di Paolo Tamassia

Tutti i testi di Pierre Michon sono rivolti al passato. Le storie e gli eventi che racconta, i personaggi – siano essi individui anonimi, «minuscoli», oppure scrittori celebri e artisti consacrati – fanno sempre parte della storia o dei suoi margini, dell’«inverso della storia»[1]. Come ha notato Pierre Bergounioux, l’opera di Michon: «è tutta rivolta verso ciò che non c’è più, è ossessionata dalla morte possibile dei possibili, è dominata dal potere e dalla gloria dei lavori passati, ed è corrosa dall’eventualità del proprio nulla»[2].

All’origine di questo percorso diretto verso il passato c’è senz’altro un profondo senso di assenza. Come appare evidente fin dal suo primo libro, Vite minuscole (1984), questo sentimento è provocato dalla fuga del padre (dato biografico e tema ricorrente nell’opera di Michon) che genera una mancanza di consistenza nel figlio abbandonato. Si tratta in realtà di una vacuità ontologica che finisce per estendersi al mondo intero, il quale infatti sembra sempre sul punto di scomparire, come aspirato da una sorta di vuoto pneumatico[3]. Parlando di suo padre, il narratore di Vite minuscole dice: «L’Assente era lì, abitava il mio corpo devastato […]»[4]. E ancora, descrivendo il proprio stato d’animo quando viveva nella casa dei suoi nonni:

Lì potei toccare le assenze che minavano quei muri, il passato incolmabile e i figli ingrati del tempo ingrato, mio padre, io stesso, e alla fine il mondo intero del quale avevamo preso il posto, tutti spettri per i due vecchi spettri, tutte assenze che un tempo si portavano dietro fino a Mourioux, e che formavano intorno a loro come un’aura che nemmeno la troppo breve e sporadica presenza dei cari lontani bastava più a dissipare a Mazirat era il cuore di quell’«assenza compatta», quasi palpabile; solo i morti ne varcano la soglia; e i vecchi si alzavano con gli occhi sgranati, barcollando, ti stringevano fra le braccia come per riscaldare coloro che ormai più nulla avrebbe potuto riscaldare (VM, p. 70).

Tale constatazione conturbante impone allora una necessità impellente e irriducibile: bisogna recuperare un ubi consistam di sé e uno spessore del mondo. In tale situazione, poiché l’instabilità ontologica dell’io e del mondo è conseguenza dell’assenza del padre, il soggetto dovrà tentare di ricostituire una filiazione[5], di assumere un’eredità, attraverso un racconto generato dal passato, dalla storia, nella speranza di salvare se stesso e il mondo, costantemente minacciati dal nulla. La sua scrittura, le sue pagine – afferma il narratore – «dal passato, una dopo l’altra, tentano di prendere corpo» (VM, p. 63).

Tuttavia, a ben vedere, nelle Vite minuscole emergono due concezioni della letteratura rivolta verso il passato. Se l’una fa sprofondare ancor più il soggetto nella sua vacuità ontologica, l’altra al contrario, svelata solo alla fine del libro, costituisce una via di salvezza. Consideriamo la prima. A più riprese il narratore, che desidera diventare autore, stabilisce uno stretto legame tra il Sapere, la scrittura letteraria e il passato: lo scrittore è colui che esplora «la memoria e le memoriose biblioteche » (VM, p. 22). Ma comprende al contempo che in questo legame con il passato è in gioco il rapporto con la realtà presente, con la vita. E in questo senso la descrizione della coppia antinomica dei fratelli Bakroot diventa assolutamente emblematica. Roland, il più grande, è «perduto nei suoi libri» o meglio – nota sempre il narratore – è perduto «in questo mondo di cui vedeva ben poco, così come nei libri che ne avevano preso il posto» (VM, p. 97). Viene dunque stabilita un’opposizione cruciale tra i libri, ossia la letteratura fondata sul passato, e il mondo reale presente. L’amore per questa letteratura, per i «libri, ampollosi, ingenuamente umanisti e tautologici» (VM, p. 102), proietta il ragazzo indietro nel tempo e fuori dalla realtà: «Quanto a Roland, non pensava certo che gli autori parlassero a viva voce; restava nel loro interminabile silenzio; s’immergeva vieppiù nel vortice di quei passati che nessuno ha mai vissuto, di quelle avventure che sembrano successe ad altri ma a nessuno sono mai successe» (VM, p. 102).

