo i livelli (minimi) di coordinamento che sono realistici e per il resto cominciamo a scegliere da soli cosa vogliamo fare, quali priorità fissare. Possibilmente, perseguendole anche.
3. Già che stiamo dando consigli. Quali altre cose pensi che la sinistra potrebbe fare, o potrebbe proporre di fare? Cose concrete, intendo, quelle che tu porteresti all’attenzione dei responsabili se ne avessi l’opportunità.
Bisogna capire che la regolazione delle migrazioni non si fa soltanto con le politiche migratorie. Sotto questo profilo, la Turco-Napolitano era un’ottima legge, e con qualche aggiustamento potrebbe anche funzionare. Ma per gestire bene l’immigrazione dobbiamo deciderci ad affrontare finalmente alcuni nodi strutturali. Se si vuole ridurre l’immigrazione irregolare, i poliziotti alle frontiere servono il giusto; gli ispettori del lavoro nei cantieri, nelle aziende e nelle famiglie servono molto di più. Ci sono dieci, anche solo dieci, parlamentari decisi a fare della lotta all’economia sommersa la loro missione? Se vogliamo l’integrazione delle seconde generazioni, ci servono scuole che insegnino bene a leggere, scrivere e far di conto. Anni scolastici che durino di più, con più ore e più compiti, e che offrano, ma anche chiedano, di più agli studenti. Ne beneficeranno i figli degli immigrati ma anche i figli delle classi operaie italiane. Ci sono dieci parlamentari nella sinistra disposti a spiegare al paese che non si va a scuola per realizzarsi bensì per imparare? Se vogliamo maggiore sicurezza nelle nostre città, che poi è quello che chiede la stragrande maggioranza degli immigrati, visto che sono molto più spesso vittime di reati e temono molto di più per le cattive compagnie dei figli, occorre decidersi a riformare il ministero dell’Interno, facendo tornare i poliziotti a fare i poliziotti, togliendoli dagli uffici e rimettendoli sulle strade. Ci sono dieci parlamentari della sinistra disposti ad impegnarsi in un compito così difficile, sapendo che non andranno mai sulle prime pagine dei giornali? I problemi delle politiche migratorie sono banalmente i problemi del paese.
4. E quali non fare assolutamente?
Continuare a pensare che la sinistra abbia la soluzione in tasca. È evidente che non ce l’ha. Continuare a fare prediche per coprire la mancanza di idee. Continuare ad abbandonare alla rozzezza della Lega tutti gli argomenti contrari ad elevati livelli d’immigrazione (molti dei quali, peraltro, assai vicini a posizioni di sinistra in altri paesi). Continuare a permettere alla sinistra radicale di ammantarsi di un moralità naïve e sdolcinata invece di costringerla ad adottare l’etica delle conseguenze (che poi, banalmente, è l’etica della politica, se ce n’è una). Continuare a non chiedersi chi ha tutti i benefici e chi sopporta tutti i costi. Soprattutto, continuare a pensare che con le leggi si possa influire su tutto. Molte dimensioni dei processi d’integrazione degli immigrati avvengono a livello molecolare, tra vicini di casa, tra compagni di classe o di officina, tra associazioni e squadre di calcetto. È materia della tanto esaltata società civile, che se c’è batta un colpo. I politici non c’entrano: quando gli assessori cercano di intromettersi, finiscono sempre per oscillare tra il patetico e il pedagogico. Occorre invece cercare di concentrarsi su quello che i politici possono effettivamente fare: scelte chiare, obiettivi conseguibili, leggi ben scritte, circolari coerenti, procedure amministrative efficaci.
