di Antonella Francini

[Poetessa, saggista, drammaturga, Claudia Rankine è in questi giorni in Italia per la presentazione del suo quinto volume di poesia in traduzione italiana, Citizen. Una lirica americana, appena uscito da 66thand2nd a cura di Silvia Bre e Isabella Ferretti. Giovedì 18 maggio (Sala Azzurra, 17,30), incontra il pubblico al Salone del Libro di Torino. Nata in Giamaica nel 1963, è cresciuta e si è formata negli Stati Uniti, dove vive. È membro dell’American Academy of Poets e docente di letteratura inglese e scrittura creativa al Pomona College e alla Yale University. Alla sua opera sono andati numerosi premi, fra cui il MacArthur Genius Grant (2016). Citizen, pubblicato nel 2014, è stato finalista per il National Book Award e vincitore di numerosi premi, fra cui il Book Critics Circle Award in Poetry, il PEN Center USA Poetry Award, e il Forward Poetry Prize].

Citizen. Una lirica americana mischia generi e stili diversi, varie modalità di scrittura, di lettura e di ascolto, ed impegna il lettore a più livelli invitandolo a fare ciò che la voce narrante, in incipit, dichiara di non poter fare in presenza di specifiche circostanze:

Quando sei sola e troppo stanca perfino per accendere uno dei tuoi dispositivi elettronici, ti lasci andare a un passato sprofondato tra i tuoi cuscini. Di solito stai rannicchiata sotto le coperte e la casa è vuota. A volte la luna non c’è e oltre le finestre il soffitto basso e grigio del cielo sembra a portata di mano […] e tu ti ritrai in ciò che viene ricostruito come metafora.

Da questa impostazione, e assenza di azione, nasce la forma ibrida di Citizen e il coinvolgimento del lettore, continuamente sollecitato, oltre che a leggere, ad azionare i suoi dispositivi per far scorrere i video a cui la parola spesso rimanda. L’io multiplo e polivocale di chi narra contiene la prima e la seconda persona, e dà voce a più protagonisti rivolgendosi a un generico ‘tu’, a un ‘you’ che è anch’esso doppio: è il cittadino nero protagonista delle storie di razzismo raccontate nel libro e il cittadino bianco, altrettanto protagonista e chiamato a prendere posizione e visione delle dinamiche sociali negli Stati Uniti e ovunque si manifestino discriminazioni e violenze razziali. Alla parola scritta sono abbinate immagini di opere d’arte, fotografie e, appunto, una serie di video, intitolati Situation e reperibili sul sito di Claudia Rankine (www.claudiarankine.com) o su YouTube. Altra caratteristica di Citizen è la commistione di più generi – dalla lirica alla non fiction, dal documento al reportage giornalistico e all’autobiografia. I blocchi narrativi in prosa, prevalenti nel libro, somigliano anche ai police log, cioè ai bollettini giornalieri che la polizia rilascia in America per rendere nota ai cittadini la sua attività (quanti sopralluoghi sono stati fatti, quanti individui sospetti sono stati fermati, ecc.). Alcuni passi ricordano, invece, annotazioni di diario; altri ricalcano lo stile giornalistico dei fatti di cronaca ripresi dai media.

A quasi tre anni dalla sua pubblicazione, questo volume dall’identità ambigua continua a essere in cima alle classifiche dei libri più letti e a raccogliere prestigiosi premi e riconoscimenti sia in ambito poetico che saggistico. La traduzione italiana dell’editore 66thand2nd rende ora meritoriamente disponibile anche da noi un testo fra i più discussi e i più amati che, insieme a Tra me e il mondo di Ti-Nahisi Coates, sembra aver interpretato lo zeitgeist contemporaneo. Come ricordano i suoi commentatori, mentre il volume era in stampa veniva ucciso Michael Brown a Ferguson, l’assassino del diciassettenne Trayvon Martin veniva assolto, il movimento Black Lives Matter si era già costituito e marce di protesta contro la violenza della polizia sui cittadini di colore infiammavano l’America. Le proteste da allora non si sono fermate e sappiamo come l’elezione di Trump abbia risvegliato ulteriori forme di disobbedienza civile in nome dei valori fondanti degli Stai Uniti. Il libro è dunque arrivato in un contesto già fortemente politicizzato e pronto ad accoglierne la tematica. Ma la coincidenza non basta a spiegare la fortuna di Citizen che offre alla poesia un esempio, nelle parole di Rankine, di come riportare la lirica nella realtà e rendere la scrittura in versi attuale e utile.