Tale opposizione è ancora più esplicita ed evidente nell’amore insidioso di Roland per il «passato remoto», il tempo verbale letterario per antonomasia che si oppone al presente della vita, alla quale è attaccato per contro il suo fratello minore, Rémi. In effetti, la vita di Roland «si era sviata nei passati remoti» (VM, p. 102), a tal punto che

Quando alzava la testa, quando i bei passati remoti sprofondavano in ciò che l’occhio vede immediatamente, tra le foglie che stormiscono e il sole che di nuovo spunta, il presente invincibile era sempre lì davanti con l’aspetto di Rémi, il contemporaneo delle cose, quello che soffriva per il tramite delle cose stesse, Rémi che era pieno di ragazze e le guardava ridendo (VM, p. 103).

È chiaro che in questa coppia – al contempo fraterna e metaforica – Rémi incarna un rapporto immediato, e tutto sommato ingenuo, con la realtà: la sua percezione irriflessa del mondo non gli permette di avvertire l’assenza e il vuoto che lo minano.

Allora la letteratura intesa come scrittura del passato, sempre intrisa di arcaismi, non può che allontanare l’uomo dalla vita o restituire un simulacro di essa, come ben comprende il narratore quando riflette sul valore della scuola: «Perché anche lì si acquattava il Sapere, antico animale, inesistente eppure ingordo, che ti strappa da tua madre e ti consegna, a dieci anni, a un simulacro del mondo» (VM, p. 79). Si tratta di un simulacro perché la scrittura del passato fissa le cose e gli esseri in essenze immobili e rarefatte. Infatti Roland – ipostasi vivente di questa letteratura – è colui che «con tracotanza pensava di raggiungere direttamente un’essenza sempre inverificabile» (VM, p. 105). Allo stesso modo, ad un’età più matura, il narratore capisce perché non riesce a diventare scrittore, perché non giunge ad essere degno di un editore, emblematicamente denominato Anubi, il dio egiziano dei morti:

Sarebbe stato necessario, affinché mi ritenessi degno di affrontare Anubi, che la parte immersa [di me stesso] fosse anch’essa levigata di parole, perfettamente ghiacciata come l’inalterabile diamante di un dizionario. Ma ero vivo; e poiché la mia vita non era un verbario, poiché ancora non afferravo la lettera di cui avrei voluto essere costituito da capo a piedi, mentivo fingendo di essere uno scrittore (VM, p. 129).

La scrittura letteraria non appartiene a questo mondo, è trascendente, giunge dall’alto come la Grazia: «pensavo infatti che lo Scritto, alla sua ora, sarebbe arrivato nello stesso modo, esogeno e straordinario, inconfutabile e transustanziale, mutando il mio corpo in parole» (VM, p. 139). Questa letteratura sottrae gli esseri alla vita perché li fissa in essenze intemporali, riducendo le estasi temporali dell’esistenza ad unità fisse, statiche, e dunque metafisiche:

Scoprivo i libri, in cui ci si può nascondere così come fra le sottane trionfali del cielo. Imparavo che il cielo e i libri fanno male e seducono. Alieno ai giochi pedissequi, scoprivo che si può non imitare il mondo, non immischiar visi, con la coda dell’occhio guardarlo farsi e disfarsi, e in un dolore reversibile in piacere gioire di non prendervi parte: all’intersezione tra lo spazio e i libri, nasceva un corpo immobile che ero ancora io e che fremeva interminabilmente nell’impossibile desiderio di conformare ciò che leggiamo alla vertigine del visibile. Le cose del passato sono vertiginose come lo spazio, e la loro traccia nella memoria è inadeguata come le parole […] (VM, p. 184).

Quindi da un lato c’è il vertiginoso movimento del reale nel presente in continua trasformazione, mentre dall’altro, dal lato dei libri, si trovano solo delle entità immobili, metafisiche.

