di Luca Lenzini
[Nel 2017 ricorre il centenario della nascita di Franco Fortini. Sono previsti convegni a Roma, Varsavia, Milano, Torino e Siena. Oggi, all’Università Roma Tre, si tiene il primo, Attraverso Fortini. Poesia Educazione Mondo. Questa è la relazione di Luca Lenzini].
Una poesia di Fortini s’intitola Parabola, e così recita:
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
L’autore di questi versi aveva più o meno l’età che per Dante segnava la metà del cammino: da allora è passato più di mezzo secolo, e Fortini è scomparso da oltre vent’anni. Possiamo chiederci, perciò, a una distanza così ampia da quel tempo, se la «sorte» prefigurata in Parabola si è, negli anni, rivelata profetica e veritiera, o invece è stata smentita, almeno per quanto riguarda il destino dell’opera fortiniana nel complesso, la sua ricezione ai nostri giorni.
In margine al dattiloscritto con questi versi inviatogli da Fortini nel 1951, Eugenio Montale annotò: «Speriamo di no.» Il fatto che in occasione del Centenario della nascita di Fortini si tengano sei convegni, a giro per l’Italia e l’Europa, sembra di per sé una risposta all’augurio di Montale: l’attenzione per Fortini, nell’ambito degli studi universitari, è sicuramente aumentata, sia qualitativamente sia quantitativamente; e soprattutto, da questa nuova attenzione è venuto sempre più a fuoco il profilo di un poeta tra i maggiori del suo tempo (tempo che di poeti importanti, in Italia, ne ha avuti pur molti). In questo senso, lo sfasamento e l’incompiutezza di cui parla Parabola, con la discrepanza temporale che evoca, sembrano oggi proporci un risvolto positivo, come se la poesia fortiniana avesse avuto bisogno di tempi lunghi, di un differimento, per trovare i propri interlocutori; e aveva quindi ragione l’autore di quei versi a dirsi “fuori tempo”, non sincronizzato con le stagioni correnti, in qualche modo dissonante, acerbo, dislocato, insomma un outcast non riportabile a misure e parametri pienamente contemporanei, tutto al di qua da un compimento. Del resto, un critico acuto come Roberto Galaverni, nel 2014, quando fu pubblicato il volume degli Oscar Mondadori che raccoglie l’intera sua opera poetica (tranne gli epigrammi, già presenti nel Meridiano del 2003, Saggi ed epigrammi), ebbe a scrivere:
La poesia di Franco Fortini non ha mai avuto il suo tempo. Non l’ha avuto lungo il corso della vita del poeta, e non l’ha nemmeno oggi, a vent’anni dalla sua scomparsa. Il tempo atteso, promesso, scommesso da questa poesia potrebbe anche non venire mai. Certo è che l’adempimento dell’utopia rivoluzionaria appare oggi, se mai possibile, anche più arduo e lontano di quanto non apparisse a Fortini, che pure già lo poneva dietro la curva delle cose visibili. Ma il fatto è che il suo verso vive proprio dell’essere in discontinuità col presente, fuori tempo, perfino al di là della storia. L’anacronismo coincide con la vitalità, con la presenza stessa dell’opera poetica di Fortini. Ne costituisce, in sostanza, la giustificazione. Così, se non è mai il tempo della sua poesia, è però sempre il tempo per la sua poesia. Questo è il suo paradosso originario, e non può essere sciolto.
