di Francesco Orlando

[Presentiamo un estratto del saggio di Francesco Orlando, Il soprannaturale letterario, uscito nei giorni scorsi per Einaudi, a cura di Stefano Brugnolo, Luciano Pellegrini e Valentina Sturli, e alcune pagine dell’introduzione dei curatori. Il volume, che compare a quasi sette anni dalla morte del critico, porta a compimento una ricerca pluridecennale ed è fatto integralmente di materiale inedito. L’indagine si sviluppa alternando due capitoli teorici e due capitoli che propongono il close reading di testi compresi fra il Medioevo al primo Novecento: Rutebeuf, Ariosto, Tasso, Cervantes, Perrault, Shakesperare, Goethe, Grimm, Hogg, James, Kafka e Bulgakov. Dal secondo capitolo del saggio è tratta l’analisi di The Mysteries of Udolpho (1794) di Ann Radcliffe, incentrata sull’ipotesi che, all’indomani della svolta razionalista dei Lumi, sia possibile recuperare un soprannaturale dagli effetti inquietanti solo a patto di sottoporlo sistematicamente – mediante l’indissolubile intreccio di risorse tematiche e formali – al dubbio e all’incertezza da parte di un nuovo tipo di coscienza critica in bilico fra terrore e ragione. Oggi alle 17 il libro di Orlando verrà presentato da Guido Paduano, Gianluigi Simonetti e Sergio Zatti all’Università di Pisa]

Quando si è incerti se credere o no al soprannaturale: The Mysteries of Udolpho di Radcliffe. 

The Mysteries of Udolpho (1794) di Ann Radcliffe è universalmente riconosciuto come uno dei vertici del romanzo gotico. Siamo nell’Inghilterra di fine Settecento, il paese piú avanzato d’Europa e, cosa ancora piú importante, siamo in un’epoca in cui una nuova razionalità si è imposta: il grande problema diventa se sia ancora possibile un soprannaturale dopo l’Illuminismo. Alla stessa altezza cronologica della pubblicazione dei Mysteries of Udolpho Goethe era impegnato nella composizione del Faust, e certamente si poneva la stessa domanda. Com’era dunque possibile una risorgenza del soprannaturale forte su base nuova? […]

Ora, l’innovazione piú originale riguarda la localizzazione: sappiamo già che essa può essere spaziale e temporale, ma nel caso del gothic novel è come se la localizza- zione spaziale prevalesse rispetto a quella temporale, e la seconda fosse condensata nella prima. Ann Radcliffe scriveva per lettori protestanti e inglesi come lei, mentre il romanzo è idealmente diviso in due grandi parti corrispondenti a due castelli situati nel Sud dell’Europa: Udolpho, appunto, che si trova sugli Appennini, e Château-le-Blanc, vicino ai Pirenei in Linguadoca. Nell’ottica di un lettore protestante inglese del Settecento, l’ambientazione in Italia e in prossimità della Spagna comporta la presenza di resti e residui medievali molto piú forti di quanti non se ne ammettessero e concepissero in Inghilterra: tirannia feudale, superstizione cattolica, passionalità sfrenata e rovine illustri. Citando Walter Scott, il maggior narratore inglese della stessa generazione dell’autrice, tutto questo deve valere per «dar probabilità a eventi che non po- trebbero, senza una grave violazione della verità, venire rappresentati come se si fossero svolti in Inghilterra»[1]. E la conferma ce l’abbiamo in un romanzo della Austen, Northanger Abbey, che rasenta deliziosamente la derisione del soprannaturale. La giovane Catherine è disillusa e rinsavita, dopo aver creduto di rivivere Udolfo nell’ammodernata Abbazia di Northanger che la ospitava. No, certi orrori non resterebbero nascosti, nel luogo «where roads and newspapers lay everything open»; di sicuro non nella parte centrale del paese, a non voler proprio garantire per zone marginali[2].