Ma allora, il tentativo di ridare consistenza a sé stessi e al mondo attraverso il racconto generato dal passato culmina in uno scacco? In realtà, come accennavo, alla fine del libro il narratore propone una differente strategia della memoria che permette di uscire dall’impasse. Per comprendere questa forma alternativa di ripresa del passato, mi sembra assai opportuno richiamare il duplice valore della memoria rivelato dalla metodologia ermeneutica nella linea Kierkegaard, Heidegger, Gadamer. In questa prospettiva sono in effetti contemplate due modalità della memoria: la reminiscenza e la ripetizione. La reminiscenza appartiene senz’altro alla tradizione metafisica (a partire dalla mnémosyne di Platone fino alla Erinnerung di Hegel): ripetendo all’indietro l’esperienza del passato, può solo osservare la storia dalla posizione privilegiata di una fine e in vista di un fine, di un telos, su un piano di eternità. Riconduce volontariamente, e comunque inevitabilmente, il movimento della temporalità dell’esistenza ad un’essenza stabile fissandola in un’immagine immobile.

La ripetizione, invece, è motivata dall’interesse e nell’interesse, ovviamente compreso etimologicamente come inter-esse (essere-tra): in altri termini, la ripetizione è motivata dall’intenzione dell’essere-nel-mondo temporale. Allora, mentre la rammemorazione compiuta dalla  reminiscenza si dirige all’indietro, la memoria intesa come ripetizione si manifesta in una circolarità fenomenologica in cui «ci si ricorda avanzando». Al contrario della reminiscenza, la memoria intesa come ripetizione non è rappresentativa e ricognitiva, ma è storica perché è fondata sull’apertura dell’essere-nel-mondo, e dunque è proiettiva, «procedente». La ripetizione diventa, come afferma Heidegger, un processo di memoria del passato nel contesto della possibilità presente: si tratta della ripetizione autentica di una possibilità di esistenza che è stata, senza tuttavia mai produrre un’impossibile o illusoria restaurazione del passato[6]. Nella ripetizione non si intende dunque resuscitare un «passato in sé», oggettivo –  in altri termini: idealizzato e dunque staccato dalla vita –, ma si tratta piuttosto di riprendere una possibilità di esistenza passata nel movimento dell’esistenza presente.

Ora – mi sembra –, è proprio un’etica-estetica della memoria intesa come ripetizione quella che viene rivelata alla fine delle Vite minuscole, opposta dunque ad una poetica letteraria fondata sulla reminiscenza metafisica. In ultima analisi il narratore comprende che per salvare il mondo, gli esseri, e in primis se stesso, dal vuoto che minaccia tutto, è necessario fare appello ad una letteratura  in cui sia all’opera una forma letteraria fugace, uno stile che possa rendere il movimento temporale dell’esistenza, ossia della condizione reale dell’essere-al-mondo:

Possa uno stile appropriato aver rallentato la loro caduta: la mia sarà forse più lenta; possa la mia mano aver dato loro la facoltà di aderire nell’aria a una fugacissima forma dalla mia sola tensione creata; possano prostrandomi aver vissuto, in modo più autentico di come viviamo noi, quelli che a malapena furono e così poco tornano ad essere. Possano, forse, essersi manifestati, sorprendentemente (VM, p. 200).

Questo stile «appropriato» e questa forma «fugacissima» costituiscono il polo opposto dell’arcaismo, di quella letteratura che fissa il vivente in essenze mortuarie, proprio quella letteratura cui il narratore lungo il suo percorso esistenziale aveva ambito e che al contempo aveva temuto: «Lo ammetto: questa tendenza all’arcaismo, questi soprusi sentimentali quando lo stile non ce la fa, quest’antiquata ricerca dell’euforia, non è così che si esprimono i morti quando hanno ali, quando ritornano nel puro verbo e nella luce. Temo si siano ancor più offuscati» (VM, pp. 200-201).

Per realizzare il suo scopo, per restituire a questi morti una possibilità di esistenza, dovrà dismettere «questa lingua morta nella quale forse non si riconoscono» (VM, p. 201). E le ultimissime riflessioni del narratore lasciano intendere che il suo tentativo non è stato vano:

Eppure la loro ricerca, la loro conversazione, che non è silenzio, mi hanno dato felicità, e forse anche a loro ne hanno data; dalla loro rinascita abortita spesso sono stato lì lì per nascere, e sempre lì lì per morire insieme a loro; avrei voluto scrivere dall’alto di quell’attimo vertiginoso, di quella trepidazione, giubilo o inconcepibile terrore, scrivere così come un bambino senza parole muore, si dissolve nell’estate; con un’enorme, quasi indicibile emozione. Nessuna potenza stabilirà che non ci sono per niente riuscito. Nessuna potenza stabilirà che la mia emozione non è per niente esplosa nel loro cuore (VM, p. 201).