In questa prospettiva la Parabola del ’53 potrebbe essere addirittura assunta a emblema distintivo della poesia fortiniana, come se ne identificasse il destino e insieme la paradossale e fondante vitalità: un dato per così dire ne varietur, una condizione essenziale, assoluta. Certo è che Parabola propone un tema allegorico, quello dello “scarto” e del non-riconoscimento, che con le sue risonanze bibliche percorre l’intera opera poetica (e non solo quella) di Fortini, e fa da pendant al tema dell’esilio, che da La città nemica (in Foglio di via, 1946) a Transi hospes (in Composita solvantur, 1994) fornisce ai frammenti delle raccolte una cornice comune, tale da orientare il lettore nel percorso semantico – tutt’altro che piano e senza asprezze – dell’insieme, individuandone il soggetto; ma in ogni caso, si accetti o meno la tesi di Galaverni, va ricordato che essa si riferisce espressamente alla poesia: e tutto il resto? Tutto il resto: contando solo il pubblicato in vita, si tratta di tredici volumi di saggi, una trentina di opere tradotte (tra cui Brecht, Goethe, Proust, Eluard, Kafka, Simone Weil) e di un numero sterminato di articoli consegnati a riviste e quotidiani. La nozione di “fuori tempo” si può, si deve applicare anche all’autore di queste scritture?
Nel 1992, due anni prima della morte, Fortini redasse una breve “voce” dell’Autodizionario degli scrittori italiani curato da Felice Piemontese. La voce “Fortini” scritta da Fortini ha anche un sottotitolo: Per una piccola enciclopedia della letteratura italiana, anno 2029. Egli non declinava al presente, quindi, la sintesi del proprio operare, ma ne proiettava la ricezione in un futuro distante oltre un trentennio, lo spazio di almeno due generazioni; un tempo prossimo al nostro, ormai. In quella pagina di Enciclopedia, dove si parla del saggista e dell’intellettuale militante, si legge:
La maggior parte delle prose polemiche e politiche (di grande interesse documentario) sono indubbiamente invecchiate. Non così talune prove narrative e alcune scritture autobiografiche e critiche. Spenta la controversia e lontana dall’applauso come dalla denigrazione, spogliata dalle interpretazioni psicologistiche, dell’opera di F. il nostro tempo considera soprattutto il significato degli scritti poetici.
In effetti, qui Fortini sembra anticipare l’andamento della ricezione della propria opera, quale adombravo all’inizio; e il fatto che lo facesse con una buona dose di autoironia non toglie peso e significato alle sue parole – né rispetto a sé, né in rapporto al quadro della critica. Sicché si potrebbe dire che se questo è oggi il quadro verificabile della ricezione, proprio dove massimo era l’impegno di Fortini nel decifrare il proprio tempo, nel criticare le mode o nell’interpretare i propri contemporanei, là egli appare oggi – con qualche marginale eccezione – più lontano e meno intellegibile, secondo un processo largamente condiviso con altri autori novecenteschi: è questo l’invecchiamento di cui parla l’Enciclopedia. Eppure, se tale è la risposta più immediata alla nostra domanda, non è però così scontato che dobbiamo prendere alla lettera quell’auto-coccodrillo consegnato ai lettori novecenteschi in attesa di interpreti venturi e più attenti. L’ironia fortiniana potrebbe magari consistere, in questo caso, in una forma di finta adesione alle parole d’ordine vigenti, in base alla quali è solo all’ultimo prodotto dell’industria culturale che dobbiamo guardare, e quanto al passato è più che sufficiente museificarlo o dimenticarlo del tutto (che è poi più o meno lo stesso), specie se ha a che fare con i turbolenti sommovimenti del “secolo breve”, la notte dei totalitarismi e delle sanguinose utopie dal cui incubo siamo trionfalmente usciti, liberandoci della Storia stessa, verso la fine del Novecento. A questo proposito e senza commenti rammenterò che le ultime parole pubbliche di Fortini, nel novembre ’94, pochi giorni prima di morire, furono: «vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete.»
