di Gianluigi Simonetti
[LPLC si prende una decina di giorni di riposo pasquale. In questo periodo ripubblicheremo alcuni articoli usciti qualche mese fa. Questo articolo è apparso il 21 novembre 2016 e fa parte di Nuovi Realismi: il caso italiano. Definizioni, questioni, prospettive (a cura di Silvia Contarini, Maria Pia De Paulis-Dalembert e Ada Tosatti, Transeuropa). I saggi riuniti nel libro provano a definire e analizzare la nozione di “ritorno al reale”, che ricorre tanto nella creazione artistica e letteraria quanto nella riflessione critica e filosofica dagli anni Novanta ad oggi. Tra i contributi raccolti nel volume, un articolo che elenca e discute alcuni tra i principali effetti di realtà elaborati dalla narrativa italiana degli ultimi anni: ne pubblichiamo il primo paragrafo (nei successivi ci si sofferma sull’uso della prima persona, sull’esibizione di documenti e dati, sul ricorso all’ibridazione di generi letterari e paraletterari, sulla ricorrenza di scelte linguistiche e temi specifici)].
1. Gli epistemologi spiegano che la realtà è un mito, un mito occidentale – forse il più potente della cultura moderna[1]. I teorici della letteratura ricordano che il realismo è una convenzione, «uno spazio di transizione tra universi non omogenei»[2] – non un oggetto specifico ma qualcosa di relativo e storicamente determinato. Per quanto mi riguarda non parlerò né di realtà, né di realismo, e nemmeno di poetiche realistiche; parlerò di effetti di realtà: quelle convenzioni formali, marche linguistiche, scelte tematiche e dettagli apparentemente inutili che dall’interno di un testo, o intorno ad esso – perché molto conta, in questo campo, il paratesto – dicono al lettore: «noi siamo la realtà»[3].
Non è facile stabilire se la letteratura italiana degli ultimi anni sia stata più o meno autenticamente realista di quella che l’ha preceduta. Dipende da cosa si intende per realismo, naturalmente, e anche da quante contraddizioni siamo disposti a sopportare. Quello che sicuramente si può dire è che:
a) sul piano della storia degli intellettuali sembra tornata in circolo un’esigenza peraltro molto variegata di partecipazione alla vita pubblica (che pure non sempre e anzi raramente prende le forme di una poetica esplicitamente realistica)[4];
b) sul piano delle forme letterarie, che è quello che più ci interessa, si afferma in molta letteratura di oggi, specie narrativa, un bisogno di «vero», che si è nutrito e si nutre, stilisticamente, di effetti di realtà, e più in generale di «illusion référentielle»[5].
Ciò ha creato uno scarto effettivo, misurabile quantitativamente, rispetto alla letteratura di trenta o quaranta anni fa: se dall’inizio degli anni Settanta all’inizio di Novanta la maggior parte degli scrittori italiani – e quasi tutti i più significativi del periodo – esibiva nelle proprie opere soprattutto marche di de-realizzazione, mascheramento ed esotismo, oggi si verifica tendenzialmente il contrario: a proliferare sono i tratti di autenticazione – su tutti la prima persona e la ricerca continua di qui-e-ora[6]. L’accento è tutto sull’«è successo veramente», e sull’«è successo a me»: su una complessiva intimazione di realtà che collega sistematicamente il testo a ciò che gli è esterno attraverso un ingombrante filtro soggettivo.