A me sembra che Michon sia effettivamente riuscito a rivolgersi al passato non tramite un atto di reminiscenza funeraria, ma effettuando una autentica ripetizione, una «ripresa», come direbbe Kierkegaard, di possibilità di esistenze passate[7]. Vale la pena a questo punto ricordare il valore del concetto di ripetizione come è stata formulato nella riflessione kierkegardiana:

La dialettica della ripresa è facile, quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere, ma proprio in questo essere già stato consiste la novità della ripresa. Quando i greci dicevano che conoscenza è reminiscenza, intendevano: tutto questo che è, è stato. Quando si dice che la vita è una ripresa, si intende: quel che è stato, sarà[8].

Vale la pena ricordare questa potenza della ripetizione proprio perché la si sente risuonare nell’explicit delle Vite minuscole:

Possa a Marsac nascere sempre una bambina. Possa la morte di Dufourneau essere meno definitiva poiché Élise si ricordò di lui o lo inventò, e quella di Élise essere alleviata da queste righe. Possa, nelle mie finte estati, il loro inverno indugiare. E nel conclave alato che si svolge a Les Cards sui ruderi di ciò che avrebbe potuto essere, tutti loro saranno (VM, p. 201)[9].

Ma questo percorso verso il passato non riguarda soltanto i propri genitori e i propri antenati: con ogni evidenza per uno scrittore si tratta di confrontarsi con la tradizione letteraria, che implica il problema cruciale della filiazione e dell’eredità culturale[10]. L’originaria mancanza ontologica potrebbe infatti essere ristabilita grazie alla ricerca di una paternità culturale, artistica. E proprio questa ricerca costituisce la tematica centrale di Rimbaud le fils, dove l’idea di filiazione è posta già nel titolo dell’opera. Qui si affiancano, o piuttosto s’incrociano due percorsi: quello di Rimbaud, anche lui privato del padre, che vuole assumere un’eredità letteraria per raggiungere il Padre supremo, il Genio poetico, e quello di Michon stesso che vorrebbe regolare i conti con la tradizione culturale, nella fattispecie proprio con Rimbaud che è stato, come lui stesso riconosce, all’origine della sua vocazione letteraria.

Anche il percorso di Rimbaud inizia con un rapporto difficile e irrisolto con i suoi genitori: la madre è un’ombra intrattabile mentre il padre è un’ombra assente. È dunque costretto a ricercare un’altra paternità, quella dei grandi poeti, per cui non è necessaria una filiazione biologica poiché avviene tramite un altro cordone ombelicale: l’alessandrino. Tuttavia, durante questa ricerca s’impone un duplice sentimento: da un lato un impulso alla venerazione, perché la filiazione doveva farlo giungere al «Nome ineffabile»[11], ossia all’assoluto dell’arte; dall’altro la consapevolezza che questi poeti, in realtà, si intromettono tra lui e l’assoluto. La filiazione, prima ansiosamente ricercata, viene allora rifiutata. E piuttosto che accettare un’altra paternità Rimbaud, «per essere totalmente Rimbaud», sceglie di «abbattere» ogni maestro. La sua vittoria si realizza altrimenti, la sua vittoria estetica ed etica consisterà nell’aver rivaleggiato con il Libro, quello con la L maiuscola, al fine di creare «uno dei nostri vangeli», oggi. «Il piccolo Geremia ha vinto, è stato più forte della letteratura pur restandovi all’interno, ci tiene in pugno» (RF, p. 98).