5. Immagina di essere il sindaco di Firenze. Rispondi a questa lettera di una cittadina – una lettera vera, non inventata:
Caro «Corriere Fiorentino», il degrado del quartiere di Santa Maria Novella, via Palazzuolo e strade limitrofe è più deciso e radicale di quanto il vostro articolo racconti. No, non si vive bene in queste strade e dispiace che i riflettori dei media si accendano solo quando ci sono scappati i morti. Io abito in via Palazzuolo da quasi vent’anni e vi assicuro che qui da noi ogni socialità è saltata e i mondi degli abitanti e dei migranti si fronteggiano senza capirsi e senza parlarsi. Internet point e minimarket sono ormai la realtà dominante della mia strada. Di molti di questi ‘negozi’ davvero non si sa come possano campare, dato che vendono poco o nulla e spesso rappresentano solo dei luoghi di aggregazione, non sempre felici. Eppure qualcuno ci guadagnerà pure da questi affitti, o no? I minimarket sono desolatamente tutti uguali e tutti ben forniti prevalentemente di alcolici, venduti a tutte le ore in barba a ogni divieto. La strada è spesso piena di ubriachi. Non sono incontri piacevoli, se una rincasa da sola. Ci sono risse frequenti, come ben sanno polizia e carabinieri, che chiamiamo in media una volta alla settimana.
Sabato notte in via Palazzuolo, uno dei nuovi ‘negozi’ aperto da appena una settimana – pareva vendesse stoffe! – ci ha tenuto tutta la notte svegli con relativi ubriachi e pisciate sul marciapiede perché, come ci hanno detto la mattina dopo, festeggiavano la Pasqua… Noi abitanti misuriamo insieme alla diminuzione di valore delle nostre case tutta la nostra impotenza e constatiamo l’indifferenza dei politici, finora incapaci di mettere mano agli aspetti strutturali del degrado, che pure conoscono, perché tante volte glielo abbiamo raccontato. Questa mutazione sociale ed economica del tessuto di una fetta del nostro centro storico andrebbe governata. Sarebbe proprio questo il compito della politica. Ma questo governo è mancato e continua a mancare e intanto il degrado non si ferma. I politici della nostra città devono sapere che, se non fanno qualcosa, e non lo fanno presto, quando un leghista intraprendente, razzista e xenofobo come si conviene, si affaccerà con un bel gazebo in queste strade con tutta la sua rozzezza e il suo razzismo, ebbene riscuoterà un gran successo. Sarà un brutto giorno anche per me, ma loro – i politici – ne saranno responsabili.
Gentile Signora,
Lei ha ragione su alcune cose e torto su altre. Ha ragione sul fatto che la nostra città non è governata come dovrebbe. Domani mi incontrerò col capo dei vigili urbani, e ho intenzione di chiedergli seriamente cosa fanno i suoi uomini (e donne), quanto tempo stanno in ufficio e quanto per le strade, quanto di giorno e quanto di notte. I regolamenti non servono, infatti, se nessuno poi li osserva. Poi, da dopodomani, una volta alla settimana, passerò una serata in un’area diversa della città. Non dirò a nessuno quale in anticipo, ma telefonerò al questore il giorno dopo per dirgli se ho visto i suoi uomini o meno nelle strade. E metterò i risultati su Facebook. Tra un mese convocherò il consiglio comunale e proporrò una revisione integrale di tutti i regolamenti di polizia municipale – lo so, è una gran seccatura – sulla base della semplice regola che qualunque norma deve essere accompagnata da sanzioni sufficientemente dissuasive, e da una probabilità di controllo ragionevole. Inutile proibire quello che non si sanziona. Urinare per strada è sbagliato, punto, che lo faccia uno straniero, uno sfigato locale o uno di quei turisti danarosi ma non sempre educati ai quali abbiamo prostituito la città. Poi troverò il modo di colpire gli affitti in nero. So che portano un bel po’ di soldi anche nelle tasche dei miei elettori, ma se non sappiamo neanche chi abita dove, promettere maggiori controlli è un semplice trucco da prestigiatore. Poi telefonerò all’assessorato regionale per chiedere quanti ispettori del lavoro visitano i cantieri e le aziende della città per controllare se chi lavora è in regola. Potrò contare sulla sua mobilitazione in un comitato contro i furbetti o furboni? A questo punto, le parlo di due o tre mesi mica di millenni, fatto quello che dovevo fare io, le potrò dire chiaramente che è ora che anche i cittadini imparino l’arte di distinguere. Perché quello di cui lei parla non sono le centinaia di migliaia di stranieri che lavorano come matti e che vogliono soltanto una prospettiva migliore per la propria famiglia. Non creda siano contenti che i loro figli, spesso molto meno viziati dei nostri, assistano alle cose che lei racconta: sarebbero i primi ad essere d’accordo con lei su ciò che depreca. Parlare di ‘stranieri’ serve solo a confonderli in un magma indistinto, dove i molti sono colpevoli delle azioni di pochi. Crede che un sindaco leghista le scriverebbe quello che le sto scrivendo? L’esperienza dice che farebbe solo la voce grossa, annunciando provvedimenti che poi non realizzerebbe, spacconate buone solo ad offendere migliaia di persone oneste nate solo in un altro paese per coprire la propria impotenza. Tutelando nel frattempo gli interessi dei padroni di casa che vogliono affittare in nero, gli interessi dei datori di lavoro che vogliono assumere in nero, gli interessi dei commercianti che spacciano per libertà la birra alle quattro di mattina. So che noi politici di sinistra abbiamo molte colpe. Ma se i fiorentini pensassero davvero che l’essere rozzi a prescindere è la soluzione, forse qualche esame di coscienza dovrebbero farselo anche loro, non trova?