All’invecchiamento non è dato a nessuno sfuggire. Ed è anche vero che la poesia vive in una dimensione distinta dall’agone saggistico e dalle cronache minute. Tuttavia, quanto a dimenticare Fortini, non mi pare sia il caso di accogliere l’invito, neanche per la parte dell’opera più intrisa dei veleni e dei sogni dell’epoca sua. Del resto, all’oblío ci pensa già egregiamente la stessa industria culturale, che insieme a mitologie di facile spaccio ripete, nel suo caso, due o tre stereotipi che hanno proprio questo scopo, farlo dimenticare. Non ci sono riusciti, e non ci riusciranno: l’anno scorso è stata pubblicata una bella edizione inglese di Verifica dei poteri (A Test of Powers, Seagull Books, per cura di Alberto Toscano), e in precedenza quella dei Cani del Sinai (The Dogs of Sinai, stesso editore e stesso curatore), quest’anno si annuncia la traduzione francese di una scelta di saggi (editore Nous, curatore Andrea Cavazzini); e poi, lo stesso Fortini non ha mancato di lasciare indicazioni e riflessioni utili a orientarci, quasi istruzioni per l’uso del suo sconfinato lavoro, ma anche sollecitazioni per discutere al presente il nostro luogo come “operatori della cultura” (sia che siamo insegnanti o addetti dell’industria culturale, precari o “co-workers”). Non gli dobbiamo, allora, almeno una parte della lucidità con cui ha lavorato per noi e per i posteri?
Se rileggiamo, per esempio, la Prefazione alla ristampa del 1974 di Dieci inverni, il primo libro di saggi di Fortini (prima edizione 1957) vi leggiamo una significativa rivendicazione, su cui altre volte ho avuto modo d’insistere: dichiara qui Fortini, infatti, l’essere il libro del ’57 (anno che rappresenta uno dei valichi del secolo, almeno per noi europei e cosiddetti “occidentali”), «uno dei tanti che almeno dall’età giacobina hanno in Europa chiamato a resistenza e rigore (o si dica alle virtù civili) una parte del ceto intellettuale medio e piccolo borghese». Quel libro, che presto sarà ristampato, lui già lo vedeva dentro una precisa tradizione, storicizzabile in un contesto con ascisse e coordinate definite e circoscritte. Ebbene, una dichiarazione del genere non sembra inchiodare non solo Dieci inverni ma anche i libri successivi (Verifica dei poteri, 1965; Questioni di frontiera, 1977; Insistenze, 1985; Extrema ratio, 1990) ad un periodo storico definitivamente concluso, non meno dell’«età giacobina»? Non solo la trasformazione o meglio liquidazione del ceto a cui egli faceva riferimento nella Prefazione (ed a cui apparteneva), ma il mutare della funzione della cultura all’interno della società – quindi degli stessi istituti destinati a trasmetterla e incentivarla, dalla scuola all’università, dalle riviste ai media fino alla stessa forma materiale del libro – sembrano decretare la fine di quella tradizione. Né basta dir questo: perché mutata nel profondo, con il mutare della società, è la stessa cornice della democrazia in cui possono esercitarsi le «virtù civili» di cui discorreva Fortini, se è vero che siamo dentro un orizzonte storico che non ha più niente in comune (se non in apparenza) con quello in cui Habermas, negli anni Sessanta, poteva situare il formarsi della “opinione pubblica” (Storia e critica dell’opinione pubblica, 1962). Quel luogo è defunto, e tutto lascia pensare che in quelle forme non potrà più ripresentarsi: non c’è giorno, del resto, che qualcuno in qualche talk-show non ce lo dimostri, o ce lo ricordi con un twit o un post; dunque via libera ai neo-populismi e ai cinismi di ogni genere e misura, e finalmente senza arcaici rimorsi; quanto alle virtù civili, esistono associazioni ad hoc che possiamo finanziare con un sms o con il cinque per mille.
Sì, certo: le scritture saggistiche di Fortini, con il loro andamento ellittico, le citazioni implicite ed esplicite, l’attenta struttura retorica, il ragionare ora piano ora aspro e incalzante, rinviano ad un tempo e a degli interlocutori che non esistono più, se non nella forma di triste parodie. Ad ogni passaggio d’epoca, del resto, avviene così. Molti dei riferimenti al contesto storico ci sfuggono, l’ambito delle argomentazioni e dei dibattiti in cui esse s’inserivano appaiono sempre più sfocati e distanti, il “genere” stesso delle dispute saggistiche o a colpi di epigrammi è tramontato. Non per questo, tuttavia, quelle scritture rappresentano solo casi da studiare sotto il profilo stilistico o sociologico, per almeno due ragioni (sul «grande valore documentario» bisognerà poi intendersi, senza ironie).
