di Luca Cristiano
[È appena uscito per Transeuropa Crema di vetro. Misura e dismisura nei romanzi di Antonio Moresco di Luca Cristiano. Ne riportiamo, di seguito, la premessa e la conclusione].
I testi maggiori di Antonio Moresco, Gli esordi, Canti del caos e Gli increati, sono stati scritti e pubblicati tra gli anni Ottanta e il 2015. La successione di questi tre libri prospetta un’unità coesa, un unico romanzo. Per la sua composizione è stato elaborato un sistema originale di congegni retorici e strutture narrative. Questa serie di interdipendenze merita di essere esaminata a fondo, perché è costruita con la precisa intenzione di creare relazioni originali tra racconto e conoscenza, rielaborando il rapporto tra complessità e rappresentazione verbale. Moresco ha lavorato soprattutto sulle articolazioni della voce e su una specifica forma di immaginazione anticronometrica, alla quale si adeguano progressivamente tutti gli istituti del racconto. L’oggetto del mio studio è dunque un esperimento di grande portata, che destruttura e ricostruisce il senso stesso dell’atto narrativo. Lavorando su testi così complessi ho prima di tutto provato a chiarire procedure e regolarità di un’opera appena completata, nella convinzione che seguiranno, nel breve quanto nel lungo termine, altre interpretazioni critiche e commenti al testo che potranno giovarsi di ciò che ho fatto. In ciò, vale a dire nell’ipotesi che i testi trattati continueranno a ottenere interesse critico, l’analisi si configura come una proposta e assume, quindi, un carattere di militanza.
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Si sottolinea di continuo, parlando di Moresco, che la sua figura suscita reazioni di adesione entusiasta oppure di rifiuto violento. Nel mio studio ho provato a lasciare che il giudizio di valore si possa dedurre dall’analisi dell’opera. Ciò che il lavoro si propone è prima di tutto mostrare come sono organizzati al suo interno i fatti linguistici, quali sono i procedimenti utilizzati, da cosa dipendono le forme del racconto e quali nessi legano in un quadro unitario i diversi libri.
La serie formata dagli Esordi, dai Canti e dagli Increati, e la sua rete di rimandi, innanzitutto, creano un corpo testuale compatto, fondato sulla sistematicità dei meccanismi figurativi. Questa coesione si mostra almeno su due grandi versanti. Da un lato si costituisce un quadro coerente del mondo e un’ipotesi di narrazione filosofica, cioè si elabora un modello di esistenza. Dall’altro si attinge in maniera originale e metodica agli strati profondi della coscienza, dall’associazione frenetica per analogia alla sincronicità, dall’attrazione per gli archetipi all’emancipazione dal tempo lineare, dalla coincidenza di tutto con tutto all’accessibilità della memoria filogenetica. Ciò che risulta maggiormente degno di nota per quanto riguarda questi aspetti è che siano stati coordinati attraverso ordini retorici e strutture narrative adeguate allo scopo, disposte lucidamente in progressione: il flusso continuo della dizione negli Esordi, i frequenti cambi di prospettiva ed enunciatore da parte di una stessa voce nei Canti, la fusione delle procedure negli Increati, le diverse concatenazioni di serie formulari attraverso tutti e tre i libri. Grazie a questa successione si arriva all’ultima parte del terzo volume, fase estrema della dicibilità in cui si riscrive la Genesi perché si possa ripristinare il silenzio su cui si apre il primo romanzo del ciclo.