La direzione geografica verso Sud, se considerata in una prospettiva settentrionale e protestante, è anche una direzione simbolica culturalmente regressiva. Possiamo renderci meglio conto di questa tendenza se consideriamo quali sono le localizzazioni nello spazio e nel tempo dei principali romanzi gotici tra il 1764 (anno di pubblicazione di The Castle of Otranto[3] di Horace Walpole) e il 1820. Se per quella temporale notiamo una tendenza che parte dal remoto Medioevo per avvicinarsi sempre piú alla contemporaneità, per quella spaziale ci si sposta decisamente verso sud. Il che significa che non serve piú un’ambientazione temporalmente ar- caica laddove la regressione può essere affidata alla localizzazione spaziale: gli scrittori e i lettori d’Inghilterra proiettano nel Meridione cattolico, superstizioso, feudale, turbolento, passionale, il loro stesso passato superato.

The Mysteries of Udolpho è ambientato nel 1584, ma la protagonista Emily, come suo padre, coltiva valori apertamente settecenteschi, borghesi, protestanti; la sua razionalità superiore minacciata dal dubbio si accorda con un’individualistica intimità, familiare e sentimentale, ma anche con un certo gusto del paesaggio, della natura. Per esempio, all’inizio del romanzo viene detto che la scelta del padre, Monsieur St. Aubert, di andare in Linguadoca nel castello di Château-le-Blanc era stata dettata dalla volontà di ritirarsi verso «scenes of simple nature»[4], ma nessuno nel Cinquecento avrebbe pensato a una cosa del genere. Anche quando si tratta di abbattere due vecchi abeti per migliorare la visuale, il padre si rifiuta di farlo e preferisce avere il panorama mutilato pur di non toccarli in quanto carichi di ricordi. E quando poi Monsieur St. Aubert muore, Emily torna a fare un vero e proprio pellegrinaggio sentimentale e laico, secondo il modello dato da Goethe nel Werther, nei luoghi dei propri ricordi. Se famiglia, memoria, intimità sono i nuovi valori positivi, i controvalori sono rappresentati dall’estroversione mondana – autoritaria o ambiziosa o frivola, reificata per lo piú in personaggi femminili negativi, e spesso percepita come disvalore cattolico –, ma soprattutto dalla figura del losco, bello, audace Montoni, che la protagonista teme ma anche ammira. Mentre lui incarna un nuovo tipo di villain che non rispetta nessun diritto e non risponde di nessuna atrocità, Emily incarna perfettamente la figura della giovinetta perseguitata, la ragazza che un certo gusto letterario amava mettere di fronte ad avventure e pericoli di ogni sorta cosí da poter ottenere dai lettori il massimo della commozione e partecipazione.

Rispetto alla razionalità e ai valori borghesi che Emily rappresenta, la localizzazione meridionale tende a incombere come travolgente minaccia di qualcosa di oscuro, indeterminato, un trovarsi in balia di eventi che non si capiscono, in un ambiente lontano da quello familiare, dove mancano i consueti riferimenti al proprio rassicurante sistema di valori. È proprio su questo sfondo che si va delineando una nuova concezione di sublime, quella espressa da Edmund Burke[5] secondo cui le «passioni che riguardano l’autoconservazione»[6] sono le più potenti di tutte. È soprattutto l’oscurità e l’ignoranza di chi vi si trova immerso a mobilitare l’i- stinto di conservazione e a favorire cosí questo nuovo tipo di sublime nel lettore: «poiché nell’oscurità piú profonda è impossibile sapere in quale grado di sicurezza noi ci troviamo, ignoriamo gli oggetti che ci circondano» [7].

