di Federico Bertoni
[È uscito in questi giorni Morire il 25 aprile (Frassinelli), primo romanzo di Federico Bertoni. Ambientato tra la guerra civile e i primi anni Zero, il libro risale al tempo della Resistenza sull’Appennino emiliano per confrontarsi con la storia italiana. Il protagonista indaga su un episodio della Resistenza che coinvolge la sua famiglia e un amico appena morto, più vecchio di lui. Mentre cerca di ricostruire quegli eventi, s’interroga sui tempi che si trova a vivere, i primi anni Zero del nuovo millennio. «Mettere ordine nella vita di un padre putativo», si legge nel risvolto di copertina «sembra il requisito per orientarsi nella propria». Presentiamo il secondo capitolo, intitolato La casa. Ringraziamo l’editore che ci ha dato il permesso di pubblicarlo].
La casa
Adesso che è morto e sepolto posso finalmente passare all’azione. Non aspettavo altro. È il giorno dopo, domenica 29 aprile 2001, le 10.30 della mattina. Il cielo è azzurro, il barometro alto, l’aria insolitamente fresca e asciutta per questa pianura fetente. Così salto in macchina e mi avvito sui tornanti fino alla sua vecchia casa di pietra, a cavallo di un crinale tra le colline, i calanchi smagriti e tutta la pianura che si perde verso nord nelle giornate limpide come questa, quando in fondo spuntano le Alpi. Eccola lì, ed è proprio vero: non c’è oggetto più scopertamente letterario di una vecchia casa. Ho appena iniziato e sono già intrappolato nei cliché. I muri di pietra coperti di edera dai rami nodosi; le finestre schierate in facciata con le inferriate e gli infissi cadenti; i camini bizzarri che svettano nell’aria; gli abbaini come grandi occhi sul tetto; il balcone con la ringhiera di ferro panciuto; e intorno la cancellata che abbraccia il giardino di vecchi alberi e cespugli incolti. La sua casa è così, non posso farci niente. Almeno non devo perdere troppo tempo a descriverla, anche perché le descrizioni sono una gran noia, aveva ragione Stendhal.
Mi sono fatto dare le chiavi da sua figlia, Teresa, una tardona tutta faccende domestiche e fiction in tv. Le ho detto che volevo solo dare un’ultima occhiata alla casa, proprio come lui l’ha lasciata, debiti sentimentali, pellegrinaggi della memoria, cose del genere. Mi ha detto di non toccare niente e io ho fatto gli occhioni, l’aria stupita da agnellino innocente, ma certo: fidati di me: nemmeno trovassi il tesoro del capitano Flint!
Ovviamente la porta cigola. Si apre su un corridoio buio che al capo opposto termina con un’altra porta, come se una cannonata geometrica avesse bucato la casa da parte a parte. Porte chiuse sui lati e la scala che sale ai due piani superiori. La prima porta dà sulla cucina, l’idea di uno spazio freddo e inospitale. Puzzo di umido e rancido, forse resti di cibo avariato. Sono anni che non metto piede qui dentro. La moglie era morta da tempo e lui viveva da solo; odiava amici e parenti e adesso anche lui è morto, e solo le cose sfoggiano la loro brutale persistenza: lo stesso odore, la stessa umidità pungente.
Mi aggiro per le stanze come un cane famelico, apro cassetti, frugo, fiuto, lascio tracce nella polvere. Sono qui perché alla fine lui è morto e io devo cercare una cosa, la risposta a una domanda che è sempre rimasta in sospeso: dove sono le armi, vecchio pazzo? Dove le hai seppellite? Tanto lo so, lo sapevamo tutti che non le hai mai consegnate agli alleati. Bastava guardarti in faccia, quando sviavi il discorso ma lasciavi capire che da qualche parte c’erano ancora, e bastava trovarle, il forziere sepolto, la ricompensa dell’eroe della fiaba. Non puoi sapere quante fantasie ci ho sprecato, tutte quelle ricerche immaginarie in fondo a un pozzo o in un falso spessore del muro che mi portavano sempre lì, al tesoro del vecchio Flint, una massa lucente di mitra e caricatori e granate, quella potenza di fuoco tra le mie mani. Vecchio pazzo. Almeno potevi darmi qualche indizio.