Ma questa esigenza di reale che stiamo attraversando, è un semplice risveglio dall’assopimento postmoderno, o piuttosto non sarà proporzionale a una proliferazione del falso e del finto nel mondo che abitiamo? Non a una diminuzione, ma a un aumento della confusione epistemologica? E questa presa di parola individuale, non coincide con uno spossessamento generalizzato, con un io ridotto a maschera social? Lo abbiamo appena detto: nel nostro campo letterario i dispositivi di derealizzazione andavano forte soprattutto quando sembrava che in Italia di realtà ce ne fosse anche troppa – cioè tra la fine degli anni Sessanta e i primi Ottanta. Basti vedere quello che è successo col terrorismo, inteso come spunto letterario del romanzo italiano degli ultimi decenni[7]: finché nelle strade e nelle piazze si è sparato sul serio, la narrativa ha evitato di parlarne – quella realtà era troppo brutta o scottante per poterla raffigurare apertamente[8]. Quando la lotta armata è finita, almeno da noi (prima il terrorismo, poi l’idea stessa di una concreta alternativa politica a un sistema consolidato di potere), allora la nostra narrativa ha cominciato a riappropriarsene, trasformandola in tema di successo. Perfino in romanzi non mimetici ma di sicuro spessore come Il tempo materiale di Giorgio Vasta o gli Esordi di Antonio Moresco i soli elementi di illusione referenziale provengono proprio dal riferimento al caso Moro e agli scontri politici degli anni Settanta.
Il fenomeno risulta istruttivo se lo si proietta sulla questione degli effetti di realtà. Il terrorismo rosso e nero diventa un tema di successo nel momento apicale della sua rappresentazione mediatica, sull’impatto di altri terrorismi, più esotici e glamour, come l’undici settembre – non della sua presenza sociale reale. Evidentemente ciò che è vero, oggi, si conosce attraverso i mass media: il caso del noir italiano mostra benissimo come, per chi lo scrive e per chi lo legge, è reale ciò che la comunicazione diffonde come tale[9]. «Forse l’immagine mediatica e spettacolare ha ormai talmente preso possesso del nostro cervello che chi vuole apparire credibile deve imitare quella e non la realtà sottostante»[10]; ma se le cose stanno così, il nostro attuale bisogno (estetico) di realtà potrebbe configurarsi soprattutto come bisogno di sembrar vero, niente affatto contrapposto ma anzi complementare alla bolla di derealizzazione in cui leggiamo (e scriviamo). Così, molti degli effetti di realtà di cui si nutre la narrativa attuale guardano alla comunicazione di massa come modello narrativo, linguistico e ritmico – accanto e oltre la tradizione letteraria.
Se di realismo si vuole parlare, allora, sarebbe il caso di definire lo spazio di uno specifico «realismo dell’irrealtà», ambiguo e ricco di contraddizioni – in minima parte suggestionato dai vecchi fantasmi del verismo e del neorealismo, in gran parte orientato altrove[11]. Dove, esattamente? Non verso la storiografia o la scienza, con cui pure il realismo ha flirtato durante le stagioni del naturalismo e del romanzo sperimentale; piuttosto verso tutti quei codici che oggi si incaricano di autentificare il reale mentre gli danno forma estetica, o gli ‘rifanno il trucco’ (spesso col supporto decisivo dell’immagine): il reportage, il docudrama, il reality. Così quella passione realistica che in età classica aveva prodotto perlopiù strutture letterarie ‘forti’, ricche di dettagli funzionali e ossessionate dal verosimile[12], produce oggi, in epoca postmoderna, una ricerca di autentico-meraviglioso (o storico-epico, come vorrebbe Wu Ming)[13] che si mette al servizio di narrative quasi sempre ‘deboli’ – come sono di fatto le innumerevoli scritture ‘di frontiera’, ibridate, disarticolate e metafinzionali, che proliferano ai nostri giorni.
Per questo, oggi, il realismo dell’irrealtà interroga frontalmente i generi letterari. Contaminare scritture letterarie tradizionalmente connotate come fittizie con tipologie di scrittura meno blasonate, ma connotate come veritiere (soprattutto l’autobiografia vera o finta e il giornalismo di cronaca, ma anche il saggio, gli aforismi, il racconto di viaggio, la storia orale messa su pagina, eccetera…) è stato in questi anni il modo più facile e veloce per ‘fare realismo’, al punto da incoraggiare la nascita, nella grande editoria, di collane specificamente dedicate a occupare questo segmento (Contromano di Laterza, 24/7 di Rizzoli, eccetera) . Nel momento in cui si usciva da una fase della nostra letteratura – gli anni Settanta e Ottanta – tendenzialmente orientata a un recupero del romance e del simbolo, il ricorso sempre più massiccio alla scrittura ‘di frontiera’, dai primi Novanta ai giorni nostri, ha assicurato in partenza quello shock realistico che un genere convenzionalmente fictional deve altrimenti costruire con fatica, cioè con uno sforzo supplementare di invenzione e struttura.