6. Sono del parere che nelle scuole di ogni ordine e grado si dovrebbe leggere «La grande migrazione» di Enzensberger; sei d’accordo?
Sì, ma solo dopo aver fatto i compiti.
[già pubblicato su www.tamtamdemocratico.it]
[Foto: Immigrati italiani in Svizzera, anni Cinquanta del XX secolo. (gm)]
Abito anche io, sia pure “part time”, nella zona della signora fiorentina che ha scritto quella lettera, a mio parere una volta di più la prova del razzismo discreto serpeggiante a Firenze. In via Palazzuolo, oltre ai negozietti di cui parla la signora, c’è una discoteca. Da essa vengono fuori alle tre o alle quattro del mattino interi gruppi turistici molto più chiassosi e ubriachi di qualsiasi immigrato. A volte le loro urla ti svegliano di soprassalto. Soprattutto nella stagione delle gite scolastiche, con la stazione di Santa Maria Novella a due passi, nel cuore della notte le vie sono percorse da piccole orde fameliche. Firenze non muore perché invasa dagli immigrati ma perché completamente prostituita al turismo.
Non abito a Firenze ma a Milano. Perché si continua a chiamare “razzismo discreto e serpeggiante” ciò che invece è una denucia discreta e da buon cittadino (mi riferisco alla signora) che ama la sua città, le sue strade, ecc? Proseguendo così, mi sembra, non se ne esca (e forse Claudio Giunta non mi darebbe torto). Auspico realismo e capacità di far convivere nel migliore dei modi TUTTI, affrontando con energia e condivisione i problemi! E’ un’utopia pensarlo?
Benedetti e Genovese hanno entrambi ragione: il primo a dire che finché si impugnano gli argomenti del razzismo come armi di ricatto non se ne esce; e d’altra parte è vero, come lascia intendere Genovese, che il razzismo esiste: quello che sia pure a fatica si tollera sempre da parte dell’autoctono, da parte del nuovo arrivato diventa una condizione di vita che è un affronto a prescindere.
Sì, se vogliamo credere nell’integrazione come progetto di civiltà è davvero arrivato il momento di distinguere e stare dentro i conflitti tra le parole e le cose, anche a costo di essere e di starci antipatici.
No, Benedetti ha torto: perché Milano non è Firenze, e lui non può sapere cosa significhi vivere in una piccola città o, se si vuole, in una città media con un piccolo centro del tutto in mano alle comitive dei turisti e ai commercianti. Quella signora che nella sua lettera si lamenta dei negozietti (aperti fino a tarda ora grazie a una delle liberalizzazioni degli anni scorsi, ma in mano a stranieri perché i fiorentini non li gestirebbero mai…) e non menziona la discoteca, fattore ben più grave nella produzione del viavai notturno con relativi rumori, è permeata dello stesso spirito mercantile che permea la città: si tollerano i turisti (peraltro trattati piuttosto male anche loro) ma poco gli immigrati.
Intervista molto interessante, nel complesso mi trovo d’accordo.