In primo luogo, bisogna fare attenzione a non passare da questo genere di considerazioni sul passato remoto o prossimo ad una rimozione delle istanze che muovevano uno scrittore come Fortini, e molti altri come lui, a esercitare le proprie capacità e i propri strumenti nei confronti dei luoghi, degli istituti, delle forme dell’agire e del sapere del proprio tempo, a loro volta incarnate in libri, opere, parole pubbliche e private. La recente e quasi ossessiva insistenza sull’esaurimento della funzione dell’intellettuale “novecentesco” molto spesso nasconde nient’altro, alla fine, che l’intenzione di liberarsi una volta per tutte della critica e della ricerca (autonoma e demistificante) della verità, riconducendo l’una e l’altra ad una forma di risentimento, una deriva del rancore sociale che sarebbe propria dei losers. «Dire la verità», invece, è per l’appunto il compito che, nell’anno in cui moriva Fortini, Edward Said affidava all’intellettuale (Representations of the Intellectual, 1994); e lo faceva con dei precisi riferimenti all’ingiustizia sociale, alle discriminazioni e alle guerre dei potenti e alle loro mistificazioni. Il pensiero critico, la “dissonanza” – per usare un termine che ricorre sia in Adorno che in Said – è in realtà posto al bando con ferrea determinazione da quanti intendono perseguire la compiuta “aziendalizzazione” del mondo, la riduzione di ogni movente alla ratio economica e strumentale, la separazione dei saperi e l’identificazione del Progresso con gli sviluppi della Tecnologia. Il tempo diventa così una funzione del dominio e lo stesso linguaggio è permeato da stereotipi che veicolano l’ideologia imperante. E poiché tutto ciò è sotto gli occhi di tutti, gli occhi di tutti debbono vedere ma non capire, e per questo occorre un coprifuoco permanente che confischi la coscienza critica, la spinga all’autocensura, ad uno stato di confusione e inazione, o alimenti una rabbia sorda ed egocentrica, figlia dell’impotenza; un gioco a cui i media si prestano con entusiasmo, senza bisogno di oscuri complotti ma per così dire all’aperto, in piena luce e in perfetta, naturale sincronia con i tempi. Ma proprio per questo, una lezione di «resistenza e rigore» è non solo utile bensì necessaria.
Su questo piano, come dicevo, la lezione di Fortini fa parte del lascito di tutta una tradizione di pensatori e scrittori (la indicava Hanna Arendt in una nota pagina di La tradizione e l’età moderna) che oggi va riletta e ripensata alla luce del presente, con la certezza che la narcosi e il solipsismo di massa consentono e accompagnano il perpetuarsi e l’approfondirsi dell’ingiustizia. Un secondo motivo, anch’esso strettamente legato alla storia in atto, è che oggi quella tradizione, che è sempre stata a rischio di essere rimossa, banalizzata o fraintesa, è interdetta proprio in quanto inscindibile dalla nozione di modernità, quindi dall’idea di libertà e di emancipazione: cioè precisamente il legame che l’epoca post-moderna ha inteso rescindere, restaurando le “immutabili” leggi di natura che ribadiscono l’homo homini lupus, la guerra permanente, la revoca dell’uguaglianza e tutto il fasto neofeudale che accompagna l’era del Dopo-Storia. L’intero arco secolare che va dal 1848 agli anni ’70 del Novecento deve perciò intendersi come una parentesi, una deviazione, e anche l’Illuminismo va bene solo per certi ambienti cosmopoliti e metropolitani, dove c’è il tempo di discutere di queste cose e relative dialettiche. Per questo l’appello conclusivo di Composita solvantur, «proteggete le nostre verità», non può non toccare le coscienze, e non è per la pietas dovuta a uno scomparso che resta un punto essenziale all’ordine dal giorno, declinato com’è al plurale: nostre, non