Citizen, che è stato definito post-lirico, neo-lirico, prosa poetica o semplicemente prosa, sintetizza nel sottotitolo (già apparso nel volume precedente di Claudia Rankine, Don’t Let Me Be Lonely: An American Lyric, 2004) il suo progetto formale e tematico: un intenso intreccio di emozioni e sentimenti sullo sfondo di un razzismo strisciante e quotidiano, quasi invisibile, a cui bianchi e neri sembrano essersi assuefatti, riemerso nell’era di Obama come una delle ferite più profonde nella cultura americana. Rankine raccoglie qui storie comuni di discriminazioni accadute ad amici afroamericani e le ricostruisce come metafore, appunto, di momenti in cui il patto sociale fra cittadini di una stessa nazione si rompe e riemergono paure antiche. Ma come rendere metafora e poesia il doppio registro privato e pubblico nel XXI secolo?

Rankine propone un testo poetico tridimensionale, quasi portando i lettori in una realtà virtuale. Se alla lirica appartiene la voce sommessa e controllata della donna che nel buio della sua stanza si abbandona ai ricordi più intimi, l’aggettivo che la connota fa entrare in quel contesto così soggettivo la specifica storia socio-culturale degli Stati Uniti. Citizen è dunque l’incontro del self self con l’historical self dei bianchi e dei neri, come scrive Rankine in uno dei suoi racconti, quando cadono i puntelli che tengono in piedi la convivenza civile. La modalità lirica allora non basta più per raccontare un’esperienza personale che, improvvisamente, diventa anche specchio delle vicende di un intero popolo. Abbandonate le convenzioni poetiche, la ‘lirica americana’ di Rankine è dunque una prosa ritmica aperta al linguaggio dei media, del film documentario, dell’arte e della musica perché ogni forma artistica contemporanea collabori al suo progetto. Le ‘micro-aggressioni’, come Rankine chiama gli episodi di razzismo quotidiano che racconta (prendendo a prestito un termine coniato nel 1970 da Chester Pierce, professore di psicologia a Harvard, per descrivere gli insulti che sfuggono inconsapevolmente nei rapporti interpersonali fra americani dal colore diverso della pelle) sono così documentate anche visivamente. Interessante notare che, in questo libro, esse avvengono, non nelle sacche di maggiore povertà, ma nelle fasce sociali più alte e in ambito accademico. Eccone un esempio:

Grazie allo status privilegiato ottenuto dopo un anno di viaggi, ti sei già accomodata nel posto finestrino sul volo United Airlines, quando arrivano una ragazza e sua madre. La ragazza, lanciandoti un’occhiata, dice rivolta alla madre, sono i nostri posti, ma questo proprio non me l’aspettavo. La risposta della madre si sente a malapena − Capisco, dice. Mi siedo io in mezzo.

I lettori ideali del suo libro, dice la scrittrice in un’intervista, sono loro: colleghi, professionisti, cittadini bianchi dallo status privilegiato. Rankine ha chiamato Citizen “una lirica collettiva”, “il documento di una comunità”, “una voce interiore che vigila sul mondo che ti sta intorno”, un’“antropologia del corpo nero” mettendo il suo libro-poema in rapporto di continuità e rottura con la poesia come genere e con il testo poetico come opera autosufficiente.