Sono quelle vecchie fantasie a portarmi su per le scale, in cima alle rampe, fino alla porta del solaio. Entro. La luce piove da lucernari e abbaini ma lo spazio è opaco, polveroso, completamente vuoto. Non c’è niente di niente, eppure io lo vedo. Lo rivedo adesso come l’ho visto tante volte distintamente, cinematograficamente, in una scena dai colori accesi e rossastri e un po’ rallentata in un momento di epica enfasi: lo vedo che sale le scale con il suo passo pesante degli ultimi anni, la schiena ricurva, il ventre sporgente; che entra nel vasto solaio in cui la luce taglia lo spazio, lunghe lame impigliate nella polvere; che si fa strada in un’inverosimile calca di sedie sfondate, barili, vecchie armature, maschere, pendole e lanterne; che raggiunge nell’angolo più oscuro e remoto un baule borchiato, nascosto dietro una tenda; che gira la chiave nella serratura e apre il coperchio, e gli occhi si accendono finalmente di una gioia infantile, violenta, trattenuta per troppo tempo, la gioia di affondare le mani nel ferro e di imbracciare di nuovo il suo mitra, oliato e pulito e caricato con il fuoco sterminatore per punire i malvagi e ristabilire la giustizia nel mondo. Lo vedo che discende lentamente, solennemente le scale (i fotogrammi rallentano, i contrasti si accendono, mentre finestre bislunghe aprono rugginosi squarci di tramonto); lo vedo che spalanca la porta ed esce nel prato, si guarda intorno, i pochi capelli nel vento; e poi si avvia nel tramonto a seminare stragi e morti, l’unico modo per chiudere i conti e finire davvero la sua guerra, placare la rabbia, la vendetta, il rimorso di non averli uccisi tutti, quei farabutti che infestano ancora il mondo.
I miei passi rimbombano nel vuoto mentre esploro con lo sguardo muri e anfratti e interstizi, alla ricerca di un’improbabile nicchia segreta. Mi accosto a un angolo del solaio in cui il muro fa uno scacco, uno spigolo piuttosto largo in cui è alloggiata la canna fumaria. Passo la mano sull’intonaco, batto le nocche e sento che dietro c’è il vuoto. Continuo a battere tutto intorno per rendermi conto delle dimensioni. Poi…
Poi niente: è solo la canna fumaria. Apro una finestrella, mi sporgo nel vuoto e vedo il camino annerito che svetta dal cornicione. Richiudo la finestra e mi decido a ridiscendere. Mi fermo al primo piano ed entro in uno studio quadrato, l’unica stanza un po’ curata della casa − camino, scrivania, poltrona in pelle, scaffali carichi di libri. Lascio vagare lo sguardo sulle coste e catturo titoli alla rinfusa: Il sistema periodico, I piccoli maestri, L’isola del tesoro, Alice, Il partigiano Johnny, Lord Jim, Orlando furioso, La quarantasettesima, Il rosso e il nero. Forse dovrei guardarli meglio ma qualcosa mi dice che in questa storia i libri sono solo zavorra, carta morta, false piste per andare fuori strada. Frugo nei cassetti della scrivania e trovo fatture, ricette mediche, un libro di preghiere, un’agenda del 1995 con qualche appunto di un viaggio a Mindanao. C’è anche una busta affrancata, tutta gonfia e sporca, una lunga lettera indirizzata a lui. Me la rigiro tra le mani. Cristo santo. Sulla busta non c’è il mittente ma non posso evitare di riconoscere la grafia, e allora guardo meglio, cerco di sbagliarmi, mi ripeto che non può essere lei; sfilo la lettera per leggere la firma e il nome mi arriva come un calcio nei denti: sì, Angela Lamberti, mia madre.