mie. Ma attenzione: la nostalgia per il bel tempo che fu, per un passato immune dai guasti del presente, è del tutto estranea a questo filone di pensiero, e forse alla stessa natura del saggio: l’utopia proiettata nel passato è qualcosa d’inconcepibile, d’infondato per chi ne adotti lo spirito indocile e inconciliato, anche se talora è successo che proiezioni del genere siano state il movente di rivolte e sommosse (come disse Raymond Williams a proposito dell’idea della “società organica” abitata dal Buon Selvaggio, l’unico fatto certo è che essa è già sempre finita). Ed altrettanto distante da quello spirito è una nozione astratta di utopia, quale siamo incoraggiati a coltivare dalla cultura dell’intrattenimento: una utopia liofilizzata, relegata in un futuro tanto remoto quanto indefinito, appannaggio di poeti fantasiosi e svagati filosofi. C’è invece una utopia concreta, calata nei giorni dell’esistenza, incorporata nella stessa scrittura, ancorata a un pensiero che non si arrende: ed è quella che organizza le pagine di Dieci inverni come di Extrema ratio. È innanzitutto questa, intimamente legata a una rischiosa speranza, che dobbiamo tenerci. La chiusa di Attraverso Pasolini, l’ultimo grande saggio di Fortini, è infine questa: «tutto muta e tutto è ancora possibile.»
Riferimenti bibliografici essenziali
Franco Fortini, Parabola, in Poesia e errore (in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2014); Id., Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003; Id., Discorso per il conferimento del Premio Montale-Guggenheim, Milano 1985, in Indici per Fortini, a cura di Carlo Fini et al., Firenze, Le Monnier, 1989; Roberto Galaverni, Franco Fortini, un utopista civile estraneo alle seduzioni del tempo, «Corriere della Sera», 14 novembre 2014; Autodizionario degli scrittori italiani a cura di Felice Piemontese, Milano, Leonardo Editore, 1992; Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1962; F. Fortini, Cari nemici, in Disobbedienze, II: Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma, Manifestolibri, 1996; Id., Dieci inverni, Bari, De Donato, 1974; Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991; Raymond Williams, The Country and the City, London, Chatto & Windus, 1973; F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.
[Immagine: Gerhard Richter, Florenz].
“ Mercoledì 13 agosto 1997 – Vent’anni fa – sono sempre più di vent’anni – scrissi a Fortini – l’avevo appena conosciuto – una specie di poesia nella quale una specie di verso suonava: « Se uscirai ti aspetto ». Fortini, incoraggiato dalla bruttezza del testo nonché da una sua certa congenita suscettibilità, mi rispose dicendo fra l’altro che quel « Se uscirai ti aspetto » gli suonava come un « Ti aspetto fuori », minaccioso comune modo di dire dei litigiosi anni di scuola. Ma, per rispetto della verità dei fatti, quello che io allora intendevo dire era soltanto che ero stato « fuori », che mi sentivo ancora « fuori », dolorosamente « fuori », da quel « dentro » nel quale avevo appena tentato di tornare: la mia città, la mia casa, la mia famiglia, la mia storia, la letteratura, che era qualcosa che, nonostante tutto, avevo continuato a considerare mia. Poi gli anni sono passati, molti sono restati « fuori » e altrettanti « dentro », molti sono finiti « dentro » e fra questi, in un certo senso, anche io, ma solo dopo aver dovuto andare « fuori » ancora una volta. Cosicché se, da quel « dentro » nel « fuori », da quel « fuori » che è un « dentro » nel quale ora risiedo, dovessi dire qualcosa a qualcuno – non a Fortini perché lui non c’è più: sarà « dentro »? sarà « fuori »? – non saprei bene che dire se non che lo aspetto, da qualche parte, che aspetto, continuo a aspettare. “.