In particolare, condivido l’idea che il problema dell’immigrazione vada affrontato sui due fronti fondamentali della lotta al lavoro nero e della scuola. Sulla scuola, una puntualizzazione: non so se il problema è quello di passare più ore a scuola, ma certamente c’è bisogno di una seria riflessione su quello che si insegna e su come lo si insegna. Parlo della scuola dell’obbligo, e in particolare della scuola media: le ultime ricerche (Fondazione Giovanni Agnelli, “Rapporto 2011 sulla scuola”, Laterza 2011; cfr. anche il sito: http://www.fga.it) mostrano che, come molti già intuivano, è questo l'”anello debole” (o almeno più debole degli altri) del sistema scolastico italiano. In particolare, oltre al corpo docenti troppo invecchiato, i problemi sono due: il numero delle discipline insegnate e il contenuto dei programmi, che andrebbero semplificati, per mirare a una formazione meno superficiale e più solida su alcuni contenuti essenziali; i metodi di insegnamento, che paradossalmente proprio nella scuola media sono i più tradizionali, rendendo molto difficoltosa la formazione dei ragazzi provenienti dalle classi sociali meno agiate.
Cito queste cose, perché uno dei risultati di questa ricerca è che i ragazzi immigrati di seconda generazione entrano nella scuola media con quasi nessuna probabilità di essere in ritardo sulla loro formazione, e ne escono con una probabilità di ritardo del 350%. La crisi della scuola media, oggi, incide molto sull’inclusione sociale in generale e degli immigrati in particolare.
Evviva Genovese che mi prende subito in parola! tuttavia insisto a considerare importante anche il commento scomodo di Benedetti: è giusto protestare contro chi rende invivibile la tua vita (non sto troppo a specificare che escludo dall’espressione le forme paranoiche e xenofobiche di percezione), senza aver paura di essere automaticamente inchiodati all’accusa di razzismo. Mi rendo conto di dire una cosa sgradevole, ma proprio per questo, riflettendoci meglio grazie a Sciortino, trovo opportuno dirla.
E dopo aver letto Piras, che scrive cose fondamentali, aggiungo, come esempio del suo commento, che in questo anno di festeggiamenti del centocinquantenario dell’Unità ho assistito e partecipato a molte iniziative di riflessione sull’identità italiana, declinate in vari modi, quasi sempre autoreferenziali e celebrativi, ma appena si entrava nelle scuole, il campo di battaglia più vero per l’identità, si è parlato dell’ immigrazione e dell’ integrazione come delle questioni più decisive da affrontare.
Invio un altro commento, separato, perché riguarda un altro tema, più generale.
E’ vero, la cultura politica italiana è molto impreparata sull’immigrazione. E’ vero che bisogna evitare di lasciare alla destra i temi della limitazione degli ingressi e dell’ordine pubblico. La sinistra tende a contrapporre alle parole d’ordine della destra (sicurezza, identità) la parola d’ordine della solidarietà. Questo per le origini di buona parte della sua cultura politica. Da qui deriva quel tono sdolcinato che spesso si tende ad assumere a sinistra quando si vuole criticare l’atteggiamento repressivo o chiuso di una certa destra. Il problema non è la solidarietà, invece. La solidarietà è una virtù civile, che si può e si deve promuovere, ma che non passa attraverso le norme giuridiche. Attraverso queste passa l’inclusione democratica, perché il problema è la giustizia.
Bisogna affrontare la questione dell’immigrazione in termini di giustizia, a partire dai problemi di principio più generali.
1. Non si può pensare di aprire le frontiere in maniera indiscriminata, ma bisogna chiedersi: quali sono i principi di giustizia che autorizzano uno stato democratico, di cittadini liberi e eguali, a selezionare gli accessi alle frontiere? la tutela dell’identità culturale è un principio valido o no, nell’ambito di uno stato democratico e liberale, che non promuove un’identità etica?
2. Una volta stabilito su che principi si fonda il diritto di limitare gli accessi, quali principi fondano la concessione della cittadinanza? quanto tempo un immigrato deve lavorare in un paese, contribuendo alla sua ricchezza e pagando le tasse, per avere diritto alla cittadinanza? sulla base di quali principi andrebbe concessa la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia?
3. Infine, va regolata la convivenza tra cittadini portatori di identità religiose e culturali diverse: quali principi di giustizia definiscono la linea di demarcazione tra il rispetto per consuetudini, pratiche, riti religiosi, ecc. di ogni tipo e la limitazione di questo rispetto in nome del rispetto della libertà individuale della persona?