Il modello non è nuovo nella poesia americana. I poeti di ogni tempo hanno dato voce a istante sociali e politiche sviluppando strutture metriche originali in forme ibride fra prosa e poesia– da Whitman a William C. Williams, Gwendolyn Brooks, Robert Duncan e Yusef Komunyakaa. Né è insolito nella poesia contemporanea l’uso di generi diversi (da Anne Carson a Charles Bernstein e Susan Howe). La differenza sta nella narrazione in tempo reale di Citizen, che non sarebbe potuta esistere nell’era pre-internet. Il lettore viene portato dentro gli eventi narrati, trasposti secondo un diverso codice narrativo nei video e nei film documentari che accompagnano la parola e che rendono l’esperienza testuale vivida e attiva a livello visivo. L’esperimento di Claudia Rankine sembra davvero essere un primo passo verso la poesia in 3D, un’illusione realistica per cui immagine, suono, voci e musica entrano nella reading performance del lettore. Il titolo stesso dei filmati (realizzati con il marito, il fotografo John Lucas) chiama il lettore a partecipare emotivamente e visivamente a situazioni di conflitto, disagio o fragilità sociali, a diventare anche spettatore. Si veda ad esempio Situation 6, il video collegato al testo intitolato Fermo e perquisizione. La bellissima lettura di Rankine procede lentamente come una meditazione, scandendo le parole, che così rimangono sospese nella memoria di chi ascolta via via che la narrazione ricorda la vulnerabilità fisica del corpo di ogni cittadino di colore, a rischio nello spazio pubblico perché corrisponde allo stereotipo dell’afroamericano da cui difendersi. «E non sei tu la persona e tuttavia corrispondi alla descrizione perché di persona ce n’è una sola ed è sempre la persona che corrisponde alla descrizione», ripete la voce narrante come se questa frase reiterata sostituisse la rima.

Ma cos’è la memoria in Citizen? È la vera protagonista di questo long poem americano distribuito in sette parti o capitoli. Ma è un luogo difficile da frequentare dalla prospettiva di una cittadina afroamericana: «nessuno ha mai consigliato di ricordare. Dimentica tutto, dice il mondo». La domanda «What did you say?»/ «Che cosa hai detto?» ricorre spesso nel libro, pronunciata da persone di colore che fanno finta di non aver sentito l’offesa per non dover ricordare. Ma la memoria è anche un «veicolo di sentimenti», si legge nelle prime pagine, ed è un insieme di momenti vissuti, incisi sul proprio corpo, «un passato sprofondato fra i tuoi cuscini», che riemerge nell’intimità quando, rannicchiata sotto le coperte, la stanchezza ti impedisce di attivare «your devices». I dispositivi cui Rankine allude non sono però soltanto quelli elettronici, ma anche i meccanismi di sopravvivenza di un corpo nero, ostaggio, potremmo dire, di una memoria personale e storica.

Alle vittime del razzismo il libro è esplicitamente o implicitamente dedicato. Molte delle composizioni nel settimo capitolo sono intitolate In memoria di, a cui fa seguito il nome, ad esempio, di Trayvon Martin, diciassettenne disarmato ucciso da un vigilante volontario, di James Craig Anderson, derubato e ucciso da una gang di adolescenti bianchi, di Mark Duggan, ucciso a Londra dalla polizia. La pagina finale del capitolo somiglia a una lapide commemorativa, più visiva che grafica:

In memoria di Jordan Russell Davis
In memoria di Eric Garner
In memoria di John Crawford
In memoria di Michael Brown

Le parole «In Memory» sono poi ripetute per l’intera pagina sfumando sempre più il loro colore: alla fine della colonna rimane solo una leggera ombra che poi scompare nello spazio bianco della pagina a ricordarci l’infinita lista di vittime del razzismo dimenticate dalla storia. Le edizioni seguenti, e quella italiana appena uscita, aggiornano l’elenco con i nomi di afroamericani uccisi per pregiudizi razziali.