«tutto muta e tutto è ancora possibile.»
CATASTROFE, FINE DI UN’EPOCA, POSSIBILITÀ DI UN’ALTERNATIVA RADICALE. TRE SPUNTI
1.
Anonimo
Caro Ennio,
[…] ormai siamo tutti sull’orlo del baratro, non solo quello della scomparsa individuale, ma della catastrofe di una civiltà. Noi, va bene, siamo stati sconfitti, ma il mondo che ha vinto sta rovinosamente precipitando forse anche a causa di quella sua vittoria.
*
Caro…
una volta ho scritto questi versi:
Allora, le nostre fragili parole
piene di un lontano sociale
già precipitavano in minoritaria lucidità,
ma resistevano ancora, mentre precipitavano.
Ecco, pur condividendo il pessimismo impostoci dalla sconfitta, sono portato a resistere anche alla “catastrofe”. Non so quanto tu abbia voglia di confrontarti con me su questioni (ultime o penultime), ma, replicando alla tentazione nichilista che colgo nelle tue parole, mi sento di scuoterti da essa e chiederti: ma in cosa consiste questa «catastrofe di una civiltà»? se ne può parlare fuori di metafora in termini storici e politici, come pur tentano di fare quei pochi marxisti o ex marxisti che dalla “nostra” storia provengono? non siamo più in grado di tenere distinta l’angoscia per la nostra più o meno prossima «scomparsa individuale» dal disorientamento o annebbiamento di una realtà che, sì, ha deluso tutte le nostre speranze, mostrato crudamente la povertà dei nostri progetti, ma che, se ci sfugge, non è immobile (anzi…) e non è detto dove porterà almeno gli altri, quelli che vivranno dopo di noi?
E poi noi, certo, siamo vecchi, ma non ancora morti. […]
Un caro saluto
Ennio
2.
Gianfranco la Grassa
Mettiamoci in testa che è veramente finita un’epoca e siamo al passaggio in un’altra che ancora non conosciamo bene; almeno non vedo nessuno in grado di dire qualcosa di sensato in merito. Sia chiaro che nemmeno io – di vecchia generazione come sono – so come districarmi dal cumulo di eventi contrapposti che si verificano. Tuttavia, lo ammetto e sostengo che il compito dei “veci” è di pensare meglio i caratteri dell’epoca ormai trapassata e di mettere in luce, per quanto possibile, gli errori commessi, il cumulo di credenze ideologiche ormai dissoltesi portando allo sfacelo culturale odierno. Nuove generazioni devono avanzare infine. Non urlando di entusiasmo per finti rinnovatori come questo Macron o altri dello stesso genere; ma nemmeno inveendo contro di lui con parole d’ordine ammuffite quant’altre mai. Perché allora questi giovincelli mostrano di essere ormai intossicati da quel veleno e non riusciranno mai a capire i connotati della nuova epoca; saranno solo capaci di impadronirsi delle innovazioni tecniche, che non sono quelle utili a ricostruire un tessuto sociale più vivibile e adatto a resistere nel futuro ormai dietro l’angolo.
Ricordiamoci comunque una cosetta ancora. Quando si verificano questi trapassi d’epoca, sembra – ai più coscienti di quanto sta avvenendo – che tutto stia crollando, che sia quasi la fine del mondo. In genere, almeno finora, non è mai accaduto. Un’epoca passa, una tormentosa transizione viene compiuta e infine ci si trova in una sorta di “nuova era”, in cui i più vecchi si sentono certamente assai a disagio. Tuttavia, il mondo non è finito e ricomincia un altro e diverso ciclo che poi terminerà come tutti gli altri già trascorsi.