Bisognerebbe una volta per tutte affrontare questi problemi nei termini disincantati della giustizia democratica, che possono essere incarnati nelle istituzioni, e sottrarli al calore delle rivendicazioni identitarie e della compassione.
Io non voglio evere torto o ragione, Ma non voglio essere “ideologico”. Qui il razzismo non c’entra. Lo credo onestamente. Prese di posizone simili a quelle di Genovese e della signora di Firenze ci sono anche a Milano su questioni simili. Quelle della signora hanno una ragione di essere. Poi il discorso va sviluppato.
Grazie per la lettura e i commenti, molto sensati. S’intende che entro nella discussione come cittadino, non come esperto: non essendolo.
Condivido il primo intervento di Piras (no, anche il secondo, ma il primo m’interessa di più): e però aggiungo sconsolato che la spesa italiana per la scuola secondaria inferiore e superiore è maggiore della media dei paesi OCSE. Ci si chiede come vengano spesi. E ci si risponde che andrebbero spesi meglio, e che comunque – proprio per fare fronte al problema e all’occasione degli immigrati – bisognerà spenderne di più. Sul primo numero di http://www.tamtamdemocratico.it ci sono degli interventi sul tema, alcuni interessanti. E forse, in generale, sarebbe ora di dare la parola e di ascoltare gli insegnanti di scuola media e superiore, e specie degli istituti tecnici e professionali. Qui sembra che tutti facciano il liceo classico, ma non è vero. E’ che tutti quelli che partecipano al dibattito hanno fatto il liceo classico, e perdono di vista il fatto che sono una piccola minoranza.
Quanto all’intervista e alle questioni che pone, sarei d’accordo con Benedetti. Anch’io vivo a Firenze, non in zona immigrati ma in zona ‘frastuono da adolescenti festanti (per lo più stranieri bianchi) e locali fuori controllo’. Li strozzerei. Ma il problema che costoro pongono è di altra natura rispetto a quello posto dagli immigrati di cui si lamenta l’abitante di via Palazzolo. Questi passano, fanno rumore (e sporcano ecc.) e se ne vanno; generalmente non sono violenti e non delinquono. Perché non ne hanno bisogno, dato che sono delle piccole merdine educate e i genitori li provvedono di tutto il necessario: vitto, alloggio, e l’occasionale cinquanta euro per l’acquisto di acidi (s’intende: da stranieri non bianchi che invece non hanno genitori che provvedono). Ripeto, li strozzerei, e umanamente mi sento più vicino agli immigrati di via Palazzolo: ma preferisco avere quegli altri sotto casa.
Comunque la si pensi su questo punto, a me pare che potremmo provare a rinunciare alla parola ‘razzismo’. Non credo che l’abitante medio di Firenze, o di un’altra città, creda all’inferiorità biologica di un africano o di un asiatico: per fortuna non è più questo il punto, mi pare. Mi pare si tratti di semplice incapacità di tollerare la povertà (per un mix di ragioni in cui entrano il benessere dato per scontato, il materialismo, la mancanza di memoria storica, la paura del declassamento eccetera). Forse andremmo più vicino al vero, al nocciolo del problema, se invece che di razzismo parlassimo di “disprezzo dei poveri”. Non “Lei è un razzista” ma “Lei è semplicemente uno che disprezza i poveri”. Voglio dire, il problema non è la pelle: è la solvibilità – potremmo dirlo perché mi pare che non a tutti sia chiaro.
E c’è anche un’altra cosa a cui non so rispondere, e che resta inevasa nell’intervista di Sciortino (potevo chiederglielo). Com’è che si fa a NON prostituire una città? Perché è vero, Firenze in certe zone è un cesso. Ma non è che certe zone di Roma, o Rimini, o Cancun… E dunque: chiudiamo le birrerie a mezzanotte? Niente discoteche in centro? Via le botteghe semi-abusive intorno alla stazione? A quanti posti di lavoro rinunciamo per il ‘decoro della città’ (un concetto che non mi dispiace affatto, ma, se me la passate, più di destra che di sinistra)? Se fossi un amministratore non saprei bene come fare.
Caro Giunta,
non so se le spese per la scuola secondaria, nello specifico, siano superiori a quelle della media OCSE, mi informo.