Anche se in un’intervista Rankine dice che è possibile entrare nel libro da un qualsiasi punto, rimane interessante una lettura lineare, capitolo dopo capitolo, che mette in evidenza la sua struttura. Dalla prima alla terza parte sfila davanti ai nostri occhi l’alternanza di ricordi privati e pubblici. Spiccano le molte pagine dedicate alla tennista Serena Williams e alle sue reazioni alle offese razziali nei campionati giocati in luoghi tradizionalmente bianchi. Il suo corpo improvvisamente ipervisibile sugli schermi mondiali che trasmettono la semifinale di tennis US Open 2009 muove le riflessioni della narratrice sulla vulnerabilità fisica dei cittadini di colore mentre osserva il comportamento improvvisamente aggressivo dell’atleta: «Di fronte ai tuoi occhi, Serena è travolta in HD da una rabbia che riconosci e che per il tuo bene ti è stato insegnato a tenere a distanza […] Che aspetto assume il corpo di una donna nera, vittoriosa o sconfitta, in un contesto storicamente bianco?». Al centro del libro troviamo il capitolo dedicato alla memoria e il capitolo quinto dove spicca un immaginario dialogo con Robert Lowell sulla costruzione dell’io e dell’io poetico. Il capitolo sesto contiene gli In memoria e i testi per i video, fra cui quello dedicato al calciatore algerino Zinedine Zidane e al suo scontro con Marco Materazzi durante la finale dei mondiali di Germania 2006. Fra le strisce di fotogrammi che ripropongono visivamente l’episodio sono inserite le molte voci che lo commentano: quella narrante, quella di Zidane, quelle di numerosi autori (da Shakespeare a Homi Bhabha) e le parole del calciatore italiano secondo gli esperti di lettura labiale che esaminarono il video della Coppa del Mondo. Proprio questo insulto («Algerino di merda, sporco terrorista, negro») è la frase-rima che ricorre in questo testo. Infine, nel capitolo settimo, forse il più lirico, Rankine tenta, con un ultimo racconto, un finale per una storia che non sembra avere fine:

Posso sentire il respiro regolare che crea varchi verso i sogni. E sì, voglio interrompere per dire a lui lei noi te me non so come finire ciò che non può avere fine.

Raccontami una storia, dice lui, stringendomi tra le sue le braccia.

Ieri, inizio, aspettavo in macchina che il tempo passasse…

Oppure si può leggere Citizen soffermandoci su alcune parole chiave che ricorrono in questo lungo monologo: feeling/sentimento («Possono i sentimenti essere un rischio, un segnale di avvertimento, un disturbo, un disgusto, la vergogna?»); body /corpo («Un corpo traduce il suo tu»); lo stesso termine word / parola, con le varianti meaning /significato, language/lingua, context/contesto («Le parole hanno una funzione liberatoria − porte ben oliate che si aprono e si chiudono tra le intenzioni, tra i gesti […] parole che codificano i corpi che coprono. E nonostante tutto il corpo rimane»).

Oppure possiamo soffermarci sulle immagini, in primo luogo sull’aspetto visivo della scrittura stessa, fortemente iconografica, una caratteristica accentuata anche dalla lettura di Rankine dal tono basso, regolare e rallentato. Il ritmo accentuativo della lingua inglese è sfruttato al massimo dalla scrittrice anche nei passi in prosa dove spicca la ripetizione variata di parole o frasi poetiche con suggestivi effetti sonori e visivi. L’edizione italiana non riporta l’originale, ma molti testi di Citizen sono disponibili in rete per chi volesse un assaggio di questa tecnica. Le riproduzioni di opere di artisti americani concorrono alla costruzione del senso e il libro potrebbe essere sfogliato anche come una storia iconografica del corpo di colore nella cultura contemporanea americana. Le due acqueforti dell’artista concettuale Glenn Ligon nel terzo capitolo riprendono, ad esempio, il tema della visibilità /invisibilità: due frasi di Zora Neal Hurston – «I do not feel always colored» e «I feel most colored when I am thrown against a sharp white background» – sono qui riprodotte più volte di seguito fino a scomparire quasi totalmente in macchie di inchiostro. Lo stesso tema è ripreso nella serigrafia di Ligon basata sulla Million Man March del 1995 a Washington riprodotta nel quarto capitolo: una folla i cui volti sfocano nell’indistinguibile. Il forte rapporto fra immagine e parola è annunciato fin dalla copertina dove il titolo CITIZEN appare a grandi caratteri neri in campo bianco come fosse il titolo della scultura In the Hood dell’artista David Hammons qui riprodotta: il cappuccio di una felpa scura tenuto aperto da un fil di ferro è appeso in alto su un muro. Il termine cittadino nella storia e nel contesto statunitense mostra qui tutta la sua ambiguità, non solo per il popolo afroamericano ma anche per chiunque sia vittima di razzismi. La traduzione di questa quinta raccolta poetica di Claudia Rankine arriva ora in Italia come uno stimolante contributo a un discorso culturale, politico e letterario assai attuale.

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