Nel romanzo di Radcliffe questo nuovo sublime si articola in varie direzioni. Il primo distinguo da operare è quello tra natura e cultura: c’è prima di tutto il sublime della natura selvaggia, rappresentato per eccellenza dai Pirenei e dagli Appennini; c’è poi un sublime derivato da una cultura superata, tipica di altre epoche e di paesi piú arretrati. All’inizio del romanzo ci troviamo in Linguadoca e i «majestic Pyrenées» sono all’orlo del paesaggio con i loro «tremendous precipices»[8] che contrastano con le delizie pastorali. Verso la metà del romanzo avviene poi lo spostamento a Udolpho dei protagonisti, i quali, viaggiando attraverso «deep solitudes»[9], penetrano negli «Apennines in their darkest horrors»[10]. Nel nuovo paesaggio «the mountains seemed to multiply as they went, and what was the summit of one eminence proved to be only the base of another»[11], e a Emily una gola selvaggia e appartata sembra «the very haunt of banditti»[12]. L’altro aspetto di orrore sublime, con tutto quello che rappresenta nello sviluppo della trama, è la cultura superata che ha il suo fulcro in Italia, incarnata da Montoni, il cattivo di questo romanzo, che già nella sua prima apparizione richiama Burke e la teoria che il terrore sia legato all’ignoranza: nel suo sguardo c’è qualcosa di misterioso, e i suoi lineamenti so- no belli, ma da essi traspare come un ricordo di colpe passate. È proprio Radcliffe che, ispirandosi al Satana miltoniano, ha inventato con questo personaggio l’eroe romantico dal passato oscuro: «Emily felt admiration, but not the admiration that leads to esteem; for it was mixed with a degree of fear she knew not exactly wherefore»[13].

Man mano che il romanzo procede, la paura mista ad ammirazione che la protagonista prova per Montoni si rivelerà storicizzabile e persino politicizzabile: è suscitata dall’arbitrio che non rispetta i limiti posti dalle legislazioni moderne alle prepotenze dei signori che, come Montoni, rivendicavano ancora una libertà d’azione di tipo feudale. Per la giovane e moderna Emily Montoni è un capitano di banditti, e se di fatto non lo è ne possiede però tutta l’audacia e l’atrocità, che naturalmente gli derivano anche dal suo muoversi in luoghi arretrati, ancora recalcitranti ad accettare le nuove norme del diritto e della civiltà: «and she beheld herself in the remote wilds of the Apennine, surrounded by men, whom she considered to be little less than ruffians»[14].

Dentro questa prima localizzazione favorevole al soprannaturale ce n’è una seconda: quella del castello, luogo canonico, insieme al monastero, per mettere in scena il ritorno del passato superato. Tocca soprattutto al castello italiano mettere il coraggio e la ragione dell’eroina a tale cimento che l’uno e l’altra, il luogo e il soggetto, diventano complementari. L’uno impone le condizioni del dubbio a cui deve resistere l’altra: «As she passed along the wide and lonely galleries, dusky and silent, she felt forlorn and apprehensive of – she scarcely knew what»[15]. Anche solo da questo passo si comprende bene come Radcliffe abbia inventato la paura moderna, questa apprensione d’ignoto che risale verso l’assolutezza dello spavento infantile. È proprio questa sua capacità di coinvolgerci nei terrori della protagonista che fa perdonare i frequenti svenimenti, e sentire tutt’ora l’originalità un po’ sbiadita del romanzo. Rende indimenticabili quale illusorio soprannaturale, per lo piú notturno, i lamenti al di là d’una delle innumerevoli porte, i silenzi o suoni a distanza, gli inseguimenti tortuosi, le voci uscite dai muri, le figure indistinte nel buio. Le immancabili razionalizzazioni non disperdono l’atmosfera, proprio perché imprevedibil- mente distribuite su tutte le misure: dagli equivoci chiariti entro poche righe o paragrafi, agli enigmi che vengono portati avanti per centinaia di pagine e sostengono l’intera trama. Nonostante i giustificati timori l’eroina dimostra di essere impavida, coraggiosa, razionale, incurante del pericolo, e questo suo comportamento ha un’importantissima funzione letteraria: è proprio a lei, protagonista assoluta, che compete di portare nel luogo stesso del sopranna- turale nientemeno che un punto di vista o prospettiva.