(da http://www.conflittiestrategie.it/qualche-cosetta-ancora-di…)
3
Leonard Mazzone
Dopo i tentativi speculativi e politici di coniugare libertà universale e necessità storica, gli scenari apocalittici catturati dalla diagnosi canettiana ci consegnano la possibilità di un’alternativa radicale quanto ineludibile: la sola possibilità di autoconservazione delle generazioni future consiste nella capacità dei contemporanei di declinare il rapporto tra vita propria e quella altrui diversamente da una relazione parassitaria di sopravvivenza[20]. Di fronte alla possibile scomparsa del mondo, l’umanità può sopravvivere solo rinunciando a sopra-vivere; reimparando, cioè, l’arte di convivere con i propri pari, riscoprendo il piacere più caratteristico che le sia dato esperire fin dalle sue origini: la metamorfosi. […] Anziché limitarsi a fuggire, l’uomo ha però imparato ad affrontare il pericolo: il “no” pronunciato dalle attuali masse del divieto [l’autore si riferisce al «divieto formale di ingresso all’interno dei confini delle cosiddette fortezze occidentali della ricchezza globale»] rappresenta il solo lascito ancora universalmente comprensibile a ogni preda umana inseguita, braccata o anche solo isolata dal resto del branco per la sua condizione subalterna, sia essa dovuta alla sua appartenenza di classe, etnica, razziale, di genere o al suo orientamento sessuale. Lungi dal voler conservare l’esistente in quanto tale, questa sillaba diventa rivoluzionaria quando è collettivamente pronunciata e schierata contro le forme più o meno palesi di sopravvivenza, presenti e future. Com’è lo stesso Canetti a suggerire in uno dei suoi innumerevoli appunti, questa sillaba veicola la possibilità di riscoprire e praticare la capacità umana di metamorfosi e, quindi, di trasgredire i suoi divieti istituzionalizzati squarciando il velo di ogni presunta necessità storica[21]:
Il mondo è entrato in frenetico movimento. Simili accelerazioni le conosciamo in quanto derivanti da guerre e rivoluzioni. Ma quello di adesso è un movimento in sé, prima o in assenza di guerre, e anche le rivoluzioni hanno assunto molteplici aspetti e significati. Si tratta di movimenti di massa la cui nuova dinamica nessuno ha ancora penetrato a fondo; per questo sono difficili da capire e i loro segni premonitori cambiano di continuo. Ci si pronuncia in favore di questi movimenti in quanto essi sciolgono situazioni da tempo irrigidite, uno che non li approvasse sarebbe considerato un fossile. Nessuno tuttavia è in grado di dire quale sarà il loro esito. Una cosa è sotto gli occhi di tutti ed è incontrovertibile: non esiste una storia della quale si possa prevedere l’andamento. La storia è sempre aperta. Nessuno agisce nel senso della storia perché nessuno conosce questo senso. È probabile che esso non esista. Ciò significherebbe che la storia, nella sua apertura, è sempre influenzabile, e dunque per così dire nelle nostre mani. Forse queste mani sono troppo fiacche per orientarla in qualche modo. Ma poiché non sappiamo neanche questo, è nostro dovere provarci[22].
( da http://www.leparoleelecose.it/?p=27430#more-27430)
[20] Cfr. L. Mazzone, Il mondo alle nostre spalle, in E. Donaggio (a cura di), C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi, Milano, Mimesis, pp. 59-73.
[21] Cfr. R. Escobar, La paura del laico, Bologna, il Mulino, p. 89, dove viene riportata la seguente riflessione di Zigmunt Bauman: «cose e azioni possono essere diverse da quelle che sono. Si potrebbe dire che ciò dipenda dalla particella “no” presente in tutte le lingue che gli esseri umani impiegano per trasformare il mondo».