Rimetto la lettera nella busta e me la ficco in tasca mentre sguardi e pensieri vagano per aria, il vuoto, lo strazio, tutti questi morti, il terrore delle loro voci remote e anche degli occhi che cominciano a fissarmi da una foto piantata lì per ipnotizzare i passanti, grande formato, cornice massiccia, al centro dell’unica parete senza libri. È in bianco e nero: una strada sterrata, sagome di pioppi sullo sfondo, le ombre nette e scure delle ore centrali del giorno, e tre uomini in piedi, figura intera, abbracciati davanti al muso di un camion. I due ai lati hanno capelli corti e calzoni in piega, le giacche allacciate, l’aria seria e compresa di chi si è messo in posa con l’occhio all’obiettivo. Ma quello in mezzo – più giovane, leggero, quasi sospeso ai compagni con le braccia aperte – tiene gli occhi altrove e ha un mezzo sorriso, i capelli lunghi e folti che gli cadono sulle spalle. Porta calzoni larghi, rimboccati in fondo, che gli danno un’aria da guerrigliero o da brigante.
Poi c’è come un fruscio, la sensazione di ricordare qualcosa, storie narrate tante volte, quando lui era vivo e c’era la sua voce, il suo sguardo grigio, la sua ombra massiccia accanto a me…
– Ah, sei qui? Non ti avevo sentito. Stavo guardando questa foto.
– …
– Quale sei tu?
− Quello in mezzo, con i capelli lunghi.
− Ci avrei giurato.
− Vedi queste braghe? Sai dove le ho prese?
* * *
Le aveva prese dove poteva, perché le sue erano a pezzi e le teneva addosso giorno e notte. Come le scarpe. E lui lo diceva sempre, che in fondo dormire vestiti non era niente, ti abituavi: la cosa dura era andare a letto con le scarpe. Avevano avuto settimane di rastrellamenti feroci e lui non se le era mai tolte, le scarpe, e la notte sognava di svegliarsi e di correre nel bosco tra i fischi delle pallottole, i piedi che friggevano e le gambe che giravano a vuoto. Ma ormai i tedeschi diradavano gli attacchi e il primo inverno di guerra era alle spalle. Metri di neve in cui avevano dovuto marciare, e intanarsi, e morire. Giorni interi a vagare nel nulla per rimediare due patate o un pezzo di lardo. Ma adesso le cose miglioravano. L’esercito partigiano si riorganizzava, gonfiato dall’afflusso di nuove reclute spinte in montagna dai bandi Graziani del marzo ’44. Nascevano nuovi distaccamenti, battaglioni, comandi di brigata, servizi di intendenza, reti di informatori, tribunali. Si davano gradi e mostrine, quella smania idiota di mettersi in divisa e fare il saluto ai superiori. Era tutto un pianificare, tracciare zone, stilare relazioni, diffondere regolamenti o circolari, quintali di carta per pulirsi il culo.
A fine aprile lui era dalle parti di Rigollo, in un casolare abbandonato. Combatteva. Uccideva. Addestrava i nuovi e seppelliva i morti. I caporioni del comando di brigata gli avevano lasciato il suo distaccamento, che cambiava composizione interna ma in fondo manteneva il disegno, un contorno elastico che si riformava sempre intorno a lui, il comandante, con le braghe rotte e i capelli nel vento. Gli avevano dato anche un nome, distaccamento d’assalto “Ettore”, per suo cugino ammazzato due mesi prima dai fascisti. Tito era riuscito a farsi nominare vicecommissario di brigata e si era trasferito a Bardi, alla sede del comando. Ogni tanto se li vedeva, mentre srotolavano una mappa e piantavano le bandierine. Ma che giocassero pure ai soldatini e gli lasciassero fare la sua guerra, ammazzare tedeschi e fascisti, l’unico modo che conosceva. Tentava anche di mantenere buoni rapporti con i contadini, decimati dalle rappresaglie e dalle stragi, sempre più insofferenti alle requisizioni che doveva ordinare perché i ragazzi non si sbranassero tra loro. L’ultima era stata il giorno prima, alla Casa dei Rossi: aveva mandato Nando e Lampo e se n’era pentito subito: due tipi un po’ strambi, giunti in montagna da poco, che erano rientrati alla base tutti allegri con due sacchi di patate in spalla.
