di Andrea Tarabbia
[Questo intervento fa parte dell’ultimo numero di «Nuovi Argomenti» intitolato Lezioni di vero e dedicato alla non-fiction].
Così come è accaduto nella realtà, alla fine di ognuna delle narrazioni, o delle immaginazioni che, nel corso di quasi due secoli, sono state fatte sulla vicenda di Kaspar Hauser, Kaspar muore. Ma non solo: l’idea di «delitto», di crimine commesso contro qualcuno che non sapeva e non poteva difendersi, permea tutti gli scritti sul trovatello di Norimberga: il primo a occuparsi di lui fu Anselm von Feuerbach, giurista e padre di Ludwig, che conobbe personalmente Hauser e scrisse un resoconto che è la prima di tante variazioni, supposizioni e fantasticherie intorno a questa vicenda. Ebbene, Kaspar Hauser, il libro di Feuerbach, ha un sottotitolo: Un delitto esemplare contro l’anima. Naturalmente, Feuerbach non si riferisce all’omicidio di Kaspar, quanto al più ampio e più spaventoso crimine commesso contro di lui: la segregazione, la solitudine, l’abbandono, la malnutrizione, l’analfabetismo coatto. Ecco che la storia di Kaspar Hauser si fa, per così dire, duplicemente funebre: c’è il delitto contro l’anima, che è ciò attraverso cui Kaspar fa il suo ingresso nel mondo; e c’è il delitto contro il corpo, quel colpo di coltello che pose fine alla sua breve vita nel 1833, e che fu inferto da una mano ignota – con ogni probabilità la stessa che si era macchiata, una ventina d’anni prima, del delitto contro l’anima. La parabola di Hauser comincia e finisce, dunque, all’insegna del delitto, del mistero, dell’incomprensibilità.
A chi, nella primavera del 2013, era presente, in un tendone di Bologna, alla lettura integrale, fatta da amici e colleghi, di Bambini bonsai, il romanzo che Paolo Zanotti aveva pubblicato nel 2010, la famiglia di Paolo, che era scomparso nel dicembre precedente, regalò un piccolo libro, incompiuto e frammentario, stampato a spese dei genitori in una tipolitografia novarese. È il libro a cui Paolo stava lavorando nell’anno della sua morte, e che continuò a scrivere e a correggere (come si usa dire, ma in questo caso è vero) fino a pochi giorni prima di morire. Si intitola KH, anche se ho motivo di credere che il titolo non sia dell’autore o che, al massimo, sia un titolo di lavorazione. È composto da quindici capitoli, di cui dodici compiuti e rivisti, e tre solo a frammenti. Si tratta, stando agli appunti di Paolo e allo sviluppo della storia, su cui si possono fare congetture, di circa metà del testo. Dunque Paolo Zanotti, morendo, ha lasciato un’opera incompiuta, e quest’opera era il suo Kaspar Hauser.
Avevamo parlato di questo suo progetto alcuni mesi prima che scoprisse di essere malato: lui mi aveva raccontato il KH e io gli avevo parlato di un’idea di romanzo che ho in seguito abbandonato, ed è curioso, oggi, pensare che da quel pomeriggio passato in via del Pratello a raccontarci i rispettivi progetti, siano usciti un’opera incompiuta e un’altra abortita. Kaspar Hauser era, da un certo punto di vista, un romanzo naturale, per Paolo: è una storia che contiene un’infanzia vissuta molto tardi, durante l’adolescenza, e dunque da recuperare; mentre impara a leggere, a parlare, a comportarsi e ad avere relazioni umane, Kaspar si prende il tempo anche per giocare, per essere infantile: ama stare con i bambini piuttosto che con gli adulti, trova in loro purezza, slancio, mentre ogni adulto che lo avvicina si pone come didatta o come studioso del suo caso. A poco a poco, immagino, mentre acquista più coscienza di sé, il mondo adulto (che, notate, è il mondo che lo ha tenuto recluso) lo stanca: gli adulti si aspettano qualcosa da lui, che impari, che si lasci esaminare, che faccia progressi; i bambini lo prendono per quello che è, lo amano, lo stimolano, giocano con lui. A Paolo interessava moltissimo, inoltre, che la seconda vita di Kaspar fosse trascorsa a Norimberga, che all’epoca era la capitale tedesca del giocattolo: i giocattoli, l’immaginario dell’infanzia sono stati un marchio della narrativa di Paolo, che era eccitato all’idea di far vivere il suo Kaspar – lui, che sarebbe diventato a poco a poco consapevole dell’orrore in cui aveva vissuto – in un mondo fiabesco, a misura di bambino. In questo senso il cavalluccio di legno, che è da sempre il totem di Kaspar Hauser, avrebbe avuto un ruolo determinante nella costruzione del personaggio.