E il desiderio di Michon sarà di comprendere in che modo Rimbaud ci «tenga in pugno»: vuole afferrare la verità della sua opera per far luce sulla propria eredità culturale. Ma in questa indagine incontra subito una difficoltà che lo condurrà a considerare il senso dell’eredità in una nuova prospettiva: esplorando l’opera di Rimbaud, non può evitare di imbattersi in ciò che chiama la «Vulgata», ossia nella tradizione interpretativa che la avvolge: «Non mi ascoltate più, state sfogliando la Vulgata» (RF, p. 65). Ma di questa vulgata «non [si] può discutere» (RF, p. 66), perché non ci sono termini oggettivi per confermarla o rifiutarla. E soprattutto – il che è ancor più inquietante – Michon comprende che la Vulgata è del tutto inutile per penetrare il mistero dell’esperienza poetica rimbaldiana: «per la poesia una simile discussione è vana» (RF, p. 66). Ma allora, come regolare i conti con il poeta che sta all’origine della propria vocazione letteraria, se è impossibile comprenderne profondamente l’opera? In altre parole, come si potrà essere generati da una tradizione di cui non si può scandagliare la profondità? Come confrontarsi con un passato imponente come quello letterario?

In questo corpo a corpo con Rimbaud, Michon trova e propone una via d’uscita dall’impasse: si tratta di una soluzione che rifiuta non solo la tentazione di una venerazione idealizzante della lettera del testo ma anche la pretesa di una scrittura totalmente sciolta da un modello passato per creare a partire da una tabula rasa[12]. In effetti, comprendere la poesia – in questo caso quella di Rimbaud – risulta impossibile se si tenta di ridurla a un dato obiettivo, e dunque suscettibile di essere spiegato nella sua essenza, come se si trattasse di una formula matematica o di una composizione cifrata di cui si potrebbe trovare la chiave. Al contrario, suggerisce Michon, bisogna essere coscienti del fatto che ogni lettura si sovrappone al dato analizzato. Il contesto in cui vive l’interprete si insinua nella sua interpretazione, producendo un’altra realtà. La lettura diventa così una ri-scrittura, o meglio, una nuova scrittura, che contiene in sé la scrittura precedente:

E tali cose dolci ci permettono di non leggere la poesia, perché nessuno può leggerla – altrimenti chi crede che sia cifrata ne leggerebbe di più? Siamo canaglie romantiche. No, non leggiamo, io non più degli altri. E scriviamo una poesia, ognuno di noi a modo suo, sotto gli zucchetti di seta, come si faceva un tempo attorno ai bei canovacci di Troia e della Grecia. È la nostra poesia, e le poesie di Rimbaud rimangono nascoste all’interno della nostra, ben al chiuso, riservate, come postulate […] (RF, pp. 68-69) .

In ogni modo Michon si immerge a sua volta nel processo interpretativo, attribuendogli comunque un limite che ne dà la misura: «tutto è pronto per azionare il mulinello ermeneutico, per macinare interpretazioni entusiaste attorno a un’opera piccola e chiusa come un pugno, stretta come un pugno su un senso riservato» (RF, p. 94). Eppure, anche se l’opera si richiude su un senso, vero ma inconfessabile, ciò non squalifica la lettura, poiché essa non deve avere lo scopo di trovare un senso unico e ultimo, di cui non si saprà mai nulla: «Non si sa precisamente cos’è la Saison» (RF, p. 97). Il lavoro dell’interprete, ben cosciente del fatto che il dato analizzato resta chiuso e inconoscibile, dà vita però a una nuova opera che contiene in sé, sotto il segno della differenza, l’opera interpretata. La questione dell’eredità e della filiazione – oggetto dell’indagine di Michon nelle Vite minuscole e in Rimbaud il figlio – rivela una nuova declinazione e viene così sottratta al meccanismo deterministico della generazione, per riapparire come confronto con la tradizione dove la posta in gioco principale è lo scarto, la novità che si produce nel rapporto tra il passato e il suo interprete. In questa nuova prospettiva, l’autore, né generato, né demiurgo che crea ex nihilo, cosciente della storicità della propria attività ermeneutica, mira a comprendere se stesso interrogando l’altro, che rimane al centro della propria opera: «È la nostra poesia, e le poesie di Rimbaud rimangono nascoste all’interno della nostra, ben al chiuso, riservate, come postulate […]» (RF, pp. 68-69).

 Se di fronte al passato personale, familiare, la memoria come «ripetizione» permette di evitare di monumentalizzare il passato, e quindi di essenzializzarlo e devitalizzarlo, per quanto riguarda la tradizione letteraria, una nuova ermeneutica, ossia una scrittura che è ri-scrittura ridefinisce i contorni dell’opera letteraria: stabilisce un nuovo rapporto tra il presente della creazione e il passato della tradizione culturale.