Per ora, mi permetto di fornire alcuni dati sulla spesa globale per istruzione in Italia, dai quali si vede che non siamo al di sopra della media OCSE, anzi. Si tratta di dati 2007, pubblicati dal rapporto OCSE “Education at a Glance 2010”, non sono aggiornatissimi ma li avevo già pronti, ora purtroppo non ho il tempo di analizzare quelli dell’ultimo rapporto.
“Nei paesi OCSE, nel 2007 (cfr. “Education at a Glance 2010″) la media degli investimenti di ogni tipo (diretti e indiretti, pubblici e privati) nella scuola era del 6,2% del PIL; in Italia era del 4,5%, mentre in altri paesi comparabili, Francia e Gran Bretagna, era del 6% e del 5,8%. Se si prendono solo gli investimenti diretti (sempre pubblici e privati), la media OCSE è del 3,6%, l’Italia si colloca piuttosto al di sotto, con il 3,1%, Francia e Inghilterra al di sopra con 3,9% e 4,2%. Se si prendono solo gli investimenti pubblici diretti, l’Italia, con il suo 3% del PIL, è al di sotto della media OCSE, 3,4%, e spende ancora meno rispetto a Francia (3,7%) e Gran Bretagna (4,1%). Se si prende la percentuale della spesa per la scuola sulla spesa pubblica, il dislivello è ancora più marcato: la media OCSE è il 9% della spesa pubblica, l’Italia spende il 6,4% del proprio bilancio, la Francia il 7,1% e la Gran Bretagna l’8,9%. Questi dati mostrano che l’Italia è gravemente al di sotto della media OCSE come investimento generale (di ogni tipo) nel sistema educativo, ed è sempre al di sotto di questa media come investimenti diretti e come spesa pubblica per la scuola, sia in rapporto al PIL che in rapporto alla spesa pubblica generale.”
Aggiungo solo ora a questo testo (scritto alla fine del 2010) che i dati del 2007 sono anteriori alla “Riforma Gelmini”, che ha portato a un taglio di circa 8 miliardi nei finanziamenti pubblici alla scuola in tre anni (2009-2011), quindi quelle percentuali sono oggi presumibilmente più basse.
Lascio da parte il problema importantissimo della scuola (di cui non so nulla e per il quale mi affido a Piras sapendo di potermi fidare), e dico invece a Giunta che si sbaglia di grosso se pensa che il razzismo oggi sia “ideologico”, che consista in un discorso di qualsiasi tipo sulla inferiorità razziale, biologica, etc. Il razzismo odierno è discreto – sottolineo, discreto – proprio perché inconsapevole: nasce dal fastidio per l’altro, dalla xenofobia (che, guarda caso, quando c’è da guadagnarci non scatta, o scatta molto di meno). Ha certo a che fare con il “povero” (anche i torinesi che negli anni cinquanta e sessanta non affittavano ai meridionali avevano a che fare con il “povero”), ma è razzismo a tutti gli effetti perché il fastidio è rivolto contro certi gruppi etnici o sociali, e non contro altri. Su ciò ho anche scritto, ma non mi piace citarmi. Il punto, per farla breve, è che il nuovo razzismo nasce dallo sviluppo della comunicazione (e delle comunicazioni), mentre quello di un tempo nasceva dal colonialismo e dalla chiusura, era imperniato sull’apartheid.
Per il resto, sì: chiuderei le discoteche a mezzanotte o all’una, e non considererei questa una posizione di destra.
che guazzabuglio, genovese, torinese, coloniale, discotecaro, urinario, scolarizzato… vabbè, discorsi pour parler.
Certo, pour parler – per cosa sennò?