Ma, allo stesso tempo, mentre Paolo mi raccontava il suo progetto, pensavo che non ci fosse romanzo più lontano dalle sue corde, dai suoi stilemi. La storia di Kaspar Hauser, per quanto possa essere reimmaginata, riscritta, rimescolata, è una storia vera, una storia che ha bisogno, per essere messa in forma di romanzo, di un lavoro di documentazione, di scavo nelle fonti, di scrematura della sua componente leggendaria: scrivere un romanzo che ha per tema la vita di un personaggio realmente esistito è compiere, prima di tutto, un grande lavoro di selezione. Qualunque sia il punto di vista che si vuole adottare, bisogna individuare un luogo, una prospettiva inedita e inaudita, studiando quanto, della realtà documentata, è proponibile in forma romanzesca, e quali e quanti sono i punti oscuri o ignoti, o velati di mitologia; ogni storia vera, per un romanziere, presenta un doppio problema: quello della fedeltà alle fonti e quello, molto più intrigante, legato ai vuoti di documentazione. Ogni scena, ogni pagina di romanzo, ogni battuta di dialogo reinventa, mantenendosi verosimile, un fatto realmente accaduto. Quanto può permettersi, un romanziere, di ricamare sopra un avvenimento? Vale a dire: sappiamo dalle fonti che Kaspar Hauser fu visto per la prima volta a Norimberga il giorno 26 maggio 1828, verso sera; sappiamo che si lasciò avvicinare da un cittadino che gli aveva chiesto se avesse bisogno di aiuto; sappiamo com’era vestito, quanto era alto e che aveva, stando alla conformazione fisica, all’incirca sedici anni; sappiamo, dalle deposizioni, come si svolse a grandi linee il surreale colloquio che ebbe con l’uomo che lo avvicinò. Ma tutto questo, se è sufficiente per costruire una cronaca documentaria, non lo è per un romanzo. Chiunque voglia scrivere in un romanzo la scena della comparsa di Kaspar a Norimberga ha bisogno di inventarsi qualcosa, di andare oltre il semplice dato documentale: deve immaginare lo stato d’animo di Kaspar e quello del cittadino, un particolare fisico dell’uno e dell’altro, la durata del loro colloquio, con le pause, le incertezze e, perché no, la loro paura e ritrosia; deve inserire, se vuole che la scena sia viva, il passaggio di un uccello, o di una carrozza, o di un lampionaio che passa accendendo le luci della piazza (ma ci furono, in quel momento, un uccello, una carrozza o un lampionaio?). Deve insomma drogare le notizie che vengono dai documenti con una dose di invenzione che mantenga però verosimile il tono della narrazione. Noi abbiamo informazioni su come andò quell’incontro, ma non sappiamo come fu realmente. Se lo vogliamo scrivere, dobbiamo inventarlo, riempiendo con l’invenzione letteraria le parti, anche minime, che non conosciamo. Questo vale per singole scene come questa, e vale soprattutto quando ci troviamo di fronte a una mole di documenti che non copre periodi di settimane, magari di anni. A Kaspar, per esempio, non piacevano certi cibi: all’inizio li vomitava, non riusciva a mandarli giù (per anni era stato nutrito soltanto a pane e acqua). Per rendergli giustizia narrativamente, dobbiamo raccontare di un suo pranzo, ma nessun documento descrive nei dettagli un pasto di Kaspar Hauser. Dobbiamo immaginarlo.
Questo è un lavoro che Paolo non aveva mai fatto nei suoi libri precedenti, che sono di pura finzione. KH è dunque un caso particolare nella sua produzione – un caso che mi fa pensare che Paolo, poco prima di morire, fosse in procinto di intraprendere una strada narrativa per lui nuova: abbandonato almeno in parte il tono favolistico, trasognato di Bambini bonsai e del Testamento Disney, abbandonati, almeno in parte, i riferimenti alla cultura pop, Paolo si era buttato nel romanzo storico, nel documento, nella scrittura della sua versione di un grande mito “reale” della cultura europea.
