di Giacomo Raccis
[È in libreria da qualche settimana Quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere, una raccolta di scritti sull’arte e la letteratura pubblicati da Emilio Tadini tra il 1958 e il 1970, curata da Giacomo Raccis per il Mulino. Nella seconda metà del Novecento Tadini è stato un intellettuale a tutto tondo e se la pittura e il romanzo sono state le forme in cui ha espresso in maniera più significativa la sua poetica, la scrittura critica è il primo campo in cui questa poetica è stata messo alla prova per la prima volta. Pubblichiamo un estratto dall’introduzione del curatore, ringraziando la casa editrice per la disponibilità].
Del resto io penso che sia giusto essere tendenziosi, e
avere a che fare con gente tendenziosa, e lasciare
l’incarico di calcolare obbiettivamente i valori a quelli
che verranno dopo di noi, se ne avranno voglia.
(Nuove prospettive della pittura italiana)
Al lettore che si voglia avvicinare all’opera di Emilio Tadini (1927-2002), il versante della sua produzione di critico letterario e d’arte offre un primo e fondamentale punto di partenza per conoscere la poetica dell’autore, ovvero l’idea di arte che tentò di realizzare nel suo poliedrico impegno. Tadini, infatti, è stato principalmente un pittore, artefice di una peculiare chiave «archeologica» per la raffigurazione del caos ermeneutico del mondo, e un narratore, autore di cinque romanzi che tracciano le parabole parallele di personaggi intenti a trovare un «sistema» per sopravvivere a un mondo «pieno raso di cose», come diceva il giovane protagonista di Eccetera (2002). Ma è stato anche poeta, e anzi, prima di tutto poeta, dacché con La passione secondo San Matteo (1947) esordì a vent’anni sul «Politecnico» di Vittorini e proseguì poi la sua attività dando una personale interpretazione ragionativa alla forma del poemetto, ereditata dalla tradizione anglosassone (Pound, Eliot, Auden). E poi ancora è stato autore di testi per il teatro (La deposizione, 1997), saggista (L’occhio della pittura, 1995; La distanza, 1998), traduttore (Stendhal, Melville, Shakespeare, Joyce) e intellettuale pubblico, figura di riferimento per Milano, dal dopoguerra fino all’inizio del nuovo secolo.
Ecco, in questa sfaccettata identità artistica, il profilo del critico non va certo dimenticato e merita semmai una speciale attenzione in virtù di un primato cronologico, condiviso con quello del poeta. Gli articoli scritti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta appaiono oggi come un vero e proprio laboratorio di idee e prospettive teoriche che Tadini continuerà poi a rielaborare in funzione dei mezzi espressivi di volta in volta adottati. La produzione critica di questo periodo costituisce infatti la base sommersa di un iceberg le cui parti emergenti sono l’opera pittorica e quella romanzesca. Senza i saggi e gli articoli affidati alle pagine delle riviste, senza la riflessione che si sviluppa e si richiama da un testo all’altro non ci sarebbero state probabilmente le tele esposte nella prima mostra personale alla Galleria del Cavallino di Venezia nel 1961, così come non ci sarebbe stata la lunga e complessa narrazione (contro)storica di Le armi l’amore, romanzo del 1963 che mette in scena le vicende vere e fittizie dell’eroe risorgimentale Carlo Pisacane.
In quasi vent’anni Tadini pubblica più di 150 articoli di lunghezza, tipologia e destinazione differenti: scrive di letteratura sulle pagine di «Inventario», «Quaderni milanesi» e «Corriere d’informazione», e scrive d’arte nei lunghi articoli monografici su «Settimo giorno» e nella rubrica d’arte che conduce per quasi otto anni sul settimanale «Successo»[1]. A queste collaborazioni si aggiungono poi i cataloghi delle mostre: le introduzioni scritte per le rassegne Possibilità di relazione (1960, 1970) e Alternative attuali (1962, 1965) sono già testi dotati di un valore programmatico; le pagine dedicate all’opera di singoli artisti, come Alfredo Chighine, Joan Mirò e Bepi Romagnoni, spiccano invece per la capacità di coniugare acume interpretativo e acribia nel testare un’ipotesi critica.