Per ultimo, in aggiunta a quanto analizzato nel corpo dello studio, vorrei sottolineare come la capacità di Moresco di elaborare specifiche forme discorsive e coordinarle in un sistema passi anche dall’attraversamento dei modelli, attuato con l’intenzione di creare un’opera ad essi proporzionale che però includa materiali e saperi del presente. Questa è un’attitudine programmatica, come indicano, per esempio, alcuni riferimenti di Lettere a nessuno. Le lettere vere e proprie sono presentate al lettore divise per anni e intervallate da lunghi inserti saggistici, pagine di diario, sogni, frammenti lirici e narrativi. Se si va a leggere la parte datata 1984 (anno nel quale l’autore sta lavorando agli Esordi), si scopre che Moresco prescrive a se stesso una disciplina di lettura adeguata alla formazione di cui sente il bisogno: «in questi anni dovrò stabilire le mie letture con severità infinita, scartare anche ciò che amo, continuare ancora e ancora con gli antichi, intercettare finalmente Dante» (p. 210). Per cogliere davvero il senso della pianificazione, bisogna saltare avanti nel testo fino all’ultima annotazione dell’anno successivo: «La divina Commedia, finalmente!» (p. 220). Conta moltissimo che l’annuncio dell’incontro con la Commedia sia posto in risalto, in corrispondenza della soglia tra un capitolo e l’altro. Negli Increati, infatti, Moresco attualizza l’operazione dantesca dichiarandolo fin dalla prima pagina ed è proprio quest’ultimo volume a rimettere in prospettiva tutti i suoi scritti precedenti.
È altrettanto significativo l’accostamento dei nomi di Beckett e Proust allo schema a cerchi concentrici che definisce la struttura di tutta la sua opera (p. 239), se si pensa a come se ne rovesciano le poetiche. Come spiegato nei capitoli precedenti, nei quali questo passaggio delle Lettere viene citato più volte, negli Esordi il narratore usa l’iterativo per andare in direzione opposta rispetto alla Recherche (dalla veglia al sonno, per così dire) e allo stesso modo l’espansione lirica di Moresco si contrappone volontariamente alla voce claustrofobica e al modello di coscienza compulsiva della Trilogia di Beckett: l’increatore che svanisce perché non resti che l’increazione è il ribaltamento esatto dell’innominabile che non riesce a nascere né a smettere di parlare. Osservando simili premesse alla luce del loro sviluppo si scoprono intuizioni presenti fin dagli appunti preparatori che dimostrano come l’intero percorso abbia scopi precisi già in fase di ideazione: recuperare le grandi ambizioni dei poeti antichi, riscrivere i modelli più recenti, attraversare il Novecento e aprire un conflitto con i suoi scrittori più importanti. C’è poi un intento ulteriore, anch’esso sviluppato progressivamente attraverso l’intero corpus. Si tratta di una sorta di rifondazione dell’atto narrativo, vale a dire dell’invenzione di pratiche attraverso le quali il racconto smette di essere ordinamento dei fatti nel tempo per diventare qualcos’altro, lo strumento dell’increazione. In questa tensione alla metacronia l’agire non si dissolve, ma anzi si moltiplica perché riavviene continuamente. Le versioni alternative, i possibili, non si escludono a vicenda, ma sono tutti coimplicati e sempre in atto. C’è il caos, lo stesso che nelle cosmogonie precede l’atto divino che fonda il cosmo, ma c’è anche il canto. L’ordine del discorso, la misura frasale, le successioni ritmiche permettono alla parola di continuare a inseguire la rappresentazione. Il racconto non si arresta ai limiti del pensiero diurno, ma trova il suo scopo, il suo senso e persino la sua forma proprio in quei territori dove tempo e individuo sono aboliti.
In queste pagine ho cercato di analizzare elementi formali e rapporti perché risultassero chiari i loro nessi sistematici e la coerenza dell’insieme, cioè ho provato a illustrare il complesso di una macchina. I congegni meccanici così come le prassi comunicative rivelano il senso che li anima quando si fa esperienza del loro funzionamento e poi se ne osserva di nuovo la forma.
Fin da quando ho iniziato a leggere i testi di Moresco, cioè circa quindici anni fa, ho avuto la sensazione che stesse cercando di fare con l’arte verbale qualcosa di simile a quello che 2001: a space Odyssey aveva fatto con l’arte cinematografica. Intendo dire comporre un’opera che ridiscutesse i fondamenti del linguaggio in cui si esprime. Spero, adesso, che il mio studio renda chiaro quanto questa frase di Kubrick sia adeguata all’intento realizzato dal mio scrittore: «Quello che vorrei davvero è far esplodere la struttura narrativa del film. Qualcosa che faccia tremare la terra».[1]
[1] Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick, Venezia, Marsilio, 1999, quarta di copertina.