Ciao Mauro, no, io mi riferivo specificamente al segmento d’istruzione pre-universitario, quello che nelle statistiche si chiama K-12, dai 4-5 anni ai 17-19; i dati sono riassunti nell’istogramma del Mercatus Center (che è un istituto indipendente per come possono essere indipendenti gli istituti delle università americane) che si trova qui:
http://mercatus.org/publication/k-12-spending-student-oecd
l’istogramma mostra appunto che in quel segmento di istruzione la spesa italiana è superiore a quella della media dei paesi OCSE. Il dato è confermato dal report dell’OCSE più recente, 2011:
http://www.oecd.org/dataoecd/61/2/48631582.pdf
In particolare vanno viste le pagine 203 e seguenti, e gli istogrammi da B1.1 a B1.5, che illustrano la spesa per studente nella scuola primaria, secondaria e terziaria. Nella primaria e secondaria l’Italia risulta (se vedo bene) sempre sopra la media OCSE, nella terziaria sempre sotto. Ma, come osservano gli analisti, i valori bassi dell’Italia in questo terzo settore (e il relativo abbassamento dei valori negli altri due) derivano soprattutto dalla scarsa partecipazione di capitale privato nella spesa per l’istruzione e nello scarso investimento in R&D (Ricerca e Sviluppo). Ed è vero invece che l’incremento di spesa in tutti e tre i livelli dell’istruzione è stato contenuto, 6-7 per cento, ma non più contenuto che in Francia o Germania (il boom c’è stato, comprensibilmente, nei paesi emergenti).
Questo almeno capisco dai documenti che ho letto: ma ben contento di ricredermi se ho capito male.
Caro Claudio,
grazie per le indicazioni; in effetti sapevo (approssimativamente) che se si guarda la spesa per studente le cose stanno diversamente dai dati aggregati, e sapevo anche che per il terzo livello siamo sempre al di sotto; non sapevo della situazione del livello secondario. Che ci siano degli sprechi è indubbio. Bisognerebbe riuscire a discutere con calma tutti questi dati, una volta.
Un caro saluto,
mp
Credo che le parole di Sciortino siano in gran parte condivisibili. Il punto centrale sta appunto nella carenza di legalità del nostro paese, problema che ovviamente preesiste al fenomeno dell’immigrazione, ma nell’incontro di questi due aspetti si generano effetti spiacevoli. Se per affrontare tali problematiche, si riuscisse ad aumentare il tasso di legalità, ciò costituirebbe un bel vantaggio collaterale.
Un breve OT promozionale per chi fosse interessato: ho iniziato da alcuni giorni a riprotare ampi stralci del mio libro sul mio blog, ed ogni visita sarà ovviamente gradita.
Sì Mauro, bisognerebbe ridiscutere dei dati. Nottetempo, tra l’altro, ho ri-sfogliato le 400 pagine del report 2011 e c’è qualche inquietante tabella che sembrerebbe darmi, almeno in parte, torto. Ma l’impressione è che le variabili siano così tante (specie nel settore post-secondario: non so se hai seguito la polemica sull’interpretazione dei dati in “L’università truccata” di Perotti) da rendere quasi inservibile la comparazione tra l’Italia e gli altri paesi OCSE, per non parlare del solito paragone con gli USA. “Tanti soldi, forse, ma non abbastanza ancora, purtroppo; e usati male”: mi pare che potremmo accordarci su questo. Sulla scuola (ripeto, specie le professionali e tecniche: dove il problema scuola si intreccia più stretto al problema immigrazione) occorrerebbe discutere di più. Ci provo forse in un prossimo post.
Caro Claudio,
quello che manca in Italia è una discussione pubblica soddisfacente sulla scuola: i partiti non sono all’altezza, i sindacati si muovono in una prospettiva particolaristica e frammentata, e anche la migliore associazione democratica (secondo me) che si occupa di scuola, cioè il CIDI, sembra non avere una prospettiva. La mia tesi è che si è esaurita la spinta di una concezione democratica della scuola che ha dato dei risultati negli anni Settanta, e ora non abbiamo più un progetto di scuola.
Credo che bisognerebbe rilanciare una discussione, partendo dai dati e dalle ricerce empiriche più affidabili. Io penso che qui a Torino la Fondazione Giovanni Agnelli faccia un ottimo lavoro, e potrebbe essere una buona base di partenza. Bisognerebbe partire da qui. Tra parentesi, per restare più vicini al tema specifico di questo post (l’immigrazione), segnalo uno studio della Fondazione sui vantaggi della formazione di classi eterogenee dal punto di vista sociale e culturale: http://www.fga.it/home/i-documenti/interventi/dettaglio-documento/article/formazione-delle-classi-e-risultati-di-apprendimento-degli-studenti-334.html
mp