di Paolo Godani
L’immagine è ciò in cui il passato viene a
convergere con il presente in una costellazione.
Mentre la relazione dell’allora con l’ora è
puramente temporale (continua), la relazione del
passato con il presente è dialettica, a salti
(W. Benjamin, GW I, p. 1229)
Uno dei principi fondamentali dell’etica socratica era quello che in greco si chiama enkrateia. Prima di indicare la continenza o il controllo di sé che alcuni cristiani dei primi secoli, chiamati appunto encratiti, realizzeranno nelle forme di un’ascesi radicale, con questo termine si indicava semplicemente l’attenzione che ognuno deve porre agli avvenimenti della propria vita, per non lasciare che l’esistenza scivoli via, giorno dopo giorno, senza l’accompagnamento della nostra coscienza. Un principio di questo genere si rende necessario proprio perché sentiamo che in ogni momento la nostra esistenza ci sfugge, che la vita continua anche senza di noi, che la nostra presenza a noi stessi è per lo più altalenante, se non saltuaria. Non è solo la sospensione delle giornate nella cadenza del sonno a fare della nostra coscienza un vaso bucato e a rendere necessario un supplemento di veglia e vigilanza, ma anche il ritmo sordo delle abitudini, il tempo ritagliato per le faccende quotidiane, le ore assenti trascorse in autobus e in treno verso il lavoro, per non dire dei momenti vuoti nei quali persino le parole di chi ci è più caro risuonano lontane e insignificanti come il rumore del traffico.
Per porre rimedio a questa nostra distrazione essenziale, è necessario ripetere la vita che si vive in una costante ricerca del tempo perduto – è questo lo scopo primario del cosiddetto “esame di coscienza” stoico, come della Recherche proustiana. Ma anche questa ricerca, che raccoglie e riscrive gli accadimenti di una giornata o di una vita trascorse, non può a sua volta che procedere a strappi, dilungandosi con ostinazione su certi momenti e sorvolando malinconicamente su altri, secondo le intermittenze del cuore e della memoria. Per quanto fitta possa filare la sua tela, nessun narratore-ragno ritroverà mai tutta l’esperienza di una vita. Forse perché, in fondo, la vita stessa è fatta di nodi, grumi, tratti separati.
È anche di questo carattere corpuscolare dell’esistenza che ci parla Autoritratto nello studio. Il libro di Agamben (come quello di René Crevel, Êtes-vous fous, di cui l’autore parla en passant) “non si legge: si compita piuttosto attraverso una serie di ricordi staccati e indimenticabili che emergono da un punto immemoriale al di fuori del tempo” (p. 91). Il fatto è che “i temi della vita sono necessariamente incompiuti, come una melodia o una fuga ininterrotta che aspetta di essere continuata o ripresa […]. Così appaiono ora cose e persone: fissate per sempre nel non poter finire di vederle” (p. 10). Per quanto certi incontri siano letteralmente indimenticabili, anzi proprio per il loro esser là, incisi nella memoria e nel tempo, “è impossibile che entrino completamente nella realtà” (p. 16). È come se la vita effettivamente vissuta portasse con sé un magma di non-vissuto. E non perché ciò che si è realizzato abbia precluso la semplice possibilità di altre esperienze e altri incontri, ma perché proprio il vissuto stesso, così come lo si è realmente vissuto, porta con sé una indeterminazione costitutiva, una virtualità essenzialmente irrealizzata e irrealizzabile, perché “indimenticabile è la vita stessa, in tutte le infinite operazioni che il corpo compie in ogni istante senza che sia possibile averne coscienza né memoria” (p. 97), in tutte le “serate” di cui “non resta ora che una nube di dettagli insignificanti” (p. 39).
Non è un caso che qui la rievocazione degli episodi e degli incontri di una vita avvenga non secondo la linea di una cronologia o il filo continuo di un discorso, ma con la giustapposizione di fotografie vecchie e nuove. I ricordi sono folgorazioni improvvise, mondi condensati in un’immagine che è là, ma sempre come sul punto di sparire – comunque sempre staccata da tutte le altre. Da un’immagine all’altra non si può che saltare, lasciando intatto lo spazio bianco che le separa. Una vita è fatta anche, forse soprattutto, di questo: dell’oblio che taglia la sua apparente continuità, separa i suoi momenti significativi e dissemina inesorabilmente le sue parti. Nessun Apollo si erge a ricomporre le membra disperse di Dioniso.