E questa ipotesi, costruita sul concetto di organicità o integralità della rappresentazione artistica, la si trova fin dai primi testi, quelli degli ultimi anni Cinquanta. A quest’epoca Emilio Tadini è uno dei tanti giovani intellettuali che si radunano ai tavoli dei locali di Brera – la trattoria delle sorelle Pirovini, il bar Giamaica – per discutere, confrontarsi, raccontarsi esperienze e confessarsi ambizioni. Mario Dondero, Oreste del Buono, Luciano Bianciardi, Ugo Mulas: nessuno sa ancora quale sarà il proprio mestiere, ciascuno segue le proprie «inconsistenti vocazioni» in attesa di un’occasione che le faccia fiorire. Come ricordava lo stesso Tadini, «il bar era una specie di club, ma diventava anche un’occasione di lavoro: tra le tante persone che incontravi, prima o poi qualche idea, qualche lavoretto, saltava fuori»[2]. La dimensione comunitaria affiora in alcuni aneddoti riportati nei primi testi di questa raccolta: le vicende biografiche di Roberto Crippa o Ennio Morlotti aiutano infatti il critico a spiegare il moto di rinnovamento espresso dalla loro produzione artistica. Brera, d’altra parte, è un osservatorio privilegiato per qualunque critico; esagerando un po’, Dario Fo racconta che il quartiere dell’Accademia e del Teatro Piccolo in questi anni è «il più importante crogiolo culturale non solo d’Italia, ma addirittura d’Europa»[3]; vi si incontrano artisti e intellettuali di ogni tipo, rappresentanti tutti di una «generazione di mezzo» chiamata a costituire la spina dorsale dell’Italia agli albori del boom economico. Giovani uomini tra i trenta e i quarant’anni, che hanno affrontato la guerra senza la preparazione ideologica e civile dei fratelli più grandi (i Guttuso, i Pavese, i Vittorini) e che per questo si mostrano più incerti, ma anche più liberi nel momento di far seguire, alla fase di demolizione delle vecchie, repressive impalcature sociali e culturali, una fase di effettiva ricostruzione[4].
Non è un caso, quindi, che gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta siano, in Italia, anni di rimescolamento delle estetiche in campo artistico e letterario: il neorealismo sta lasciando il campo a una proposta di nuova avanguardia radicale e formalista; nelle arti visive, la nuova egemonia americana della pop-art si avvicenda all’espressionismo astratto dell’informale, aprendo tuttavia ampi spazi di manovra nell’ambito di una pittura che intenda rinnovare i presupposti estetici della figurazione. E proprio a questo rinnovamento guarda Tadini quando sceglie gli autori, le mostre o i testi di cui occuparsi. Prima vengono quei maestri che, nelle generazioni precedenti, hanno saputo rappresentare il nuovo, trasformando radicalmente le abitudini di visione e comprensione del reale: nascono così gli articoli dedicati a Pablo Picasso, a George Grosz e più in generale alle avanguardie primonovecentesche (Organicità del reale). Poi, da vero critico militante, Tadini si cimenta con il contemporaneo, provando a tracciare dei sentieri che, a partire da precisi presupposti filosofici, indirizzino l’arte – e il discorso su di essa – verso il futuro, e assumendosi tutti i rischi di fallimento che questo esercizio comporta. Se deve essere critico, Tadini non vuole essere un semplice conservatore della tradizione, né vuole limitarsi, quanto alla stretta contemporaneità, ad assecondare le vulgate critiche. Il suo intento è piuttosto quello di distinguere ciò che è nuovo da ciò che invece appare vacuo esercizio di stile o pretenzioso tentativo di avanguardia. E di nuovo, all’inizio degli anni Sessanta, c’è la cosiddetta Nuova Figurazione, un movimento artistico non omogeneo, e anzi piuttosto ambiguo, ma che sotto la formula semplificatoria – di cui pure Tadini sospetta – riunisce una serie di esperienze plastiche e visive accomunate dal tentativo di risolvere organicamente e narrativamente la struttura dei rapporti tra figura e spazio. Tra gli esponenti di questo eterogeneo fronte ci sono, tra gli altri, Valerio Adami, Gianfranco Pardi, Gianni Dova, Bepi Romagnoni, Alik Cavaliere, amici che Tadini frequenta quotidianamente e che diventano, secondo un processo semplice e naturale, anche «oggetti» della sua attenzione critica (Alik Cavaliere. Giochi proibiti, I «giudizi» di Dova).
