di Pierre Senges (trad. di Camilla Diez)

[Pierre Senges, autore soprattutto di romanzi e radiodrammi, ha pubblicato una decina di libri, tra cui Ruines-de-Rome (2002, Prix du deuxième roman), La Réfutation majeure (2004), Sort l’assassin, entre le spectre (2006) o Fragments de Lichtenberg (2008).  Nel 2015 ha ricevuto il Premio Wepler per Achab (séquelles), libera invenzione del seguito di Moby Dick. Senges, che nei prossimi giorni  sarà in Italia per una serie di incontri – il 15 maggio a Palermo, 16 a Rome, il 18 a Firenze – ha scritto per Le parole e le cose una breve riflessione sull’identità europea a partire da una figura d’autore  che per molti aspetti gli somiglia:  l’ungherese Miklós Szentkuthy, “manierista enciclopedico”].

Dare uno sguardo all’Europa del primo dopoguerra così come ci appare nei testi ci aiuterà a ridefinirla e a ritrovare il suo volto perduto? Ci aiuterà a giocare con frontiere mobili, nella speranza di riappropriarci di una libertà geografica prossima alla scomparsa? Nella speranza di imparare di nuovo la frivolezza e di relativizzare l’identità degli Stati-nazione, chiusa a doppia mandata, considerandola con la stessa indifferenza del conquistatore, del barbaro invasore e dell’artista futurista un po’ pagliaccio? O forse, invece, se le diamo uno sguardo è per riesumare come un archeologo le speranze degli “anni folli”, per prenderli a modello e ridecifrarli come si decifra il niente di nuovo sotto il sole del Qoelet al fine di ridargli un soffio di vita? O magari per constatare i disastri passati, presenti e futuri e, tenendo conto di tutti i vecchi campi di battaglia, le cortine di ferro, i muri del Cremlino, i decreti e le psicologie delle masse, ritenerci tutto sommato relativamente felici, di questi tempi in cui le minacce, invece di persistere, sembrano succedersi una dopo l’altra. O forse il motivo è ancora un altro: cercare in alcuni libri l’Europa degli anni Venti e Trenta, tentare di dedurla dai diari intimi, dalle corrispondenze e dai romanzi-fiume, equivarrebbe a dedurre l’impero romano del V secolo dall’opera di Sant’Agostino, dalle Confessioni, dalla Città di Dio e dalle diatribe contro i Pelagiani, equivarrebbe cioè a tentare di ricostituire un mondo nel momento presunto della sua scomparsa, come se fosse consapevole di essere sul punto di scomparire e potesse, a distanza di tempo, offrirci la sua lucidità, farci riflettere osservando le linee chiare, i contorni marcati della città nella luce radente della fine del mondo, osservando le intimità svelate dal crollo dei muri degli edifici, le convinzioni ribadite con forza e a voce alta perché credute minacciate, le angosce profonde rivelate nel momento della crisi, i desideri tenuti segreti e traditi davanti alla morte imminente. Ci immaginiamo i vecchi romani nostalgici della Repubblica venire a svelarci spontaneamente dove hanno sotterrato il loro tesoro, un vero tesoro morale e materiale: monete d’oro da salvare con urgenza prima della prossima eruzione del Vesuvio.

Miklós Szentkuthy, l’orco di Budapest, può farci da guida attraverso l’Europa antica e rococò, manierista e monastica, euclidea e barocca, l’Europa pagana e cattolica, sensibile al vento venuto dall’Estremo Oriente così come alle fiabe fantastiche e sensuali dell’Arabia Felice. Szentkuthy non ha soltanto frequentato l’opera di Sant’Agostino (ossia l’ha annotata, così come ha commentato quella di Giacomo Casanova e scarabocchiato a margine dei numeri di «Vogue»), ma è stato per tutta la vita al suo posto di vedetta nel cuore di un’Europa attraversata in una direzione dai barbari, nell’altra dagli Asburgo, e più tardi ancora da truppe nere e poi da carri armati con i cannoni puntati verso il basso. Non sappiamo quasi nulla del suo diario conservato al Museo Letterario Petőfi, e ci mancano ancora cento o duecentomila pagine di scritti, ma le sue opere tradotte in francese nell’ultimo quarto di secolo ci permettono di scoprire ritratti, paesaggi e panorami d’Europa tracciati da uno dei suoi abitanti più bulimici, quello che desiderava “vedere tutto, leggere tutto, pensare tutto, sognare tutto, divorare tutto”. Se le sue biografie di Mozart, Bach e Goethe vanno lette come autoritratti in maschera, i nove volumi del Szent Orpheus breviáriuma (Breviario di Sant’Orfeo) potrebbero essere considerati come vedute dell’Europa nei suoi diversi travestimenti, cioè nei diversi aspetti e nelle diverse epoche, ricostruite ad hoc nell’atelier del pittore così come si ricostruisce Roma negli studi di Cinecittà.

Costretto, come altri colleghi, ad adottare la strategia dell’esilio interiore, Szentkuthy ha voluto compensare il sedentarismo spaziale (Budapest 1908 / Budapest 1988) con il nomadismo temporale: diventando cittadino del Tempo (per riprendere il sottotitolo delle sue memorie), facendo largo uso di anacronismi, passando da Caracalla a Danielle Darrieux, da Putifarre a Rilke e Max Planck, considerando il presente come un’ipotesi in attesa di essere confutata e cercando altrove, fino in Cina, le diverse Europe che l’Europa può essere stata o potrebbe ancora diventare, sempre che si ipotizzi l’esistenza futura di un gran numero di secoli e di biblioteche. In uno dei volumi del suo Breviario giudiziosamente intitolato Europa Minor, Miklós Szentkuthy ci ricorda: «La radice e l’essenza delle grandi culture si trovano sempre altrove: quelle dell’Ellade in Persia, quelle della Cina in India, quelle di Roma nell’Ellade – in un gioco eterno». Attribuendo a Elisabetta Tudor la volontà di fondare il Rinascimento europeo sul modello dell’Asia (quella del Genji) e non sul modello di Roma, Szentkuthy trasforma in un titolo di gloria ciò che per i suoi censori (lo Stato ungherese, il regime di Horthy) era un’accusa infamante: il cosmopolitismo. Nel momento in cui l’Ungheria ci tiene a essere ungherese, l’Inghilterra inglese e la Francia francese, andare a cercare sempre altrove i nostri specchi per vederci deformati non è un semplice sogno romantico, ma è un mezzo per contraddire equivalenze grossolane, ed è l’unico modo di fare letteratura nell’epoca delle tautologie.

 

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