In questo Autoritratto, in cui l’autore presenta se stesso come un essere epigonale “che si genera solo a partire da altri” (p. 42), ogni immagine rimanda innanzitutto a un nome: al nome proprio di una persona incontrata (da Martin Heidegger a Elsa Morante, passando per José Bergamín, Jean-Luc Nancy, Giorgio Caproni, Ginevra Bompiani, Claudio Rugafiori, Patrizia Cavalli, oppure solo Andrea, Daniel, Emanuele, Guido e molti altri), che è però anche, al contempo, l’indicazione di un essere generico: “una brezza o una nuvola o un sorriso – assolutamente presente, ma mai costretto in un’identità” (p. 60).
È una scelta di poetica, quella che fa propendere Agamben per i “filosofi del nome – capostipite dei quali è Platone: l’idea non è che il ‘nome stesso’ – e i filosofi del discorso, raccolti sotto il patrocinio di Aristotele, che tenacemente privilegia il logos apofantico” (p. 112). Ed è una scelta in favore del pensiero analogico della poesia (“un filosofo che non si pone un problema poetico non è un filosofo”: p. 116), per cui le cose, le persone e gli eventi non si concatenano linearmente tra loro secondo regole logiche, causali o storiche, ma si compongono in complesse costellazioni di tratti disparati, di immagini lontane, senza rapporto precostituito. Proprio di queste costellazioni lo studio è il nome. Lo studio è un luogo virtuale in cui i libri, le fotografie, i ricordi si raccolgono conservando ognuno la propria singolare incomunicabilità e dando luogo, nondimeno, ad una sorta di comunicazione trasversale.
Il luogo in cui lo scrittore è all’opera cambia di volta in volta, con lui si trasferisce da una città all’altra (Roma, Venezia, Parigi), ma resta sempre in realtà “un unico studio, disseminato nello spazio e nel tempo” (p. 117). Troppo ripetibile per poter essere solidale alle coordinate spazio-temporali della sua contingente collocazione, ma al contempo troppo legato a ciò che lo circonda e lo sorregge per essere libero come un’idea, lo studio è un allotropo empirico-trascendentale e, come tale, sta tra la realtà delle cose e quella delle idee. Per questo è “l’immagine della potenza – della potenza di scrivere per lo scrittore, della potenza di dipingere o scolpire per il pittore o lo scultore” (p. 13).
Lo studio è anche il luogo nel quale la vita di chi scrive, dipinge o scolpisce si spersonalizza – non perché in esso sia prodotta l’opera in cui l’autore si scioglierà realizzandosi, ma, al contrario, proprio perché lo studio è il luogo in cui l’opera è ancora in fieri, ancora fluttuante tra il pensiero di chi la progetta e la pratica che la metterà in atto. Per questo lo studio stesso non è mai nel pieno possesso di chi lo abita: “una forma di vita che si mantiene in relazione con una pratica poetica, quale che sia, è sempre nello studio, sempre nel suo studio. (Suo – ma in che modo quel luogo, quella pratica le appartengono? Non è vero piuttosto il contrario – che essa è in balìa del suo studio?” (p.13). Ma lo studio è spersonalizzante in un altro senso ulteriore. Quando la scrittura non è solo un lavoro intellettuale, un esercizio più o meno accademico e erudito, lo studio è il luogo nel quale chi scrive mette in gioco la propria stessa vita, cercando di trasfigurare i suoi contenuti sino a renderli singolarmente impersonali. È tutta la molteplicità disparata degli eventi e degli incontri, delle cose e delle persone di una vita che lo studio raccoglie e, per così dire, irrealizza, tramutando la materia empirica di una biografia, fatta di individui che risultano significativi solo per chi li ha conosciuti, in una commedia di carattere universale.