[1] Cfr. D. Ribard, L’écriture historienne de Pierre Michon: la parole et la vision, « Critique », n. 694, marzo 2005, p. 187. Questo numero di « Critique » contiene un dossier intitolato Pierre Michon, historien, dedicato al rapporto tra lo scrittore e la storia.

[2] P. Bergounioux, La Cécité d’Homère. Cinq leçons de poétique rédigées pour être lues à la Villa Gillet durant l’automne 1994, Strasbourg, Circé, 1995, p. 75. Per i testi di cui non esiste edizione italiana le traduzioni sono mie.

Su questo argomento si è soffermato anche I. Farron: «Alle poetiche della tabula rasa delle avanguardie, come quella del Nouveau Roman nel suo periodo militante, Michon oppone un lavoro di esplorazione del passato, una preoccupazione costante dell’origine che lo conduce a scandagliare la memoria individuale e collettiva, a cercare nei suoi antecedenti, come anche nella storia intesa nel senso più vasto, ciò che lo fonda o lo costituisce come soggetto e come scrittore» (I. Farron, La Grâce par les poèmes, Carouge-Genève, Zoé, coll. «Écrivains», 2004, p. 13).

[3] «I romanzi di Michon rivelano un’ampiezza singolare della nozione di eredità, in quanto essa è ancorata ad una storia individuale in cui l’assenza del padre compromette la possibilità stessa della filiazione. […] Se il racconto si rivolge al passato, se si attribuisce un dovere di testimonianza, ciò è perché il mondo dietro di lui è pronto a scomparire, trascinato dalla spirale del vuoto» (A. Wrona, Pierre Michon, le monde en héritage, in Écritures contemporaines 1. Mémoire du récit, textes réunis par D. Viart, Paris-Caen, Minard, coll. « La Revue des lettres modernes », 1998, p. 84).

«La tematica del padre assente inflette il testo michoniano inscrivendo la scrittura autobiografica sotto il segno della mancanza da compensare. Postula simultaneamente una inaccessibilità – che va al di là della persona paterna per estendersi al mondo e alla scrittura – e il desiderio di superare questa inaccessibilità. Ma essa è anche volentieri esibita dall’autore nelle sue interviste come un “biografema funzionale” o addirittura un semplice “dispositivo testuale”» (I. Farron, Pierre Michon. La grâce par les , cit., p. 91). Cfr. anche G. Titus-Carmel, Peindre, écrire l’absence, in Compagnies de Pierre Michon, Paris Lagrasse, Verdier, coll. « Théodore Balmoral », 1993, p. 141 ; S. Loubry, Pierre Michon – Le défaut et la grâce, in Écritures contemporaines 2. États du roman contemporain, textes réunis par J. Baetens et D. Viart, Paris-Caen, Minard, coll. « La revue des lettres modernes », 1999, pp. 159-171 ; D. Viart, « Le père absent » et « L’absence par défaut », in Dominique Viart commente Vies minuscules de Pierre Michon, Paris, Gallimard, coll. « Foliothèque », 2004, pp. 64-68.

[4] P. Michon, Vies miuscules, Paris, Gallimard, 1984; Vite minuscole, trad. it. di Leopoldo Carra, Milano, Adelphi, coll. «Fabula», 2016, p. 76. D’ora in poi citato con la sigla VM, seguita dall’indicazione della pagina.

[5] Sulla questione della filiazione cfr. S. Simotas, Pierre Michon, la question de la filiation, in Pierre Michon entre pinacothèque et bibliothèque, textes réunis par I. Farron et K. Kürtös, Berne, Peter Lang, coll. « Variations », 2003, pp. 57-76 ; D. Viart, Le récit de filiation, in Écritures contemporaines 2, cit., pp. 70-72.

[6] «Solo un ente che nel suo essere sia essenzialmente AD-VENIENTE, cosicché, libero per la propria morte, possa, infrangendosi in essa, lasciarsi rigettare sul proprio Ci effettivo; cioè, solo un ente che, in quanto ad-veniente, sia cooriginariamente ESSENTE-STATO, può, tramandando a se steso la possibilità ereditata, assumere il proprio esser-gettato ed essere, NELL’ATTIMO, per “il suo tempo”. Solo una temporalità autentica, che è nel contempo finita, rende possibile qualcosa come un destino, cioè una storicità autentica.