Com’è dunque il suo Kaspar Hauser? Parto dalla fine: è raccontato da Kaspar Hauser. Non è chiaro dove si trovi Kaspar mentre parla di sé, e non è chiara nemmeno la sua età mentre scrive: ma per la capacità linguistica, per la lontananza da cui sembra osservare gli eventi del suo terribile passato (chiama il se stesso giovane «il Protokaspar»), per il tono delle sue considerazioni e per le citazioni che infarciscono il testo, si direbbe che si tratti di un Kaspar maturo, colto, in qualche modo conciliato con la propria esistenza. Dunque il Kaspar Hauser di Paolo Zanotti non è morto nel 1833. Non si sa come Paolo avrebbe risolto questo snodo fondamentale nella vita del suo personaggio e come si sarebbe posto nei confronti del rapporto realtà-finzione che una scelta così radicale implica, ma sta di fatto che in questa versione della storia, Hauser non ha ricevuto la coltellata o, se l’ha ricevuta, le è sopravvissuto. Gli appunti autorizzano a pensare che il romanzo si sarebbe concluso con Kaspar che, in vecchiaia, finalmente riesce a vedere il mare (il mare, l’acqua, altri temi ricorrenti di Paolo): dunque vive e continua a vivere. Dei due delitti che scandiscono la vita di Kaspar, il secondo, quello contro il corpo, non c’è. È una decisione radicale, ed è l’unico modo per poter raccontare la vicenda dall’interno. Eppure non è subito chiaro che il narratore sia Kaspar Hauser: lo si sospetta fin dalle prime pagine – c’è un io narrante che racconta la storia di Kaspar e del Protokaspar con un certo grado di confidenza, ma per alcuni capitoli, di fatto, si legge un racconto in terza persona. Poi, magistralmente, intorno a pagina cento avviene un cambiamento: alcuni bambini sono venuti a trovare Kaspar, e lui, per la prima volta, ha chiacchierato con loro, sentendoli vicini. Una volta soli, il suo tutore, Daumer, gli chiede se si sia divertito e che cosa gli ha sussurrato all’orecchio la signorina Jacobine prima di uscire. «Kaspar non ha capito» risponde Kaspar. Ma non è vero, ha capito benissimo:
Usando quel nuovo sistema di comunicazione misterioso, il sussurro, gli aveva detto […] domani alle tre ci vediamo al ponte.
«Kaspar non ha capito». […] per la prima volta, il Protokaspar aveva detto una cosa non vera, una cosa falsa. Aveva mentito.
Io avevo mentito.
Da qui in poi, da questo piccolo segreto tra bambini e da questa menzogna, il Kaspar Hauser di Paolo Zanotti parla apertamente di sé in prima persona. È attraverso la menzogna, suggeritagli dalla complicità che ha instaurato con i bambini, che Kaspar comincia a pensare a se stesso come a un individuo. Da questo momento, Kaspar è un uomo e può dire «io». Viene in mente Pinocchio, il professionista della bugia. C’è un piccolo libro, Il naso corto, pubblicato da Daniela Marcheschi, a cui penso ogni volta che rileggo il KH e in particolare questa scena: Marcheschi contesta l’opinione consolidata – quella che vuole che Pinocchio-bambino si redima, nel finale, osservando il burattino appoggiato in un angolo della casa di Geppetto. Riporto il passo, che è molto breve:
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: «Com’ero buffo quand’ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino per bene!…».
Sono le ultime parole del libro di Collodi. Ebbene, Marcheschi sostiene che mettano in scena un ribaltamento, e lo dimostra linguisticamente: ogni volta che Collodi usa, nel corso del testo, un tono enfatico (qui: «con grandissima compiacenza») e ogni volta, soprattutto, che usa i segni «!…», è in realtà ironico, ammiccante, e sta prendendo in giro ora i personaggi ora i lettori. Con questi stratagemmi linguistici, Collodi in tutto il romanzo gioca, sottintende qualcosa, allude al contrario di ciò che dice. E lo sta facendo anche qui: questa è l’ultima, estrema menzogna di Pinocchio, che non solo non si è redento ma, ora che è un bambino, ha anche perduto l’ingenuità e la bonarietà con cui ha mentito nel corso di tutta la narrazione. Pinocchio insomma dice, nel finale, una menzogna consapevole, adulta. È un bambino, ormai, un individuo, e lo attesta attraverso la più grande delle sue bugie. Si potrebbe dunque leggere il Kaspar di Zanotti come una versione di Pinocchio, qualcuno che si accorge di esistere nel momento in cui nasconde agli altri quello che pensa: in entrambi, Kaspar e Pinocchio, la menzogna è il primo strumento attraverso cui si prende coscienza di se stessi. Ci si conosce nascondendosi.