[1] A. Berardinelli, L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno, Torino, Einaudi, 1997, p. 71
[2] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi, 2007, p. 311.
[3] R. Barthes, L’effet de réel [1968], in Id., Oeuvres complètes, tome III (1968-1971), Seuil, Paris, 2002, p. 32.
[4] La «partecipazione alla vita pubblica» sarebbe tipica dell’intellettuale ipermoderno secondo R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la letteratura contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 108. Sulla visione politica di alcuni autori italiani recenti è incentrato Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea, a cura di C. Boscolo e S. Jossa, Roma, Carocci, 2014. In precedenza la categoria di impegno era stata rispolverata da Postmodern Impegno. Ethics and Commitmment in Contemporary Italian Culture, a cura di P. Antonello e F. Mussgnug, Oxford-New York, Peter Lang, 2009, pp. 1 e 10 (sulla scia di J. Burns, Fragments of Impegno. Interpretations of Commitment in Contemporary Italian Narrative, 1980-2000, Leeds, Northern Universities Press, 2001). Per ulteriori ricostruzioni delle novità ideologiche in atto nella scena italiana cfr. R. Donnarumma, G. Policastro, G. Taviani, Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, in «Allegoria», XIX, 57, 2008, pp. 7-95; il numero di «Lo specchio» (inserto della «Stampa») a cura di A. Cortellessa, novembre 2008; New Italian Realism, in Tirature 2010, a cura di V. Spinazzola, Milano, Il Saggiatore, 2010; Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2008. Si vedano anche i lavori di Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a cura di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, e Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di inizio millennio, a cura di L. Somigli, Roma, Aracne 2013.
[5] Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità, cit., in particolare p. 78 e sgg.
[6] Un qui-e-ora che può a sua volta risultare esotico, ma di un ‘esotismo di ritorno’, puntellato da ambientazioni ‘glocal’ e da sfumature neodialettali, che andrà analizzato puntualmente. Per la nozione di neodialettalità cfr. G. Antonelli, Lingua ipermedia. La parola di scrittore oggi in Italia, Lecce, Manni, 2006, p. 98 e sgg. Per il passaggio da una dominante derealizzante, tipica del postmodernismo italiano tra anni Settanta e Ottanta, a un problematico «ritorno alla realtà» che segna gli anni più recenti cfr. la rigorosa ricostruzione di R. Donnarumma, Ipermodernità, cit., specie p. 61 e sgg.
[7] G. Simonetti, Nostalgia dell’azione. La fortuna della lotta armata nella narrativa italiana degli anni Zero, in «Allegoria», XXIII, 64, 2011, pp. 97-124
[8] «Romanzi sul terrorismo? Difficile, improbabile. […] trovare interessante il terrorismo sarà come trovare interessante il cancro, scrivere e leggere romanzi sul cancro, le testimonianze di chi l’ha avuto e ha tenuto diari […]?»: cfr. A. Arbasino, Un paese senza [1980], Milano, Garzanti, 1990, p. 120.
[9] Lo sottolinea R. Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969-2010), in Per Romano Luperini, a cura di P. Cataldi, Palermo, Palumbo, 2010, parzialmente rielaborato in Id., Ipermodernità, cit., p. 78: «Ciò che il postmoderno avrebbe esibito, cioè la natura artificiale e di riporto di questi racconti, questa letteratura [il noir italiano tra anni Novanta e anni Zero] nasconde».
[10] W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Roma, nottetempo, 2013, p. 70.
[11] Cfr. G. Simonetti, Il realismo dell’irrealtà. Attraversare il Postmoderno, in «CoSmo. Comparative Studies in Modernism», 1, 2012, pp. 113-120.
[12] R. Barthes, L’effet de réel, cit., p. 30.
[13] Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 14.
[Immagine: Giuseppe Bartolini, Alfa Romeo]