Non è necessario che la decisione conosca esplicitamente l’origine delle possibilità su cui essa si progetta. Ma è invece nella temporalità dell’Esserci, e solo in essa, che è riposta la possibilità di andar a prendere esplicitamente, a partire dalla comprensione dell’Esserci tramandata, quel poter-essere esistentivo in cui esso si progetta. La decisione, ritornante su se stessa e auto tramandante, diviene allora la ripetizione di una possibilità di esistenza trasferita. La ripetizione è il tramandamento esplicito, cioè il ritorno alle possibilità dell’Esserci essenteci-stato. La ripetizione autentica di una possibilità d’esistenza essente-stata (il fatto che l’Esserci si scelga i suoi eroi), si fonda esistenzialmente nella decisione anticipatrice: infatti è in essa che viene primariamente scelta quella scelta che rende liberi per la lotta successiva e per la fedeltà a ciò che è da ripetere. Il ripetente autotramandamento di una possibilità essente-stata, non apre l’Esserci essente-ci stato a una pura e semplice restaurazione del “passato”, né consiste in un semplice collegamento del “presente” con ciò “che fu prima”. La ripetizione, scaturendo da un autoprogettamento deciso, non si lascia sedurre dal “passato “per lasciarlo ritornare come il reale di prima. La ripetizione è piuttosto una replica alla possibilità nel decidersi, in quanto concentrata nell’attimo, è anche la revoca di ciò che al momento sta per mutarsi in “passato”. La ripetizione non si abbandona al passato e non tende al progresso. Per l’esistenza autentica entrambi sono, nell’attimo, indifferenti» (M. Heidegger, Essere e Tempo, trad. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, pp. 461-462)..

[7] Nel rifiuto della reminiscenza si può anche riconoscere un rifiuto dell’assoluto romantico da parte di Michon. Su questo argomento cfr. D. Viart, Dominique Viart commente Vies minuscules de Pierre Michon, cit., pp. 142-144. Sul valore retorico di parole quali Senso, Dio, Assoluto, è Michon stesso a fornire spiegazioni in Entretien avec Michon, in «Scherzo», n. 5, ottobre 1988, pp. 10-11.

[8] S. Kierkegaard, La ripresa, trad. it. di A. Zucconi, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, p. 33.

[9] Sul rapporto di Michon con il passato cfr. anche S. Coyault-Dublanchet, Mesures de l’instant, in La Province en héritage, Genève, Droz, coll. «Histoire des idée set critique littéraire», 2002, pp. 202-207 et J.-F. Hamel, La résurrection des morts. L’art de la « mémoire de l’oubli » chez Pierre Michon, in Le Roman français au tournant du XXIe siècle, sous la direction de B. Blanckeman, A. Mura-Brunel, M. Dambre, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 2004, pp. 141-150.

[10] Sulla questione della filiazione nel romanzo francese attuale cfr. D. Viart, Dominique Viart commente Vies minuscules de Pierre Michon, cit., pp. 115-139.

[11] P. Michon, Rimbaud le fils, Paris, Gallimard, 1991 ; Rimbaud il figlio, trad. it. di M. Ferrara, Reggio Emilia, Mavida, 2005, p. 17. D’ora in poi citato con la sigla RF, seguita dall’indicazione della pagina

[12] Durante una conversazione con Marianne Alphant, Michon afferma: “La tabula rasa è una stupidaggine, perché abbiamo letto, e quindi scriviamo su e con la letteratura universale, non possiamo passarle accanto” (Rencontre avec Pierre Michon, propos recueillis par M. Aliphant, in L’Œil de la lettre, Orléans, Dossier de la librairie Les Temps Modernes, 1994, p. 6). Su questo argomento cfr. M.-O. André, Identités narratives: comment peut-on devenir écrivain? À propos de P. Michon et R. Millet, in Le Roman français au tournant du XXIe siècle, cit., pp. 495-504.

[Immagine: Bruno Catalano, I viaggiatori]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *