di Mauro Piras
I.
La lotta politica, almeno nelle cosiddette democrazie occidentali, sembra avvenire solo contro degli usurpatori. Gli avversari vengono dipinti come una degenerazione di qualcosa, una forma corrotta della politica democratica, che ne tradisce radicalmente i principi e, soprattutto, non ha la dignità di un vero progetto ideale, ma o sollecita forze irrazionali delle masse o è semplicemente al servizio del dominio sociale ed economico. Così, per esempio, qualsiasi politica di gestione moderata dell’economia viene etichettata come “neoliberista”, asservita a imperativi sistemici economico-finanziari; oppure viene ricondotta alla pura autoconservazione di una classe dirigente ormai oligarchica; all’estremo opposto, qualsiasi voto popolare che metta in crisi partiti di establishment viene liquidato sbrigativamente come “populismo”, voto di pancia che sollecita i peggiori umori delle masse; ogni voto che rovescia o diserta partiti tradizionali diventa genericamente “voto di protesta”; e ogni appello diretto al consenso popolare, contro l’irrigidimento della rappresentanza formale, è “demagogia”. E così via, in un gioco noioso e prevedibile per cui l’avversario viene sempre ridotto a un fantoccio antidemocratico. Ma la democrazia non può funzionare con una simile rappresentazione degli avversari politici. Per ragioni sia di principio che funzionali. Per ragioni di principio: i cittadini di una democrazia liberale dovrebbero riconoscersi come liberi e eguali, tuttavia negare dignità alle ragioni dell’avversario, nel dibattito politico, significa rifiutare questo riconoscimento. Ma soprattutto per ragioni funzionali e, per così dire, di strategia elettorale: dal momento che, nel bene e nel male, il potere si fonda sulla legittimazione tramite il voto, non capire le ragioni dell’avversario, e ridurlo sempre a una macchietta, impedisce a un partito di recuperare voti nell’elettorato degli avversari. Probabilmente, questa sorta di “inconsistenza ideale” della lotta politica è dovuta alla fine dei confronti ideologici forti. I due modelli rivali che hanno egemonizzato il conflitto politico nel Novecento, liberalismo e socialismo (in tutte le loro varianti), nonostante la durezza dello scontro, e l’uso di un linguaggio denigratorio nei confronti dell’avversario, conoscevano e riconoscevano reciprocamente i rispettivi progetti ideologici generali, e li prendevano sul serio: i liberali sostenitori del capitalismo sapevano che dall’altra parte c’era un altro modello di società, un progetto politico forte, non riducibile a dilettantismo o inconsapevolezza, e lo combattevano in quanto tale; e lo stesso avveniva per i socialisti. Adesso, invece, molto spesso si sottovaluta la dignità ideologica, culturale, di progettualità politica, dell’avversario, e così la vita politica si imballa, gli elettori sono disorientati, o polarizzati in modo del tutto irrazionale (e questo anche nei confronti del “nemico esterno” delle democrazie liberali, l’integralismo islamico).
La politica democratica avrebbe tutto da guadagnare dal recuperare una prospettiva più sostanziale. I movimenti che la stanno trasformando potrebbero diventare più chiari, generare meno paura, e rendere possibili nuove mediazioni politiche, se si accettasse di portare alla luce i progetti ideali di democrazia sottesi alla diverse posizioni in campo. Faccio qui una proposta di mappatura, molto impressionistica, che cerchi di operare questo cambio di prospettiva. I quadri generali che tenterò di delineare non corrispondono ai “programmi dei partiti”, né alle linee politiche dei loro dirigenti, ma a degli “stati dell’opinione”: si tratta di idee generali sottese a certe posizioni politiche, condivise da ampie parti dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti; sottolineo che si tratta di “idee generali”, cioè ideali di democrazia, diverse sue interpretazioni intorno alle quali i cittadini si dividono. Fare questo sforzo di “riportare all’ideale”, alla visione generale, serve a capire che tutte queste posizioni sono dentro la tradizione democratica, per quanto con letture molto diverse, e non ne sono invece degenerazioni o fuoriuscite. Le posizioni delle forze politiche in campo, come vedremo, corrispondono in parte a queste visioni, ma altre volte le fondono e le sovrappongono, in maniera imprevedibile, a seconda delle circostanze politiche specifiche.
Se guardiamo al panorama politico attuale, si possono individuare quattro di queste interpretazioni della democrazia: 1) la democrazia nazionale e/o identitaria; 2) la democrazia partecipativa e sociale; 3) la democrazia rappresentativa liberal-conservatrice; 4) la democrazia rappresentativa progressista. Li elenco e li analizzo in questo ordine, strettamente alfabetico, per evitare di imporre subito a questa categorizzazione la distinzione destra-sinistra, che rischia di leggere alcune posizioni come “derivazioni” o peggio “degenerazioni” di altre. L’ordine alfabetico permette di parlare di ogni posizione per se stessa; inoltre ognuna è definita come una interpretazione della democrazia, radicata nella sua storia. Ogni posizione verrà esposta a partire da due metri di analisi: la sua concezione della constituency democratica, cioè la sua idea dei fondamenti di legittimazione della democrazia, con le conseguenze politiche che ne discendono; il suo rapporto con il capitalismo, cioè la sua idea di società nell’ambito dei rapporti economico-sociali.
La democrazia nazionale e/o identitaria
La base di questa posizione è una idea del demos in termini di appartenenza storica e culturale, di tradizione. Il “popolo” che si esprime nelle istituzioni democratiche è una comunità costituita da una storia, da una lingua, da una tradizione culturale, da un ethos condiviso (spesso la nazione, ma a volte anche comunità più ristrette, locali). I confini della democrazia sono quelli che demarcano questa comunità da chi non gli appartiene, da chi è esterno a essa perché appartiene a un’altra storia e a un’altra identità. Il fine delle istituzioni democratiche è sì quello di rappresentare la volontà popolare, ma di rappresentarla in quanto espressione di questo popolo, e quindi di questa identità. Il bene a cui esse devono tendere è la promozione di questa identità, senza la quale la democrazia sarebbe svuotata. Eguaglianza e libertà, i due pilastri ideali della democrazia moderna, sono interpretate dentro questa cornice: i confini del demos delimitano allo stesso tempo i limiti di chi viene considerato eguale nei diritti di cittadinanza e i limiti dello spazio delle libertà individuali. La preservazione dell’identità storica della comunità fonda e guida l’azione politica, definendo un “primato” di chi vi appartiene rispetto a chi ne è esterno. Lo Stato, in questa concezione della democrazia, è “forte”, si colloca nella tradizione europea della “sovranità” e dello Stato-Nazione: non riconosce la superiorità giuridica di organizzazioni internazionali o associazioni di Stati (come l’Unione Europea), né accetta l’universalismo dei diritti e il cosmopolitismo, ma interpreta la scena internazionale come il luogo dell’affermazione e dello scontro delle identità particolari dei popoli.
Di conseguenza, sul piano della politica economica, questa posizione rifiuta la globalizzazione come processo di integrazione economica transnazionale. Non rifiuta il capitalismo come sistema sociale, non vede cioè in esso la radice dei mali sociali, ma rifiuta la globalizzazione come campo uniforme di scontro tra privati, che non tiene conto delle identità dei popoli. Il mercato globale diventa invece il luogo dove scontrarsi per affermare e tutelare il bene della propria collettività. La politica economica quindi non è anticapitalista e antiglobalista in senso proprio, ma è protezionista in senso molto lato. Tende cioè a creare le condizioni per favorire il benessere degli appartenenti al demos. Sul piano internazionale, si può servire certo della tradizionale politica doganale, ma anche di accordi di libero scambio, quando questi sono vantaggiosi e mirati; sul piano interno, vale il principio “prima i nostri”, nella redistribuzione delle risorse (sussidi, servizi ecc.), nella politica fiscale, negli incentivi ecc.
La democrazia partecipativa e sociale
Per questa concezione, il soggetto fondativo e legittimante della democrazia è costituito dai cittadini che partecipano alla deliberazione pubblica. La democrazia non è, come per il primo modello, il regime che dà voce a una collettività storica, ma è quello che assicura l’identità tra governati e governanti tramite la partecipazione e la deliberazione collettive. Alla radice si trova l’idea della democrazia diretta: libertà è partecipare al processo decisionale. Nel contesto delle società complesse, la libertà diventa l’attivismo dei militanti, cioè di una minoranza mobilitata che sottopone costantemente a controllo l’operato dei “delegati” e impone un mandato imperativo sull’azione di governo. L’impossibilità di convocare in assemblea la totalità dei cittadini viene aggirata con i mezzi della comunicazione informatica e i social media, ma soprattutto con i presìdi garantiti da manifestazioni, riunioni, gruppi di discussione ecc. L’obbiettivo di questa visione politica è quello di riportare la sovranità popolare alla sua radice, rovesciando la rigidità dei sistemi rappresentativi, la chiusura delle classi politiche e dirigenti ecc.
La parola d’ordine quindi è realizzare l’eguaglianza promessa dalla democrazia, realizzare cioè un’eguaglianza che superi quella formale dei regimi rappresentativi, diventando sostanziale, sia politica che sociale. La prima viene realizzata attraverso forme inedite di democrazia più o meno diretta. La seconda è il fine dell’azione politica: intervenire a favore dei ceti più deboli, operando una redistribuzione delle risorse e limitando le forze disgregatrici del mercato. Lo stato sociale deve essere riattivato contro le forze cieche del capitalismo.
Sul piano della politica economica anche questa posizione è antiglobalista, ma per ragioni di equità sociale, non per ragioni identitarie. La globalizzazione è la scena dello sfruttamento planetario dei lavoratori, il campo livellante che mette tutti i lavoratori in concorrenza e così li indebolisce di fronte al capitale. Per questa ragione, la democrazia partecipativa e sociale è anticapitalista, non solo antiglobalista: individua nel mercato strutturato dalla logica del profitto la causa essenziale del dominio sociale e dell’ingiustizia, e un potenziale pericolo per la democrazia. Il suo obbiettivo è portare la società fuori dalle dinamiche di mercato, generando invece partiche solidaristiche tramite la partecipazione, la redistribuzione delle risorse, l’autogestione economica in piccole comunità, la riduzione della domanda indotta dal mercato (la “decrescita”), l’attenzione alla cura dell’ambiente sociale e naturale. Gli strumenti concreti di questa politica, economica e non solo, non si limitano a quelli tradizionali dello Stato (imposte, accordi economici, incentivi ecc.) ma si collocano sul piano, più basso, dell’interazione sociale: consumo consapevole, finanza etica ecc.
La democrazia rappresentativa liberal-conservatrice
Qui, il popolo che fonda la legittimazione democratica è formato da individui eguali e liberi che mirano a realizzare i propri fini egoistici e a tutelare, primariamente, la loro sfera di libertà privata. La volontà popolare si esprime non nella promozione dell’identità storica collettiva, come nel primo caso, né nella partecipazione pubblica, come nel secondo, ma nella rappresentanza politica, nella delega del momento deliberativo a rappresentanti che hanno il compito di mediare tra interessi e punti di vista. Il principio-guida fondamentale è la libertà detta “negativa”: questo implica una concezione “leggera” dello Stato, un primato della società civile e quindi della libertà economica. La società intesa come sfera dei conflitti tra egoismi contrapposti si identifica in larga parte con il mercato, e di conseguenza questa prospettiva sostiene e promuove il capitalismo come orizzonte sociale. La libertà prevale sull’eguaglianza, che viene realizzata solo sul piano formale. O meglio: l’idea di eguaglianza è declinata a partire dalla eguale libertà di soggetti indipendenti, quindi non implica né il multiculturalismo né l’eguaglianza sociale. La teoria è quella della “gara dei talenti”: vinca il migliore, una volta che sono garantite le condizioni di eguaglianza alla partenza. Le scelte culturali e le posizioni sociali cadono nella sfera privata, e i conflitti che ne derivano non sono mediati dalla politica.
Nella politica economica, questa posizione sostiene, ovviamente, il capitalismo di mercato e la globalizzazione, seguendo la tradizione settecentesca del libero-commercio portatore di benessere economico, progresso e civilizzazione dei costumi. Sostiene le politiche economiche “neoliberiste”, tese a favorire il funzionamento del mercato, tramite la riduzione della spesa pubblica, il controllo dell’inflazione, lo stimolo agli investimenti tramite l’offerta (cioè il miglioramento delle condizioni di mercato) e non tramite la domanda, gli accordi internazionali di libero-scambio, la libera circolazione di tutti i fattori di produzione (capitale e lavoro), la riduzione dei vincoli sul mercato del lavoro ecc. Nel complesso, punta più all’efficienza economica che all’equità, fiduciosa negli effetti di crescita del benessere e di redistribuzione promossi “naturalmente” dal mercato. Le diseguaglianze create dalla crescita dei profitti non sono un problema, se questa crescita genera benessere. La globalizzazione è così l’occasione della crescita e dello sviluppo anche per società molto arretrate, non è il luogo del conflitto tra popoli per le risorse né la fonte dello sfruttamento planetario della forza-lavoro.
La democrazia rappresentativa progressista
Anche in questa prospettiva, ovviamente, la legittimità democratica si fonda su una concezione del popolo come associazione di individui liberi e eguali, la cui volontà deliberativa è espressa da un corpo rappresentativo. Anche qui, ovviamente, le libertà individuali hanno un ruolo costitutivo: la democrazia non è possibile se non tutela anche i diritti di libertà. Tra i due principi fondativi, tuttavia, viene sottolineata maggiormente l’eguaglianza. O meglio: l’idea di eguaglianza è intesa non solo come eguale libertà, ma come eguali possibilità di realizzare il proprio progetto di vita. Al di sotto dell’eguaglianza formale dei diritti, questa posizione cerca di perseguire, nel contesto di una democrazia liberale e di una società di mercato, una maggiore eguaglianza sostanziale sul terreno sia culturale che sociale. Ecco perché fa proprie le lotte per i diritti civili, la difesa degli spazi della diversità culturale e la difesa dei diritti sociali nel mondo del lavoro. Questi ambiti vengono di solito relegati nella sfera del privato dalla teoria liberal-conservatrice, mentre la posizione progressista li concepisce come pubblici perché attraversati da rapporti di dominio. Tutto questo però avviene senza abbandonare la prospettiva dell’economia di mercato, nella convinzione che una società civile autonoma dal potere politico è garantita da un sistema economico che non è assorbito dallo Stato. Questa prospettiva, nel complesso, si autocomprende come uno sviluppo del liberalismo e della democrazia nel senso dell’eguaglianza sociale.
Sul piano della politica economica, quindi, questa posizione non è antiglobalista, né ostile al capitalismo di mercato. Promuove istituzioni internazionali e sovranazionali che medino i conflitti politici ed economici a livello globale. Cerca di trovare il punto di equilibrio tra efficienza ed equità, o meglio di porre dei vincoli di equità alle esigenze dell’efficienza economica. Riconosce nella crescita del benessere un presupposto delle politiche di giustizia sociale, e quindi cerca di limitare le forze distruttrici del capitalismo senza ostacolare la riproduzione del profitto. Riconosce anche, in una certa misura, gli effetti redistributivi resi possibili dall’efficienza del mercato. Per queste ragioni, si muove su linee di politica economica non sempre identiche: a volte cerca di favorire la promozione degli investimenti con la spesa pubblica, altre volte cerca di correggere gli squilibri dei conti pubblici; cerca di stimolare la domanda senza rompere gli equilibri finanziari, oppure di favorire l’offerta con incentivi, o con la liberazione dei fattori produttivi. Cerca di pensare nuove forme di regolazione del mercato del lavoro e di welfare che tengano conto dei limiti imposti dal mercato globale e dal ridimensionamento del potere di intervento dello Stato sull’economia.
II.
È una facile tentazione ricondurre queste quattro posizioni alla dicotomia destra-sinistra, secondo un schema diffuso nel dibattito pubblico: “destra antisistema” – “destra di sistema” – “sinistra di sistema” – “sinistra antisistema”. Questo modello porta poi alla dicotomia che sta diventando dominante in questi ultimi tempi: globalisti vs antiglobalisti (europeisti vs antieuropeisti), establishment vs antisistema, per poi ricadere nelle contrapposizioni delegittimanti ricordate all’inizio: democrazia vs populismo, oppure, in senso inverso, capitalismo finanziario vs democrazia. Si ritorna alla semplificazione iniziale e se ne trae poco vantaggio.
È più utile invece cercare di tracciare la genesi di queste quattro posizioni, per vedere come in esse si disperdano promesse politiche prima tenute insieme da forze ideologiche e politiche più ampie. E poi vedere come questi “progetti ideali” si rapportino alle reali forze politiche in campo, che non sempre li rispecchiano.
All’origine, certo, si trova la dicotomia che ha dominato il Novecento: liberalismo vs socialismo. Per spiegare la situazione attuale, bisogna riferirsi al secondo Novecento e alle varianti riformiste del socialismo, nonché a quelle più o meno keynesiane del liberalismo. La crisi di entrambe è stata determinata dalla ristrutturazione del capitalismo globale a partire almeno dalla fine degli anni Settanta, e dal rafforzamento dei meccanismi di interdipendenza economica globale (la “globalizzazione”).
Sul piano della politica economica, il rallentamento dei tassi di crescita nei paesi ricchi e l’indebolimento del potere dello Stato hanno comportato una crisi di entrambi i modelli. La sinistra socialista di governo si è trovata ad adottare, prima con convinzione, poi sotto i colpi della crisi finanziaria, politiche “neoliberiste”, fondate sulla riduzione dei disavanzi e sul rigore di bilancio, e sulla priorità di rendere competitivi la produzione e il mercato del lavoro a fronte della concorrenza internazionale. Questo cambio di paradigma li ha portati, soprattutto dopo la crisi economica, a perdere voti, non più però in direzione della sinistra “rivoluzionaria” (diciamo verso i suoi eredi, i partiti di sinistra “non governativa”), sempre più residuale, ma prevalentemente verso le destre che proponevano un’idea di “democrazia nazionale” ancorata a un ruolo forte dello Stato, oppure verso nuove forme di protesta antisistema, di tipo partecipativo e sociale, fondate sui movimenti. La crisi dello Stato nella gestione dei processi economici ha fatto esplodere la dicotomia tradizionale, che presupponeva come un dato di fatto la capacità di assumere quel ruolo. Il passaggio da una gestione dell’economia di “state embedded markets” a una, all’opposto, di “market embedded states” ha reso impossibile il compromesso socialdemocratico di sviluppo e redistribuzione. Ma ha fatto saltare anche la variante liberale della politica economica: quest’ultima aveva assunto come suo verbo la svolta “neoliberista”, in nome della crescita del benessere e della competitività, ma questa svolta ha portato al disastro della crisi finanziaria e produttiva successiva al 2008, perdendo credito anche nell’elettorato di destra. Che a questo punto ha preferito rivolgersi a un’idea di democrazia nazionale, tendenzialmente antiglobalista (“sovranista”, come si dice). Sul terreno economico, i due elettorati delusi di sinistra e di destra convergono ampiamente su questo punto.
Sul piano delle politiche “culturali”, dei diritti e della difesa delle identità storiche, la destra liberal-conservatrice classica ha sempre cercato un compromesso tra la difesa della tradizione e i principi dell’individualismo, tutelando le identità storiche pur nel quadro liberale. Tuttavia, tra la fine del Novecento e i primi anni Duemila la spinta prevalente, sia in Occidente che fuori, come reazione alle patologie della modernità, è stata quella di un rafforzamento radicale delle identità particolari, fossero esse nazionali, religiose o locali. La destra liberale ha iniziato a ospitare in sé questa spinta (si pensi ai “neoconservatori” di Bush jr) ma a un certo punto è stata scavalcata da varianti che hanno proposto queste concezioni identitarie “allo stato puro”. Ovviamente, lo scontro con il terrorismo islamico ha estremizzato questa tendenza, nella contrapposizione tra “noi” e “loro”: solo una democrazia nazionale forte, convinta dei propri valori, fondata su uno stato forte, può proteggerci dall’attacco del terrorismo islamico, e preservare i rapporti sociali tradizionali dalla corrosione della globalizzazione. In questo schema mentale hanno perso terreno sia la destra liberale moderata, incapace di rispondere così nettamente a queste esigenze, sia la sinistra socialista di goerno, che ha tradito le sue promesse di giustizia sociale e non sa come proteggere i “nostri” dagli attacchi del terrorismo.
La fuga degli elettori dai “partiti tradizionali” (cioè destre liberal-conservatrici e sinistre socialiste di governo) è andata a depositarsi verso due nuove forme politiche, la democrazia nazionale e identitaria e la democrazia partecipativa e sociale. Ovviamente, non sono così nuove, dal momento che fin dalla nascita della modernità politica (Rivoluzione francese) queste tendenze sono emerse dal suo interno, o come reazione a essa: la democrazia diretta dei sanculotti, o il nazionalismo romantico di inizio Ottocento. Sono però nuove nel quadro post-novecentesco, per diverse ragioni: l’egemonia che esercitava il modello liberalismo vs socialismo che aveva come corollari, all’esterno del sistema, le destre nazionaliste antimoderne (cioè fasciste) e le sinistre anticapitaliste rivoluzionarie; il carattere non rivoluzionario del modello partecipativo e sociale; il carattere non eversivo dell’idea di democrazia nazionale; lo svuotamento della tradizione socialista, che ha reso indipendente la variante democrazia rappresentativa progressista.
Insomma, il quadro è molto più complicato. Soprattutto, la novità rispetto al Novecento (e soprattutto rispetto alla crisi delle democrazie tra le due guerre, spesso evocata, e agli strascichi di quella crisi nel secondo dopoguerra) è che le varianti non liberali e non rappresentative si riconoscono nelle istituzioni democratiche, per quanto con principi e metodi diversi. È un errore continuare a pensare che l’idea di democrazia nazionale sia semplicemente erede del fascismo, e che l’idea di democrazia partecipativa e sociale sia semplicemente la rinascita di un ideale rivoluzionario o di democrazia diretta ostile alle istituzioni dello stato di diritto rappresentativo.
Se si seguono le evoluzioni delle forze reali, questo emerge ancora meglio.
Nelle ultime elezioni presidenziali francesi le quattro tendenze si sono viste quasi allo stato puro. La vecchia destra neofascista ha ormai assunto i tratti della democrazia nazionale, altrimenti non avrebbe avuto una forte legittimazione elettorale non solo con l’ottimo risultato al primo turno, ma soprattutto superando la soglia delle percentuali residuali al secondo turno; Mélenchon ha raccolto al meglio le istanze della democrazia partecipativa e sociale (emersa nei movimenti contro la “Loi Travail”, per esempio), innestandole in una tradizione di sinistra che in Francia ha sempre avuto una ascendenza giacobina e sanculotta; Fillon ha saputo mantenere forte la proposta della democrazia rappresentativa liberal-conservatrice; Macron si è collocato in maniera esplicita nella linea della democrazia rappresentativa progressista che non si richiama più al socialismo, ma ha vinto anche grazie alla sua ambiguità, che lo ha spostato più marcatamente al centro. Come vedremo, in questo gioco di quattro possibilità, vince chi riesce a porsi a cavallo di due di esse, con una buona dose di ambiguità politica.
In Spagna, “Podemos” rappresenta al meglio la posizione partecipativa e sociale, senza mescolanza, ha capitalizzato bene la crisi dei partiti tradizionali, ma non al punto di riuscire a prendere la guida del governo. La destra conservatrice più tradizionale, il PP, è riuscita invece a prevalere elettoralmente grazie al fatto che comprende in sé gli elementi più tradizionalisti del franchismo, contenendo così la spinta verso una nuova destra nazionalista. I socialisti pagano cara la loro compromissione con le politiche di governo, e si rilanciano, per ora solo a livello di candidature, con una svolta verso posizioni più sociali e “sovraniste” (Sánchez). Una parte di un’idea di cittadinanza “centrista” è espressa da un’altra nuova formazione politica, “Ciudadanos”.
In Gran Bretagna, i conservatori pro-Brexit hanno messo in evidenza la presenza di due posizioni nella destra, spaccandola e intercettando l’opposizione sociale ai disagi della globalizzazione, nonché il timore nei confronti del terrorismo globale; Theresa May conduce la sua campagna elettorale cavalcando senza timore temi sociali “di sinistra”, in chiave di appartenenza nazionale (“prima gli inglesi”). Corbyn capitalizza le delusioni del Labour “liberista”, ma il partito è di fatto diviso. Nei due partiti si vede quindi, attraverso le divisioni interne, la presenza di tutte e quattro le posizioni, intrecciate e sovrapposte.
La Germania è il paese che conserva al meglio il bipolarismo tradizionale. L’area di centrodestra, sotto la guida della Merkel, cresce e si rafforza, contenendo ai suoi margini, secondo il tradizionale schema novecentesco, le destre xenofobe e razziste. Dall’altro lato, l’SPD, nonostante le illusioni dell’“effetto Schulz”, manifesta le difficoltà tipiche dei socialisti europei, per quanto in modo meno grave, perdendo consensi non solo a sinistra, ma anche a destra, verso la CDU. Bisognerà chiedersi allora se il tenace successo di questo partito non derivi dal fatto che anch’esso, da tempo, ha fatto una svolta verso la “democrazia nazionale identitaria”, per quanto con toni più morbidi e meno appariscenti, sovrapponendola alla sua identità liberal-conservatrice. A sinistra dell’SPD non si forma una forza di nuovo tipo, cresce ma poco la tradizionale Linke.
Gli Stati Uniti, ovviamente, hanno un schema di gioco diverso, poiché non provengono dalla contrapposizione liberalismo vs socialismo, ma da quella repubblicani vs democratici, che si leggeva tradizionalmente come conservazione vs progressismo. Il campo conservatore si è scisso e ha fatto nascere dal suo seno una forma nuova, che è l’incarnazione più evidente dell’idea di “democrazia nazionale”, con Trump. Le evoluzioni, in parte imprevedibili, della sua politica interna ed estera stanno mostrando però che non è affatto la “destra xenofoba e razzista”, cioè una minaccia per la democrazia, ma una variante della democrazia. Che tra l’altro, per quanto esaltatrice dell’identità nazionale e del potere economico dello stato (“sovranista”), non è cosi antiglobalista come sembrava. Nel campo democratico, l’idea di democrazia rappresentativa progressista resiste, ma indebolita, per i troppi cedimenti al liberismo, e per l’incapacità di intercettare le nuove forze sociali. I movimenti di contestazione “antisistema” come “Occupy Wall Street” sono la radice ideale di ogni partito di tipo partecipativo e sociale, ma non trovano sbocco istituzionale nel sistema politico statunitense.
Infine, l’Italia, che come la Francia è un laboratorio molto interessante, per ragioni diverse. Il M5S ha avuto negli ultimi anni una grande crescita elettorale perché, con una certa ambiguità, in parte consapevole in parte no, fa convergere in sé tanto le istanze della democrazia sociale e partecipativa (terreno su cui è nato l’attivismo di Grillo) sia quelle della democrazia nazionale (terreno da cui provengono alcuni dei suoi militanti e dirigenti, e su cui il movimento è molto presente). Quest’ultima radice chiarisce le prese di posizione su temi quali l’immigrazione o i diritti delle coppie omosessuali; la prima, invece, spiega la forza della lotta contro un establishment politico irrigidito e a volte oligarchico (si vedano le importanti vittorie elettorali di Torino e Roma). Entrambe, però sono accomunate dall’opposizione alle politiche “neoliberiste” e dal rilancio di politiche economiche “sovraniste”: tramite questo aspetto le due radici si rafforzano a vicenda, innestandosi sul tema tutto italiano della lotta alla corruzione e alla “casta”, e rendono possibile il grande successo del M5S, al di là delle sue difficoltà di governo delle città.
Il PD cerca di incarnare il passaggio alla democrazia rappresentativa progressista, e in questo ha avuto inizialmente qualche successo, giocando su una certa ambiguità centrista, come fa ora Macron in Francia. Tuttavia, questo passaggio è culturalmente debole, e incerto politicamente, perché in Italia non c’è mai stata una sinistra socialista di governo, né sono bastate le due (in realtà una e mezza) tardive esperienze del centrosinistra prodiano a costituirla. Il PD renziano fa fatica a scegliere chiaramente l’idea progressista e europeista (nella reale pratica politica), tende a volte a inseguire il M5S sul terreno della lotta alla “casta”, o su quello della democrazia nazionale. Trae vantaggio però dalla crisi del centrodestra liberal-conservatore.
In quest’area, il berlusconismo ha cercato di rispondere in modo molto originale (molto “italiano”) alla crisi politica ed economica degli anni Novanta, fondendo liberismo, modernizzazione economica, destra conservatrice tradizionale e spinte nazionaliste, insieme però anche a tendenze corporative e clientelari. Questa mescolanza precaria di elementi così eterogenei, se ha permesso di vincere all’inizio, è saltata sotto i fallimenti politici e la crisi economica finanziaria del 2008: molti elementi sono finiti verso il M5S, una parte verso la Lega (che ha saputo incarnare al meglio l’opzione della democrazia identitaria), una parte anche verso il PD. Forza Italia si è ridotto così a rappresentare la tradizionale destra liberal-conservatrice, in una posizione debole e sulla difensiva, come in altri paesi.
Il quadro, ovviamente, è in movimento, e le forze politiche reali incarnano in modo vario e imprevedibile le tendenze di fondo, in funzione di esigenze elettorali, tradizioni politiche e abitudini dell’elettorato. Ma è sempre stato così, si pensi all’eterogeneità degli interessi e dei gruppi sociali rappresentati dalla DC, o anche dal PCI, se confrontati con le loro “posizioni ideali”. Queste costituiscono però le linee direttive secondo le quali si orienta l’opinione pubblica: all’epoca erano date dalla contrapposizione di fondo tra liberalismo e socialismo, con ai margini le forze realmente antisistema: neofascismi e comunismi rivoluzionari. Adesso, la novità è che tra le opzioni ideali nessuna è realmente antisistema. Tutte si riconoscono nella democrazia, nessuna ha come progetto finale il rovesciamento radicale o addirittura violento del sistema sociale e politico. Le varianti non liberale e non rappresentative della democrazia (quelle che nel dibattito pubblico vengono contrapposte ai “partiti tradizionali”) sono due opzioni che vi si riconoscono, che non sono un pericolo per essa. Questo gli elettori, con più lungimiranza delle classi dirigenti, lo sentono, e votano per queste opzioni (come fanno da molto tempo con la Lega in Italia) non “per protesta”, “per abbattere il sistema”, “per (solo) disagio sociale”, ma perché trovano in esse delle risposte. Queste risposte vanno riconosciute, non vanno ridotte a dei fantocci privi di senso politico (“demagogia”, “populismo”). Solo in questo modo anche le forze che invece credono ancora nel progetto di una democrazia rappresentativa, con tutte le sue debolezze, possono evitare a loro volta di ridursi alla difesa ideologica del dominio delle classi dirigenti, cioè, di nuovo, un fantoccio politico.
(Firenze, 27 maggio 2017)
[Immagine: Jacques-Louis David, Il giuramento della Pallacorda]
Buongiorno Dott.or Piras,
il suo articolo è interessante e sono d’accordo con molte sue parti. Mi preme sottolineare, come sembra faccia anche Lei, che a forza di denigrare tutto, probabilmente abbiamo aiutato il capitale a distruggere molto di quello che avevamo di buono.
Viceversa, mi sembra che le sue conclusioni ritornino ad alcune idee tipiche della sinistra radicale.
Sono d’accordo infatti con la tesi di Costanzo Preve, di “Marx inattuale”, e sul fatto cioè che il tempo messianico di Block e Sartre della frattura rivoluzionaria con il tempo conservatore fu proprio una delle cause del collasso del socialismo reale. Da questo punto di vista, continua Preve, ci colsero di più Max Weber e il vecchio Luckàcs con la loro idea di “quotidianità” e “rispecchiamento”, che sostituivano la categoria della frattura con quella della religione della normalità.
Preve tuttavia, pur essendo in disaccordo su questo particolare aspetto, non disdegna affatto questi autori. Si ricorderà infatti che, sempre nelle tesi di Block, Sartre e Benjamin, il movimento del tempo era di tipo regressivo-progressivo.
C’è molto in comune con Heidegger, ma a differenza di quest’ultimo, per i due francofortesi e Sartre, la ‘nostalgia’ diventa una piattaforma di lancio verso il futuro, non il punto di arrivo ma una tappa obbligata da attraversare.
Questo per dire, a mio avviso, che non c’è nulla di male nel portare avanti un autentico progetto politico solidamente “riformista” e graduale piuttosto che anelare al tutto e subito, e alla completa rivoluzione socialista.
Inoltre, se le istituzioni democratiche del dopo guerra hanno portato a pieno regime il conflitto tra capitale e lavoro, l’alienazione della vita quotidiana, il consumismo sfrenato e il keynesiano di guerra, è vero anche il contrario: che hanno portato allo statuto dei lavoratori, ad uno Stato che disciplinava il movimento dei capitali, delle merci, delle persone, il controllo parziale della base monetaria, la spesa a deficit per finanziare servizi, welfare, creare occupazione, e settori industriali strategici, che hanno dato la possibilità ad un popolo sovrano di controllare in parte la propria democrazia parlamentare.
Quindi, andare avanti si, ma attraversando necessariamente la Storia.
Io direi che Block, Benjamin, Luckàcs, Sartre, Weber, possono convivere insieme fra loro, e anche ad esempio con un Mazzini. Quello di cui abbiamo bisogno infatti non è andare per forza avanti, né rimanere incastrati nel passato, né tifare per un autore piuttosto che per un altro.
Direi che abbiamo bisogno piuttosto di un mosaico, di una costellazione che ci sia utile.
Non abbiamo bisogno di buttare via quello che ha funzionato, che si è storicamente realizzato, che ci è servito a creare una qualità di vita migliore, come la Costituzione, la regolazione del sistema bancario del ’36, e i diritti sul lavoro.
Tornare di alcuni passi indietro per farne molti avanti.
Grazie per il suo intervento.
Mi permetto di consigliarle un ottimo articolo di Carlo Fermenti sempre sulle questioni che interessano anche Lei.
http://appelloalpopolo.it/?p=26920
Ottima analisi, molto equilibrata, grazie all’Autore. L’unico piccolo appunto riguarda “l’antisistemicità” delle forze che si oppongono alla UE o più in generale al mondialismo. Esse sono certamente sistemiche se per “sistema” si intende il quadro della democrazia rappresentativa a suffragio universale (anche perchè è il punto debole dei loro avversari). Sono però “antisistemiche”, in forme e gradi diversi, se per “sistema” si intende invece il quadro UE o la prospettiva “governo mondiale”. Il che spiega anche, almeno in parte, il timore del “salto nel buio” degli elettorati (oltre naturalmente alle loro proprie insufficienze). Gli elettorati percepiscono correttamente che il governo di una forza recisamente contraria all’UE o al mondialismo sarebbe un “salto di sistema”, anche se non comporterebbe la fuoriuscita dal capitalismo tout court e/o dalla democrazia rappresentativa a suffragio universale. Esemplare per antifrasi di questa dinamica la riconfigurazione vittoriosa dei partiti di destra e sinistra intorno a Macron.
Caro Mauro, il tuo articolo propone una classificazione interessante, con l’intento di dimostrare che, in fondo, l’assunto democratico è dato ormai per acquisito e accettato da ogni proposta politica in competizione. Non sono d’accordo. La democrazia, come peraltro altre categorie politiche, non sono mai storicamente stabili come leggi di natura (nel senso appunto di essere acquisite una volta e per sempre), ed è fin troppo facile citare esempi europei (clamorosi nel secolo scorso) di partenze democratiche i cui esiti si riveleranno poi infausti per la democrazia stessa. E all’interno delle stesse democrazie quanta non-democrazia alligna, a partire dai rapporti di forza sociali!
In estrema sintesi: la democrazia, come la libertà e l’uguaglianza (e i diritti) sono sempre a rischio e vanno difese in uno stato di vigilanza permanente e attiva.
Ma ammetiamo che sia così, che cioè tutte e ciascuna delle forze che si incasellano in un modo o nell’altro nella tua sistematizzazione accettino il gioco democratico. Allora rimane sullo sfondo del tuo discorso, ma dirimente secondo me, il rapporto con il capitalismo, convitato di pietra niente affatto disposto a fare da semplice spettatore – e di fatto non lo è mai stato. E’ qui che, nonostante tutto, continua ad avere una sua valenza una proposta vecchia, anzi desueta per i più (tu la definiresti senz’altro “residuale”): quella di socialismo.
Socialismo che persegua l’obiettivo di una società moderna, industriale, ma non capitalista.
Perché se è vero che alcune delle posizioni che tu citi (quelle rubricate sotto la voce “Democrazia partecipativa e sociale”) riportano ad elementi di anticapitalismo, per quanto ne so spesso lo fanno con modalità regressive, utopistiche perfino, assolutamente antistoriche e in ogni caso poco inclini a fare i conti su quanto ci viene consegnato dallo sviluppo economico e dalla storia. E’ evidente quindi che queste forze, laddove riuscissero ad avere il consenso sufficiente ad accedere al governo, non potrebbero se non ripiegare verso compromessi (anche imbarazzanti) con il potere economico – come si può verificare e si verificherà sempre di più nel futuro – avendo anche messo da parte, come da te evidenziato, ogni opzione rivoluzionaria, oggettivamente impraticabile (e comunque non nelle loro corde).
Oggi pare che non sia neanche più pensabile un’alternativa non capitalista, ragione per cui l’allocuzione “società socialista” risuona con la stessa modalità con cui risuonerebbe la proposta di una società sul modello di quella di Ciro il Grande! E questo falsa tutto il discorso, perché se è vero che il capitalismo è elemento costante delle moderne società (ormai mondiali, sicuramente occidentali), è anche vero che l’equazione capitalismo = democrazia è falsa, che il primo non implica la seconda, ma per ciò stesso non è vero che la seconda implica il primo, cioè il capitalismo non è condizione economica e sociale necessaria e sufficiente per la democrazia.
E una società democratica non capitalista può ben essere una società socialista (o come più aggrada chiamarla, a questo punto). Di qui bisogna ripartire, senza dimenticare che in questi ultimi quarant’anni non è più esistita in pratica una riflessione in grado di affrontare realisticamente questo problema, un periodo in cui la sinistra è rimasta bloccata tra le Scilla e Cariddi dell’arresa volenterosa alle dottrine liberiste da una parte e della nostalgia rivoluzionaria e del movimentismo velleitario dall’altra. In sostanza manca una teoria articolata sui problemi che abbiamo davanti, prima che una prassi senza guida precisa. Pensare che le efficienze del mercato possano e debbano essere lasciate senza controllo è un suicidio per molte ragioni, ma pensare che in fondo le si possa ancora governare “rispettando i vincoli” per me significa solo fare la figura dell’utile idiota, se poco poco ci si sofferma a pensare alla forza ormai politica che l’odierno capitalismo delle multinazionali è in grado di mettere in campo.
Caro D’Alessio,
grazie per l’apprezzamento e per il suggerimento. Io tuttavia non scomoderei tutta questa grande teoria filosofica: cerco solo di notare che le prospettive politiche attuali sono uscite dalla dicotomia liberalismo-socialismo, e che le forze etichettate come “antisistema” sono in realtà trasformazioni della democrazia, vanno prese sul serio anche in termini ideali.
Concordo però sulla costanza di uno sforzo riformista quotidiano.
Caro Buffagni,
grazie anche a lei per l’apprezzamento. Io penso che “antisistema” sia una etichetta di comodo per non capire articolazioni più complicate. Non sempre gli elettorati hanno paura del “salto nel buio”, come si è visto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, per esempio. La compattazione degli elettorati in Francia a favore di Macron è anche il risultato delle ascendenze di Marine Le Pen, e del carattere dirompente e innovatore della candidatura di Macron, fuori dal sistema dei partiti politici.
Caro Alberto,
anche io penso che la democrazia non sia affatto irreversibile; come tutte le istituzioni umane, è precaria. Tuttavia, volevo far notare che le forze politiche che si confrontano oggi l’hanno accettata molto più di quanto si creda, e di quanto avvenisse in altre epoche. E’ un dato di fatto che può modificarsi, ovviamente, ma è utile per capire che queste forze politiche hanno significati diversi da altre con cui le si confondono. In sintesi: mentre la politica novecentesca è stata dominata dal binomio liberalismo-socialismo, che aveva ai suoi confini delle forze antisistema (politico-sociale) di destra (fascismi) e di sinistra (comunismi, sinistre rivoluzionarie), adesso il quadro è diverso, e le forze che si confrontano sono varianti della democrazia, non necessariamente conciliabili.
Sul capitalismo: è vero che le forze in campo, in fondo, non hanno una visione di una società alternativa, e questa è appunto una differenza radicale rispetto al Novecento. L’unica visione di una società alternativa che si oppone alle democrazia capitaliste (unite storicamente, non logicamente, su questo hai ragione) è quella dell’Islam radicale. Ma se le cose stanno così, la teoria non deve progettare un nuovo tipo di socialismo, ma capire queste due cose: 1) perché la funzione di alternativa radicale al capitalismo è passata dal socialismo al fondamentalismo religioso; 2) perché non si riesce a pensare una società organizzata su una forma produttiva diversa.
Sulla domanda 1) non ho neanche una barlume di riflessione.
Sulla domanda 2) avrei molto da dire, ma mi limito a queste cose (approssimative), rimandando anche alle cose che avevo scritto in questo sito sulla “elaborazione del lutto utopico”: i successi di fatto, sulla lunga durata, del capitalismo nel creare benessere, nonostante le crisi, si contrappongono ai fallimenti di altri esperimenti sociali: se la società socialista non può essere realizzata con il controllo statale dell’economia, per i limiti che questo ha mostrato, non abbiamo gli strumenti per pensarla; e soprattutto un’ultima cosa: io credo che l’idea stessa di cambiare la struttura di fondo della società con un progetto politico sia il frutto di una distorsione di prospettiva indotta da una lettura sbagliata della Rivoluzione francese. In realtà questa non ha cambiato la struttura sociale con un progetto politico, perché questo non è possibile. Il fatto che i rapporti sociali siano prodotti storicamente non vuol dire che siano modificabili, nella loro struttura, secondo un progetto. Quindi, secondo me, il capitalismo è il livello di differenziazione sociale in cui ci troviamo: possiamo solo capirlo e cercare di rendere possibili, in esso, rapporti sociali più equi. Vedere in esso solo male è sfruttamento è del tutto unilaterale.
grazie a Lei professor Piras della risposta.
Sono tra l’altro completamente d’accordo sul suo appunto: ovvero, sulla necessità di riportare al centro della politica la sfida tra socialismo e liberismo.
Ma proprio per questo, nella fase attuale, portare avanti un progetto politico che vuole riaffermare, ad esempio, la Costituzione del ’48, che fu un compromesso democristiano-comunista, realizzata perciò in un contesto democratico parlamentare, sarebbe paradossalmente un atto rivoluzionario (mi azzardo a dire anti-sistema).
Ecco perché il mio bisogno della chiosa filosofica: perché ciò che è ‘parlamentare e democratico’, e quindi parte di un mondo considerato vecchio e reazionario, in realtà è stato già cancellato e sostituito da una democrazia esautorata post 1989.
Il recupero di una democrazia svuotata, così come di una Costituzione disapplicata (misura e disciplina del Capitale) costituisce un passo regressivo verso il futuro.
Grazie di nuovo
Un caro saluto
Per una strana combinazione, questo articolo di Piras viene pubblicato in perfetta coincidenza con la apparizione della nuova proposta di legge elettorale, secondo cui, risulta probabile che il nuovo parlamento veda proprio la presenza di quattro forze politiche, quelle stesse che Piras qui descrive.
Ciò segna in qualche misura pregi e limiti della sua analisi.
I pregi stanno nella capacità di descrivere lo status quo, i limiti la visione statica che come tale si limita a registrare l’esistente.
Il mio punto di vista è che l’attuale situazione politica non rappresenti una sedimentazione storica con elementi di significativa stabilità, ma che al contrario sia soltanto come un fotogramma di un filmato, che quindi ci dice di più nel collegarla al recente passato, come segno di una evoluzione in corso, che nella sua stretta attualità.
L’elemento di fondo rimane la fase storica che il capitalismo ha imboccato, e la conseguente crisi da cui esso si dimostra incapace di uscire.
Lo scoppio di una prima bolla finanziaria nel 2008 ha aperto questa fase, un altro scoppio è destinato a chiuderla senza che si capisca come ne verremo fuori, senza tra l’altro potere neanche escludere una nuova guerra mondiale forse combattuta con ordigni nucleari.
Per queste ragioni, il posizionamento di una forza politica nei confronti del capitalismo, non di uno ipotetico ma di quello effettivo che osserviamo, rimane la pietra di paragone, il criterio che finisce col qualificare e differenziare tra loro le forze politiche.
La crisi profondissima di quella che veniva definita sinistra e che di fatto ne ha decretato la scomparsa, almeno nel senso dell’uso stesso di questo tipo di designazione, deriva proprio dall’errore nello scambiare la forza ed il successo indubbio del capitalismo, con una sua capacità di proporre soluzioni valide per un periodo significativamente lungo e quindi di autoperpetuarsi.
Sia la componente socialdemocratica che ha subito l’agenda capitalista facendosi così carico delle sue compatibilità in un clima di perenne emergenza, sia quella dura e pura, incapace di riconoscere la debolezza e l’autodistruttività del capitalismo in questa fase, relengandosi in un ruolo di testimonianza sul piano delle conquiste sociali ed in primissima fila su quello della rivendicazione di sempre più estrosi diritti civili, hanno entrambe finito col determinare la propria inutilità.
Piras sostiene che non v’è oggi alcuna alternativa al capitalismo se non nel fondamentalismo islamico.
Ciò è naturalmente vero se guardiamo a movimenti già esistenti, ma io credo che la nuova ideologia che può cambiare il mondo e per questa via salvarlo, sia quella ambientalista, vittima innazintutto degli stessi ambientalisti in quanto succubi del pensiero liberale.
Perchè il fondamentalismo islamico è l’unico che possa ergersi con forza di frontre al capitalismo? Prorpio perchè si tratta di un fondamentalismo, cioè è portatore di una propria ideologia.
Allo stesso modo, l’ambientalismo potrà costituire un’alternativa al capitalismo, quando riuscirà a purificarsi dell’ideologia liberale che lo impregna, sviluppando sino in fondo propri principii ideologici e smettendo così di costituire il prezzemolino di tutte le pietanze politiche. Pensare di superare il capitalismo senza sconfiggere l’ideologia liberale appare del tutto illusorio.
L’altro elemento chiave rispetto a cui è divenuto imprescindibile schierarsi è quello rispetto alla globalizzazione.
Qui, occorre fare una precisazione. E’ certamente vero che le forze antiglobaliste numericamente di gran lunga più consistenti stanno a destra.
Tuttavia, sarebbe un errore ignorare che nuove forze che potrebbero essere più facilmente ascrivibili alla sinistra, sono anch’esse antiglobaliste, sono quelle forze che si autodefiniscono sovraniste.
Il sovranismo, malgrado la sua modesta quota di consensi e anche la sua eterogeneità, ha tuttavia già influenzato la politica promuovendo una conversione delle altre forze antiglobaliste che adesso evitano di definirsi nazionaliste. in sostanza, già oggi in quest’area politica èrevale più che la promozione della prorpia nazione, la promozione della forma stato-nazione come modello tuttora fondamentale per garantire democrazie costituzionalmente garantite.
Aggiungerei che poichè la globalizzazione è neoliberista e promossa dal capitale, in verità tutte le forze antiglobaliste in modo più o meno consapevole, si collocano in un’are anticapitalista.
Articolo molto, molto interessante e per quanto mi riguarda largamente condivisibile. La questione del “riconoscimento dell’altro”, ovvero dell’avversario politico come una controparte, non come un nemico, è centrale.
Col tempo, e per via del fatto che non sono più un ragazzino come nel 1994, sono arrivato a capire gli elettori di Berlusconi, a dargli addirittura ragione su alcune (non troppe) cose e a superare quell’ansia e quell’urgenza da “eccezione democratica” che erano tipiche dell’opposizione che gli si faceva.
Non voglio dire che non ci fossero ragioni di preoccupazione (le forzature ci sono state eccome), però non era nemmeno l’Armageddon, e forse ora lo posso riconoscere. Mi sento anche molto maturo e molto saggio per questa ritrovata serenità, ma forse mi illudo: Berlusconi ha ora un ruolo molto più defilato e quindi l’animosità viene meno “naturalmente”.
Se volessi dare per davvero mostra di vera saggezza, dovrei riuscire ad essere “magnanimo” non con le sparse vestigia del PDL, ora di nuovo FI, ma con la nuova “eccezione democratica”: il M5S.
E qui faccio tanta fatica in più. Non riesco a non considerare come vagamente alieno un movimento che si riconosce in Di Maio o Di Battista, che preferisce credere alle scie chimiche piuttosto che ai vaccini, che banalizza, storpia e semplifica ogni cosa. A dire il vero, non mi sembra che il M5S abbia la possibilità, la forza o anche soltanto la volontà di instaurare un governo autoritario. Però il potere di farmi andare il sangue alla testa sì, ce l’ha.
E’ un mio limite, diciamo, ma moltiplicato per i milioni di elettori che non si riconoscono nel M5S, il problema è più serio. Per ora non ho risposte particolari, se non quella di cercare di rimanere una persona civile.
Insomma, ogni volta che su Parole e Cose si pubblica un articolo ‘politico’ spunta fuori la cordata degli intellettuali e accademici organici sovranista per cui esiste solo la politica, dato che solo la politica sarebbe in grado di soddisfare i loro appetiti repressi… Lo sono già pagati dallo Stato ma non abbastanza.
Più o meno il tipo umano del mio amico X, uno scienziato che vive e lavora in Germania per un importante ente scientifico legato al Ministero della Difesa che ha chiesto recentemente la cittadinanza tedesca e ha spostato tutti i suoi soldi in Germania, però insiste ossessivamente con chiunque perché l’Italia si riprenda la sovranità monetaria e combatta il predominio ‘nazista’ in Europa – lui intanto si è protetto da eventuali imprevisti finanziari scegliendo la futura moneta forte…
Mi trovo in un gruppo lib-lab, che ha ceduto a poco a poco ideali, principi, lotte, conquiste. Non mi trovo bene qui. La democrazia liberale non è problema di questi tempi. Non esiste. Esistono milioni di diseredati, di poveri, di corpi venduti, di ingiustizie perpretate sulla specie umana e sui figli piccoli della specie. Noi siamo diventati piccoli e mostruosi. Allora si pensi ad altri progetti,, non a vuote parole, sigle, dietro cui non c’è niente di buono per una vita degna di essere vissuta. Non c’è nè una democrazia ,nè un socialismo possibile. Ce li siamo giocati a carte un giorno che eravamo distratti. Costruiamo altri movimenti, altra passione politica, un altro progetto che sia valido per tutti. Che infonda speranza e senso di giustizia sociale, che ci restituisca la terra non più rigenerata artificialmente, disseccata, avvelenata. bruciata da guerre vacue e vane.
Io con voi non mi trovo bene.
I giovani non si trovano bene.
Avevano sperato qualcosa di più dai loro nonni. Un’eredità di idee che fosse in grado di far vivere tutti dignitosamente.
Io scappo di qui.
Cerco un luogo dove si possa stare con migranti ,profughi, con noi stessi che abbiamo lasciato pezzi di idee, di progetti, noi anche profughi di un mondo che, con lotte e principi validi, dovevamo abitare meglio .
E allora voi ,fanatici liberali, riempitemi pure di insulti. State bene tra di voi. Nessuno o pochi vi voteranno
Davvero dai margini della mia amatorialità (anche meno) filosofico-politica. Rilancio quanto detto da Alberto (Ferrero), con una sfumatura diversa.
La tua quadripartizione ideale, Mauro, mi pare convincente, e riesce a descrivere le attuali forze in campo andando al di là delle reciproche scomuniche.
Ho solo un’obiezione non teorica, ma pratica e, dicevo, assomiglia un po’ all’obiezione di Alberto.
Sinistra-destra, sistema-antisistema, sono etichette che rischiano di farci capire la realtà, come dici.
Però c’è un elemento. Leggevo stamattina un’intervista a Monti, che si lamentava delle possibili elezioni anticipate e manifestava la sua ormai ben nota insofferenza per Renzi: intervista che è esemplare di una forma mentis.
Brutalmente, il ragionamento di questa forma mentis è questo: le elezioni e in generale i sommovimenti che attraversano le democrazie sono rischiosi per la stabilità e i mercati vogliono stabilità. L’Europa deve garantire stabilità: alla moneta, agli investimenti, a politiche comunitarie di lungo respiro che sappiano in certo modo prescindere da questa o quella coalizione politica e orientamento politico (sarà per questo che la Germania si trova così bene dentro questa Europa, lei così abituata alla Grosse koalition?). Ci vedo un po’ di ricattatorio, almeno logicamente, in tutto questo. Ma andiamo oltre.
Faccio un’ipotesi e una domanda rozze, e le giro a te che di queste cose capisci meglio di me: ammettiamo che la democrazia, come esperimento storico (come lo chiamiamo? sicuri che non sia un po’ troppo un “destino”?) sia un recinto dentro cui tutti ormai stanno, un panorama indiscutibile. Stabile.
Ergo: difendere la stabilità e il “panorama democratico” si equivalgono. Ma come ha già suggerito Alberto, sicuri che non difendiamo il capitalismo, anche, con tutto ciò? Sicuri che questo quadro non venga usato strumentalmente (un po’ consapevolmente un po’ no) da interessi costituiti che tendono a perpetuarsi?
E intendo proprio il capitalismo brutto sporco e cattivo, non quella differenziazione sociale cui accennavi tu: gli interessi dei monopoli e delle troike.
E se invece la democrazia, proprio perché lotta fra alternative, richieda per costituzione instabilità o, quanto meno, radicalità? Lo domano più come ipotesi metastorica che come ipotesi politica, perché sappiamo cosa abbia prodotto nel Novecento il salto in avanti.
(sulla questione del capitalismo come “differenziazione sociale”: se vuoi dire che il capitalismo è il nome di qualcosa di storicamente già accaduto e ineluttabile, che non è solo rapacità, ma una profonda trasformazione sociale, capisco cosa vuoi dire. Mi piacerebbe sapere da te che cosa pensi, se lo leggerai, dell’ultimo libro di De Carolis, di cui è stato pubblicato un estratto anche qui su LPLC. Lì c’è un’idea del genere: il neoliberalismo è l’unica proposta teorica che abbia intercettato questa trasformazione profonda. Solo che è già fallito. E’ un libro secondo me straordinario, anche se non è di filosofia politica, ma un libro di antropologia filosofica, con venature metafisiche. Di qui il suo fascino e, magari, il suo limite per la politica guardata a un piano più rasoterra).
Le categorie che qui vengono delineate sono molto complete e rispondenti alla realtà. Però non si tiene conto del posizionamento degli elettori e dell’influenza che ha sui partiti. La tendenza generale dell’elettorato, tanto in Italia quanto all’estero, è all’astensione e alla sfiducia verso “la politica”. Si viene a creare, in questo, modo un enorme giacimento di voti di cui nessuno schieramento politico può vantare i diritti di sfruttamento. La lotta per questa potenziale base elettorale è feroce e segue la volontà del pubblico che osserva la campagna elettorale. Credo che, per questo motivo, sia difficile trovare coerenti interpretazioni della democrazia. I diversi partiti abbandonano istanze tradizionali e interpretazioni tipiche della realtà. Il percorso politico procede a zig zag tra le istanze più sentite del momento, con l’elaborazione di proposte di policies che hanno l’obiettivo di intercettare le masse di voti degli indecisi più che raggiungere ideali di società.
Anche la continua delegittimazione dell’avversario, credo sia funzionale a questa lotta per gli indecisi. Questo tipo di comunicazione aggressiva è indirizzata agli elettori “decisi”, al fine di rafforzare la coesione. Si vuole comunicare, ad un elettorato già convinto, il disastro che un’altra formazione arrecherebbe al Paese. Ogni voto diventa fondamentale per evitare il disastro.
Le categorie che ha elaborato hanno un senso se le si guarda come punto di partenza per un percorso a zig zag più che di un percorso che tende a descrivere una linea retta. Ogni partito si sposta su interpretazioni della realtà che appartengono ad altri partiti, seguendo il flusso dell’informazione.
I partiti, si potrebbe dire in maniera provocatoria, seguono le logiche del marketing più che della politica. I sondaggisti esultano.