In questi stessi anni però Emilio Tadini intraprende anche un suo personale percorso creativo: in letteratura, pur portando avanti una rarefatta ma interessante produzione poetica, si cimenta nella narrativa; in pittura, prima segretamente, poi sotto lo sguardo severo di alcuni amici, dipinge le prime tele. Nel 1960 realizza un breve ciclo intitolato Saggio sul nazismo, la sua prima prova matura: si tratta di una specie di tableau vivant che riproduce una sequenza di scene disposte su piani diversi della tela a comporre un racconto che ha per tema la violenza dell’uomo contro l’uomo, ma anche contro la Natura, secondo una linea che verrà sviluppata nei successivi cicli delle Vacanze inquiete (1965) e del Giardino freddo (1965-1966). Un anno prima, nel 1959, Tadini ha pubblicato su «Inventario» il suo primo racconto, Paesaggio con figure, in cui mette a punto un meccanismo di intersezione di diversi tempi narrativi che troverà piena espressione in Le armi l’amore. Una dimensione narrativa nuova è quindi al centro dell’interesse dello scrittore e dell’artista che, anche in veste di critico, ricerca i caratteri di una pittura di racconto nell’opera dei suoi «colleghi»: il testo di presentazione per la mostra collettiva Possibilità di relazione e il saggio Il tempo e il cuore mettono in evidenza la trasversalità espressiva di questo principio, che tocca in egual misura il campo pittorico e quello letterario. In questi testi, peraltro, Tadini elabora per la prima volta la formula del «realismo integrale», termine di giudizio delle opere altrui e presupposto irrinunciabile per la sua stessa produzione. […]
Una nuova poetica
Per Emilio Tadini la poetica è, come nella definizione data da Anceschi[5], uno schema concettuale utile a misurare varianti e costanti nell’attività di artisti e scrittori che a suo dire condividono un medesimo impulso verso la realtà. La poetica è, cioè, uno strumento operativo efficace per tentare una sintesi parziale e fallibile, esposta ai rivolgimenti dei paradigmi ermeneutici, eppure necessaria perché praticata su un campo statutariamente privo di reti di significazione codificate. In un momento di accesa battaglia culturale, in cui peraltro riviste ed esposizioni collettive offrono preziose occasioni per far convergere diverse linee di ricerca, Tadini sceglie di limitare l’estensione della propria mappatura critica e riduce il campo a poche forze in gioco: al gruppo dei «realisti integrali», in cui si annoverano autori italiani e «fratelli» stranieri, si contrappongono da un lato gli stanchi prosecutori della vecchia tradizione del realismo mimetico, e dall’altro i fautori della «falsa avanguardia», i rappresentanti dell’informale prima e della pop-art dopo, così come i sostenitori della neoavanguardia letteraria, tutti troppo presi da un’ansia metafisica che mal si concilia con il progetto continuamente in progress di un’arte veramente sperimentale.
Per come viene definito nel catalogo di Possibilità di relazione – il primo testo in cui Tadini impiega questa formula – il realismo integrale si fonda su una concezione «organica» della realtà e si manifesta in un tentativo di rappresentare
il valore reale di un personaggio in tutte le implicazioni attive e passive della sua storia, nell’ordine totale dei suoi rapporti con un ambiente naturale e sociale: in tutta la scala delle relazioni che lo fanno vivente, da quelle minime e più evidentemente sensibili a quelle più generali e complesse.
Si tratta di quello che Tadini chiama, a più riprese, un principio di «liberazione della ragione espressiva», la quale non deve più essere condizionata dalle vecchie gerarchie rappresentative tipiche ad esempio del realismo marxista, come la distinzione tra razionale e irrazionale, materiale e spirituale, storia e forma. L’opera d’arte è naturalmente condizionata dalle determinazioni storiche, ma è l’organizzarsi delle sue forme che costituisce il modo effettivo con cui essa entra in relazione con la realtà e con la storia. Le forme devono essere modellate allo scopo di estendere la visione tanto sul piano orizzontale dello spazio, quanto su quello verticale del tempo. E anzi, proprio l’interrelazione tra i due assi della rappresentazione costituisce il cardine della rivoluzione «integralista», che avvince in un unico campo l’espressione letteraria e quella pittorica.
Ciò che permette di aprire la dimensione dello spazio alla profondità del tempo e di estendere enormemente i confini concettuali della rappresentazione è una configurazione «sferica» dell’esperienza da rappresentare, che contraddice quello che Barthes chiamava il «tempo orientato e significativo»[6], ovvero la durata, e che dà centralità al «fatto» inteso come struttura capace di organizzare e orientare il continuo flusso di valori e rapporti. Si tratta cioè di un’intenzione narrativa complessa che, ad esempio nella scrittura letteraria, si traduce in una forte messa in questione della funzione del narratore. Lo stendhaliano specchio che riflette ciò che accade sulla strada del romanzo «non è in grado di cogliere nella sua interezza la vorticante concretezza di un nodo di fatti» (Specchio che pensa); serve una nuova istanza che, nella consapevolezza dell’impossibilità di riprodurre tutto, individui un dispositivo narrativo su cui incardinare i diversi assi spazio-temporali che compongono il racconto: per Joyce fu lo stream of consciousness, per i coetanei La Capria (Ferito a morte, 1961) e del Buono (Né vivere, né morire, 1963) è una prima persona pseudoautobiografica, per Tadini sarà la «voce della Storia» che parla in Le armi l’amore.
Questa intenzione narrativa esercita una funzione altrettanto esplosiva quando viene applicata alla rappresentazione pittorica, che ricorre al racconto quale impalcatura ermeneutica per conciliare una comprensione razionale e una sorta di concettualizzazione intuitiva, spontanea, stimolata dalle forme dipinte. Le linee solide della scultura di Alik Cavaliere, prese in un «drammatico» processo di metamorfosi; il tratto nero del disegno che nelle tele di Adami taglia e ricuce le figure secondo principi di associazione mutuati dalla psicoanalisi; le figure antropomorfe di Bepi Romagnoni, mosse da un alto tasso di emotività, capaci di suggerire senza mai davvero dire: qualunque sia la tecnica compositiva adottata dal singolo interprete, il realismo integrale si traduce in un tentativo di coordinare secondo diverse strategie di «integrazione» una molteplicità di elementi, visibili e invisibili, consci e inconsci, che estendono la concretezza della realtà nello spazio e nel tempo. […]
Una critica soggettiva
Infine, per quel che riguarda lo stile e il tono adottati da Tadini, ciò che salta all’occhio fin dai primi testi è che il registro scelto appare estraneo ai formalismi del linguaggio critico e decisamente disinvolto nel definire la posizione dello scrivente.
È il testo per Nuove prospettive della pittura italiana a rivelarlo chiaramente: «Forse per essere un vero critico d’arte non dovrei parlare in prima persona. Ma in fondo io riconosco di non essere un vero critico d’arte». Quella di Tadini è senza dubbio una critica in prima persona, che rispecchia pienamente la generale «torsione»[7] in senso soggettivistico della critica moderna, ma che risulta particolarmente interessante per i modi e le forme con cui si definisce nel suo caso questa personalizzazione dello stile. Non sono solo il continuo richiamo alla limitatezza dello sguardo dell’«io» e la dichiarazione di modestia che riduce chi parla a «meno di un critico» a rendere riconoscibile la prosa di Tadini, ma anche la rapidità del giudizio, capace di condensare in poche battute un profilo critico efficace e talvolta anche tagliente; la coerenza nell’impiego di un lessico messo alla prova su differenti terreni; l’insistenza su alcuni passaggi argomentativi costanti nella sua riflessione; una complementare istanza digressiva, mirata ad alleggerire la compattezza dell’argomentazione.
Ed è forse quest’ultima la caratteristica più interessante dello stile di Tadini, che all’interno di testi disparati ricorre alla parentesi – posta rigorosamente tra due punti fermi – per ritagliarsi uno spazio in cui divagare, appunto, oppure inaugurare un percorso che corre poi parallelo al testo principale. Le parentesi aprono ampi incisi e danno al complesso testuale una configurazione frastagliata, sensibile a improvvise illuminazioni. Qui si rivela qualcosa della personalità di Tadini, tanto convinto della direzione impressa alla sua ricerca, quanto disponibile a percorrerne altre, a puntellare di forse la propria riflessione. Non si tratta di un segno di incertezza, quanto di una disponibilità all’inversione di rotta e anche di una certa refrattarietà alle verità definitive. L’insofferenza alla metafisica manifestata nei giudizi sull’arte pop o sull’informale si riflette in questo stile a un tempo meditativo e dubitativo, che cerca dei varchi nelle tele, nei testi e nell’elaborazione concettuale, e non appena li trova prova a riempirli con nuove interrogazioni, destinate a loro volta ad aprire nuovi spazi.
È una strana archeologia quella di Tadini, che al «paradigma archeologico» dedicherà importanti tele (dal Museo dell’uomo ad Angelus novus o Profugo) e sul quale costruirà diversi personaggi romanzeschi (su tutti il Prospero della Tempesta): egli non cerca le verità dimenticate dalla Storia, bensì le domande e le interpretazioni che rendono instabili le verità più note. C’è senz’altro il pensiero di Friedrich Nietzsche dietro questo atteggiamento ermeneutico; e il filosofo tedesco, insieme a Freud, sarà al centro delle letture degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, al punto da arrivare a influenzare lo stesso stile di scrittura di Tadini. L’andamento per brevi frammenti, la sospensione aforistica, l’interrogazione e il dubbio come grimaldelli ermeneutici: questi tratti, che appaiono solo per brevi sprazzi nei testi di questa raccolta, raggiungeranno il proprio culmine in quel capolavoro di saggistica umanistica che è La distanza[8], eccentrico trattato sull’antropologia e sull’arte, sulla psicoanalisi e sulla religione. Si può dire allora che le ricorrenti parentesi del discorso costituiscono un primo assaggio dell’atteggiamento da illuminista disincantato (ma mai nichilista o postmodernista) tipico di Tadini, figlio di Nietzsche e Freud, ma anche di Adorno e Benjamin; un atteggiamento che solo apparentemente spezza la riflessione, e che in realtà la proietta su campi ulteriori, e che talvolta apre a una meta-riflessione sul linguaggio, dimostrando l’importanza di verificare sempre la funzionalità dei propri strumenti d’indagine.
Con la sua postura dilettantesca, in parte anche di maniera, Tadini comincia così a coniare quella che sarà la sua cifra di intellettuale eccentrico, aggiornato ma volutamente ai margini della discussione d’attualità, sempre attento ad aggirare le secche della retorica intellettuale, degli stereotipi più ingannevoli – perché meglio ammantati da verità dello spirito –, sornionamente ironico nell’avanzare domande che mettono in crisi i consolidati sistemi di senso che reggono la cultura comune. Qualcosa che appare già in maniera molto chiara in queste pagine, in quella convinta pretesa che l’arte, a qualsiasi latitudine, debba riscoprire la propria missione: agire prima e contro le più invalse abitudini visuali e riattivare la capacità progettante del pensiero.
[1] Si menziona solamente, in questa sede, l’interessante collaborazione condotta lungo tutto il 1954 con «Cinema nuovo», la rivista fondata da Guido Aristarco, che permette a Tadini di cimentarsi, tra le altre cose, con l’innovativo genere del «fotoreportage».
[2] E. Tadini in P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Milano, Baldini & Castoldi, 1993, p. 87.
[3] D. Fo, Emilio Tadini, da poeta a pittore, in Tadini 1960-1985. L’occhio della pittura, a cura di V. Fagone, Milano, Skira-Fondazione Marconi, 2007, p. 9.
[4] Cfr. E.A. Albertoni, E. Antonini, R. Palmieri (a cura di), La generazione degli anni difficili, Bari, Laterza, 1962.
[5] Cfr. L. Anceschi, Schema di una fenomenologia dei generi letterari, in Progetto di una sistematicità dell’arte, Milano, Mursia, 1962.
[6] R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Paris, éditions du Seuil, 1953; trad. it. Il grado zero della scrittura, in Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, Torino, Einaudi, 2003, p. 29.
[7] P.V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 32.
[8] Pubblicato per Einaudi nel 1998, La distanza è un saggio costruito a partire da un’analisi approfondita dei diversi valori del termine «distanza». L’indagine procede ad affrontare le implicazioni di questi significati nel campo della psicanalisi e della teoria dell’arte, così come nei diversi settori dell’espressione artistica (scrittura, fotografia, arti visive), mostrando, attraverso un avanzamento per ipotesi e approssimazioni, come i temi cardine della poetica di Tadini si tengano insieme in un coerente sistema di senso: l’opera d’arte, infatti, si collocherebbe per Tadini nello spazio intermedio che separa l’individuo dalla superficie di una realtà sfuggente, conoscibile solo per via di figura; di qui il valore ermeneutico estremamente importante riconosciuto all’attività artistica.
[Emilio Tadini, L’occhio della pittura]