[Immagine: Antonio Moresco]
Non so se, su autori italiani viventi, esistano testi più accurati ed esaurienti di questo. Un prezioso filo di Arianna nel labirinto/Moresco. Da leggere
Non mi piace Moresco, è uno scrittore esclamativo.
“ Lunedì 6 aprile 2015 – Quello che penso stamani, che non è Pasqua ma Pasquetta, come dire una Pasqua più piccola, ma anche più leggera, meno impegnativa, più alla mano, più facile, più allegra, forse, è che Antonio Moresco doveva continuare a scrivere lettere, o comunque doveva continuare a pensarci su. Sul fatto che la letteratura è scrivere lettere, sul fatto che non si sa mai a chi siano indirizzate, sul fatto che non è mai detto che arrivino, causa Poste Italiane o altro, sul fatto che c’è chi, comunque, le lettere non le legge, sul fatto che c’è chi le legge ma non capisce quello che c’è scritto, sul fatto che c’è chi preferisce comunque comunicare de visu, sul fatto che anche chi le scrive spesso pensa che non c’è niente di più palloso che ricevere una lettera, sul fatto che ricevere una lettera fa sempre un po’ paura, cioè che una lettera è sempre un po’ « minatoria », sul fatto che, come si sa, di lettere se ne scrivono sempre meno, anche se, a pensarci, ad andare per strada, sull’autobus, in metropolitana, in ufficio, al cinema, al supermercato, la gente che scrive è sempre di più: con quelle dita magre, grasse, corte, lunghe, bianche, nere, veloci veloci, senza staccare gli occhi dal piccolo aggeggio. È tutto uno scrivere, uno scriversi, sono milioni, miliardi di parole che vanno di qua e di là, da Tizio a Caio, da Caia a Tizia, da Tizia a Sempronia: non si è mai scritto così tanto, ecco la verità. Del resto è anche vero che non si è mai mangiato così tanto, non si è mai cacato così tanto, non si è mai scopato così tanto, non si è mai nato, non si è mai morto così tanto come si nasce/si muore ora. Nel rotondo mondo. “.
L’unica cosa che evinco con chiarezza dal testo di Luca Cristiano è che Moresco era ben deciso a scrivere un capolavoro. Chissà se i suoi modelli del passato sono partiti con questa ferma intenzione.
Grazie, Enrico!
@Elena: provi a vedere se da questo estratto dal primo capitolo del libro trova altro da evincere, se le va: http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article3499
Quanto ai modelli, se si pensa al più noto e facile da rintracciare, cioè Dante, direi che l’intenzione c’era. Questo non cambia nulla nel presente né garantisce possibilità di riuscita, ma rende poco centrata la sua obiezione, credo. Inoltre penso che l’incipit di Canti del caos qualcosa dica, in proposito.
@ Luca Cristiano
Gentile Luca Cristiano, la ringrazio del link. Ho letto l’estratto che ho trovato molto interessante, molto ben fatto e comprensibile anche per me. Mi è parso che esso confermi dottamente l’impressione del lettore e gli fornisca ineccepibili strumenti critici per superare il livello di impressione e avviarsi verso quello di conoscenza senza nulla perdere del primo impatto.
La mia non era un’obiezione, era un’osservazione (poco gentilmente espressa, e me ne scuso), seguita da una domanda non retorica nel senso che io me la sono posta e me la pongo. Aggiungo soltanto, per chiarire, che la consapevolezza di star scrivendo un capolavoro e l’intenzione di scriverlo sono per me due cose diverse, e che la seconda, non so, mi suscita qualche perplessità.
La ringrazio ancora dell’attenzione e le auguro una buona giornata.
Perplessità più che legittima, sarebbe ben strano che non ci fosse.
Grazie a lei!