La perfezione di un’opera come di una vita è impersonale (cfr. p. 53), perché in fondo il bene a cui aspiriamo accade solamente quando di noi – come scrive Agamben citando Nicola Chiaromonte – “di quell’Ego da cui non potremo mai strapparci né mai abiurarlo, non rimane nulla” (p. 29). Ognuno di noi è come il protagonista del Lesabéndio di Scheerbart – opera che tanta rilevanza ha avuto per Walter Benjamin (“il solo autore, scrive Agamben, la cui opera ho voluto, nella misura delle mie forze ma senza riserve, continuare”: p. 103). Ognuno è un Lesabéndio perché ognuno, come lui, può trovare il bene solo dissolvendosi in esso: “il bene è in qualche modo indiscernibile dal nostro annullarci in lui, esso vive solo del sigillo e dell’arabesco che vi segna il nostro scomparire. Per questo non possiamo strapparci da noi né abiurarci. Chi è ‘io, chi siamo ‘noi’? Soltanto questo dileguare, questo trattenere il fiato in qualcosa di più alto, che trae, però, vita e ispirazione da quel nostro fiato sospeso. E nulla è più parlante e inconfondibilmente singolare di quel tacito dileguare, nulla di più commovente di quell’avventuroso sparire” (p. 30).
Autoritratto nello studio è infine una meditazione sul nostro implacabile dileguare, sulla nostra presenza furtiva in questo mondo. Una contemplazione della vita sotto l’aspetto della sua caducità, che questo nostro continuo tramontare lo sa però vedere – ricordando forse ancora Benjamin, che nel Frammento teologico-politico scrive di come la natura sia “messianica per il suo eterno e totale trapassare” – come un eterno tramonto. Anche nello studio di Giorgio Agamben, la vita non si presenta “sub quadam caducitatis specie”, senza l’aggiunta: “e questo solo è eterno” (p. 11); perché, alla fine come all’inizio, nella vecchiaia come nell’infanzia, quando la memoria e l’immaginazione sanno sospendere la distinzione strumentale tra ciò che è qui presente, a portata di mano, e ciò che invece non lo è più o non lo è ancora, accade che la dolente logica dell’esclusione sia scalzata da un’immagine gloriosa della coesistenza. “In questo libro – come nella mia, come in ogni vita – i morti e i vivi sono compresenti, così vicini e esigenti che non è facile comprendere in che misura la presenza degli uni e degli altri sia diversa” (p. 165). La visione sub specie caducitatis non è che la stessa, spinoziana visione sub specie aeternitatis, che ci consente di sentire come “nell’istante eterno in cui siamo in Dio, fra i vivi e i morti non [ci sia] più differenza, noi risorgiamo in loro come essi in noi” (p. 166). I morti e i vivi, come tutte le cose che abitano questo mondo, restano proprio nella loro fragilità, nel loro continuo trapassare e avvicendarsi, ognuno come specchiandosi e così sopravvivendo in ogni altro, ognuno essendo come tutti – modi anonimi e comuni di un’unica natura, fili cangianti di una sola, infinita variazione di colore. Per questo il libro si conclude o si dissolve nel verde più generico e variegato, quello dell’erba: perché “l’erba è Dio. Nell’erba – in Dio – sono tutti coloro che ho amato. Per l’erba e nell’erba e come l’erba ho vissuto e vivrò” (p. 167).
[Immagine: Martin Heidegger e Giorgio Agamben negli anni Sessanta]
“ 15 giugno 1987 – « Il carattere insieme casto e perverso, fantasmatico e cerimoniale di un rapporto amoroso che, pur restando dominato da un ideale di castità, non escludeva il tener, il baizar, l’abrassar, il manejar e implicava, come fase suprema, questa singolare prova (asag) che era la contemplazione della donna nuda. » (Giorgio Agamben, L’erotica dei trovatori, in «Prospettive Settanta», 1, 1975) “.
“Posso ben dire che non mi piace indugiare su me stesso, e il gusto con il quale molta gente contempla le fotografie che la rappresentano in tempi passati, o ricorda quello che ha fatto nel tal posto e quando – tutto questo sistema da Cassa di Risparmio dell’Io – mi è sempre sembrato del tutto incomprensibile.
Non sono particolarmente volubile, né vivo soltanto per il presente; ma quando una cosa è passata è passato anche l’Io di allora, e se mi ricordo di aver fatto spesso, in altri tempi, la strada in cui mi trovo, o se rivedo la mia casa di prima, sento semplicemente, senza tanti pensieri, una specie di dolore, di avversione per me stesso, come se mi ricordassero un atto vergognoso. Ciò che è stato scorre via, quando si cambia, e mi sembra che, in qualunque modo si cambi, non lo si farebbe se colui che si lascia fosse poi così irreprensibile.”
Robert Musil “Il merlo”
un libro bellissimo