Quel mattino il sole splendeva, si sbrogliava tra le querce del crinale e iniziava a scaldare, lo faceva sentire bene, gli slegava i nodi tra le giunture e le ossa. Guardò il sole e il sole gli rimandò schegge di luce, un alone che sfarfallava negli occhi, le forme che si annebbiavano. Fu in quella nebbia che sentì lo sparo. Poi frulli di uccelli, l’eco che rotolava nella valle. Corse veloce e trovò Boris appostato dietro un masso. Gli piombò alle spalle e gli chiese perché aveva sparato.
Perché c’era un uomo, disse Boris. Un vecchio. Gli aveva detto di fermarsi ma lui continuava a venire su per il sentiero come uno stupido idiota. E allora gli aveva sparato.
Allo sparo, il vecchio si era gettato nel fosso, e fu lì che lo trovarono, disteso, immobile, la faccia affondata, le mani chiuse sulla nuca. Sembrava morto. Allora il comandante si accostò, lo scosse con un piede, si chinò, gli mise una mano sulla spalla, e poi gli disse di alzarsi.
E lui si alzò.
La sua faccia lo colpì, gli rovinò definitivamente la giornata: lunga, dura, ossuta, con il mento sporgente e l’occhio acceso, vagamente folle, fisso con un odio feroce su di lui.
− Che fai? Sei pazzo a salire quassù?
− Sei tu il comandante?
− Chi sei?
− Gianni della Casa dei Rossi. Sei tu il comandante?
− Sì, sono io.
− Devo parlarti. Da solo.
Il comandante guardò tutto quell’odio famelico che il vecchio gli teneva addosso, se lo sentiva formicolare sulla pelle. Poi gli fece un cenno col mento. Rimontarono il sentiero ed entrarono in casa.
Quando uscì, il comandante prese da parte Marco: − Prendi tre uomini, che dobbiamo fucilare Nando e Lampo.
− Sei pazzo?
− Prendi tre uomini e andiamo contro il muro. Non farmelo ripetere.
− Cos’ha detto il vecchio?
− Che ha due figlie.
− E allora?
− Indovina.
– Ma no! – disse Marco. Poi ci ripensò: – Ma può averti contato delle balle.
− Se tu avessi due figlie andresti in giro a dire una cosa così, tanto per contar balle?
− Non lo so.
− E poi dovevi vederlo. Aveva una faccia e due occhi, aveva due occhi, ti dico, me li piantava in faccia come chiodi. E adesso quei due vanno al muro.
− Ma non puoi fucilarli così. Bisogna fare il processo, sentire il tribunale di brigata.
− Sai che me ne faccio del tribunale di brigata? Ma lo capisci che sarà tutto inutile, se poi facciamo peggio di loro e andiamo in giro a rubare e a violentare?
Marco non rispose, guardò lontano, e più tardi quei due stavano legati contro il muro. Nando piangeva, chiedeva pietà. Lampo era immobile, sguardo perso e labbra socchiuse, un povero scemo rintronato dal terrore. Il piccolo plotone si schierò, la massa nera dei compagni che sembrava ondeggiare. C’era un ronzio metallico, come una vibrazione. Poi caricarono e presero la mira. Ma il comandante si accostò agli uomini e disse di mirare sopra la cintura, di non colpirli alle gambe. Sembrava calmissimo. Fissava Lampo, quel tronco d’uomo sbalordito davanti alla morte. Lo squadrava e lo misurava da capo a piedi come un manzo alla fiera. Gli guardava le braghe. Erano quasi nuove. Disse di sparargli sopra la cintura per non bucare le braghe, perché quelle servivano a lui. Poi diede il segnale e fecero fuoco.
[Immagine: 25 aprile 1945].