“ Mercoledì 31 gennaio 1996 – Forse, se Fortini fosse ancora vivo, potrei parlare con lui di quello che a quanto pare è il tema del giorno: giornalismo e letteratura, potrei tentare di parlarne perché, comunque fosse, Fortini non era, misiperdonilespressione, un pollo di allevamento, lui che ricordava sempre quel suo slogan dei tempi della Olivetti: leggera come una sillaba, lui che sapeva come si fa a scrivere, cioè che scrivere è facile ma anche difficile, ma anche facile, cioè divertente, sì, proprio lui, che magari sarebbe venuto a parlarne all’Enoteca Italica, dove forse avrebbe parlato un po’ meno lui, e io, bevendo, avrei trovato il coraggio di mettere insieme qualcosa come un discorso, sul giornalismo, sulla letteratura – c’era in Fortini una tenerezza che nel ricordo si confonde con quella del babbo, o del professor Paciotti, che nessuno sa chi sia ma Cesare Viviani lo sa, una tenerezza e una fermezza, una fermezza tenera di donna, di bambino, che mi seduceva, che mi imbarazzava, che mi faceva sentire vecchio -, sullo scrivere che è anche un gioco bellissimo a cui c’è chi non vuole mai giocare e a cui c’è chi non vuole – a ogni costo – rinunciare mai. (« Sempre meglio che lavorare », direbbe a questo punto quello scemo di un giornalista) “.
A me Fortini non dispiace, anche se lo considero un poeta meno grande di altri italiani suoi coetanei o più vecchi o addirittura più giovani… Forse è colpa del suo maestro o modello di riferimento Brecht? (Secondo Brodskij, che correggeva un aneddoto riferitogli da Auden, Brecht non era mai stato un grande poeta)… Interessante anche il saggista e critico letterario… V’è qualcosa nel suo carattere che somiglia al mio e qualcosa d’altro distante anni luce; della similitudine, dico, non perché io sia stato, da ragazzo, un militante della sinistra extraparlamentare, poi caduto da cavallo sulla via di Damasco (un paio d’anni prima della caduta del Muro). No, non per quello. O forse per quella specie di utopia e vis polemica permanente di Fortini? (Fortini era un tribunale etico in servizio, “24 ore su 24”)…
E forse litigava anche con sé stesso, davanti allo specchio… No, nemmeno tanto per quello, anche se ci avviciniamo…
Fortini poeta con una tendenza sadomasochistica, secondo l’intuizione di Garboli che notava la bruttezza da oltrecortina di certi impermeabili scuri che lui indossava? Ecco: ci siamo quasi, lasciando pure il sadico e sostituendo al masochistico una pulsione di annullamento o morte o un disperato vitalismo pasoliniano (dove il disperato, nel mio caso, non viene ingenerato da visioni pessimistiche della storia ma da un vitalismo continuamente bloccato dall’inferno che sono gli altri, secondo la nota affermazione di Sartre)…
Ad ogni modo, una volta ero a casa di Mario Luzi che – essendo un grande – si dimostrava disponibile anche con un giovane universitario come me, pubblicato su una rivista dove lui figurava tra i collaboratori di prestigio.
Gli dissi che, della sua opera intera, mi colpiva in particolare quello strano libro che è: «Su fondamenti invisibili»… Luzi scrollava le spalle e rispondeva che, per alcuni, i libri migliori erano altri, insomma che ciascuno diceva la sua… Ora scopro questo passaggio.
Da una lettera del 29 agosto 1973 di Fortini a Luzi:
«Ma per l’occasione leggendo cose tue mi sono persuaso dell’importanza capitale di “Su fondamenti invisibili”, mentre al confronto, anche le cose migliori di “Dal magma” perdono lume. Mi pare che questo coincida con l’opinione di Agosti; anche se non occorrerebbe dirlo, dissento dal modo dell’indagine e dai suoi sottintesi. Ma importa i testi tuoi, non quelli dei critici.»… (A onor del vero, il titolo era: «Nel magma» e quel “nel” era centrale anche per il senso complessivo… Non penso che sia un errore di trascrizione: forse una distrazione di Fortini che univa il titolo in questione con l’altra opera luziana, temporalmente contigua, «Dal fondo delle campagne»…).
http://www.lavoroculturale.org/mario-luzi/