Nel capitolo successivo, l’undicesimo, Kaspar esce da solo. Si incontra, come si erano ripromessi, con Jacobine, in una zona della città dove ci sono altri bambini. I ragazzi giocano, parlano, si recitano poesie e filastrocche: Kaspar confessa agli altri di non aver mai giocato fuorché da solo, nella sua prigione, con il cavalluccio. E poi parlano, chiacchierano di nobiltà, di Rivoluzione francese, giocano a Napoleone. È la prima volta che Kaspar sente nominare questi concetti e queste persone, e apprende anche che esiste un posto chiamato Europa. Così, mentre gioca, Kaspar impara il mondo, e ne rimane sconvolto: la conoscenza vera e diretta, per lui, che finora è stato riempito di nozioni astratte dai suoi didatti, passa attraverso il gioco infantile. Sta recuperando l’infanzia che non ha avuto e, per la prima volta, allarga davvero i suoi orizzonti. Gli viene perfino raccontata la terribile storia del principe polacco Sigismondo, che subì una sorte del tutto simile alla sua: fu rinchiuso da suo padre, fin dalla nascita, in una torre, che per lui fu tutto il mondo. Ne uscì una volta sola e rischiò di impazzire, e morì a soli sette anni senza aver conosciuto nulla che non fosse la propria reclusione.
Dunque i giochi, le bugie. È così che si conosce il mondo – come fanno i bambini. Ma c’è un’altra forma di conoscenza, tutta linguistica, che Paolo ha inserito nel romanzo. Se la lascio per il finale, è perché è la cosa che da sempre mi sbalordisce del KH: è l’idea semplice, ma di straordinaria bellezza ed efficacia narrativa, che fa di uno scrittore uno scrittore. Kaspar conosce il mondo anche attraverso il linguaggio, che lui ha faticosamente appreso solo dopo il suo ritrovamento e che tuttora, mentre scrive, vuole esercitare. La mente di Kaspar ragiona per analogie, per catacresi che il narratore rende note a chi legge attraverso piccole formule, ritornelli che scandiscono il testo e arrivano, a sorpresa, nel mezzo del discorso. Un esempio:
Io non sono ancora nato (nascono: i cuccioli di uomini e animali, le idee, il sole ogni mattina) ma già passato è il cavallo […].
Un altro:
Stanco di tanta concentrazione, sbatté alla fine le palpebre. Sbattono: le palpebre, le bandiere della città affisse alla Casa del Sego, la porta della casa d’angolo. Passò così un’altra mezz’ora.
Mentre Kaspar gioca con la lingua, la smonta, la rimonta, perseguendo l’analogia e ampliando il suo campo di conoscenza, Zanotti crea l’ambiente linguistico trasognato (e in parte mutuato dall’infanzia, perché questi sono giochi linguistici che si fanno da bambini) che è il luogo dove si muove il romanzo. E qui, grazie a questo impasto, si torna all’origine: perché è vero che, per via della sua storicità e del rapporto (rimasto parzialmente irrisolto per via dell’incompiutezza) con le fonti, KH si allontana dalla narrativa precedente di Zanotti; ma nella lingua, nel gioco, nel recupero degli stilemi dell’infanzia come strumento di conoscenza, questo è un libro che soltanto Paolo poteva scrivere, e che Paolo, finché ha potuto, ha provato a fare.
Bibliografia
Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Firenze, Giunti 2002. Anselm von Feuerbach, Kaspar Hauser, Milano, Adelphi 1996. Daniela Marcheschi, Il naso corto, Bologna, EDB 2016.
Paolo Zanotti, Bambini bonsai, Milano, Ponte alle Grazie 2010. Paolo Zanotti, Il testamento Disney, Milano, Ponte alle Grazie 2013. Paolo Zanotti, KH, sine nomine, 2013.
[Immagine: Werner Herzog, Kaspar Hauser]
Il titolo provvisorio personale che Paolo Zanotti aveva pensato era “Piazza del Sego 1828. Una storia europea”.