Anche se la narrazione di Radcliffe è in terza persona, l’autrice si attiene alla prospettiva di Emily, e non comunica mai quel che essa non sa o non può osservare. Se la base del nuovo sublime sta nell’oscurità e nell’incertezza, il punto di vista parziale del personaggio è essenziale per suscitare l’effetto di terrore. Il buio non è soltanto fisico, ma piuttosto prodotto dall’ignoranza circa le cause, le condizioni e a volte le circostanze stesse di tutto ciò che i personaggi percepiscono. È questa ignoranza del personaggio, condivisa dall’autore e dal lettore, che costituisce l’originalità principale di questo nuovo tipo di soprannaturale. È infatti tale peculiarità che permette – per la prima volta nella storia letteraria – che sul soprannaturale medesimo ricada il dubbio. Come maggiore autrice del romanzo gotico, Ann Radcliffe fa dunque risorgere il soprannaturale e riesce a organizzarlo in maniera tale che, come esitazione e illusione, esso attraversi tut- ta l’opera, e il lettore sia sempre indotto a credere che si tratti veramente di soprannaturale. Che solo alla fine tale propensione al credito venga dissolta non toglie che essa abbia caratterizzato l’opera nella sua interezza.

Il dubbio si articola nel romanzo in varie forme e modi. Per esempio, quello costituito dalla reticenza inquietante, forse l’invenzione piú durevole di Radcliffe. Prendiamo il caso in cui Emily e il padre si trovano sperduti in una carrozza al tramonto in un paesaggio poco noto dei Pirenei; non sanno dove passare la notte e si fermano a chiedere a un contadino che però tergiversa:

«[…] who are you, that you are going thither?» said the man with surprise.

St. Aubert, on hearing this odd question, and observing the peculiar tone in which it was delivered, looked out from the carriage. «We are travellers» said he «who are in search of a house of accommodation for the night; is there any hereabout?»

«None, Monsieur, unless you have a mind to try your luck yonder» replied the peasant, pointing to the woods «but I would not advise you to go there.»

«To whom does the chateau belong?»

«I scarcely know myself, Monsieur.»

«It is uninhabited, then?» «No, not uninhabited; the steward and housekeeper are there, I believe.»[16]

Se la reticenza fosse da parte della voce d’autore avrebbe molto meno effetto di quanta ne abbia se affidata alla voce di un per- sonaggio qualsiasi come un passante o un contadino. Radcliffe è abile nel suscitare nel lettore inquietudini e domande circa i mo- tivi delle reticenze.

L’esitazione può inoltre essere suscitata dall’importanza accordata a una voce culturalmente inferiore che esprime credulità verso il soprannaturale. Per esempio Annette, la cameriera di Emily, ha in molti passi la funzione di farsi portavoce del credito a spiriti e spettri in contrasto con le idee ben piú razionaliste della padrona:

«[… ] But hush, ma’amselle, walk softly! I have thought, several times, something passed by me.»

«Ridiculous!» said Emily; «you must not indulge such fancies.»

« O ma’am! they are not fancies, for aught I know; Benedetto says these dismal galleries and halls are fit for nothing but ghosts to live in; and I verily believe, if I live long in them I shall turn to one myself!»[17]

Ma questo non è l’unico caso e anzi si direbbe che in questo romanzo quasi invariabilmente la voce dei personaggi culturalmente inferiori è la voce stessa del soprannaturale. […] Ancora, un altro modo per mettere in crisi l’attitudine razionale ha a che fare con la rappresentazione degli edifici. Prima di tutto, gli edifici sono caratterizzati da decadenza. Ne è un esempio il palazzo di Montoni sul Canal Grande di Venezia, le cui stanze sono «magnificent», «desolate», «half-furnished», «forlorn», «unoccupied», «faded»[18]. In passi come questi si constata come gli edifici originariamente sontuosi si stiano trasformando in rovine abbandonate che testimoniano della perdita irreversibile di potere patita dall’aristocrazia. Nello stesso tempo però quegli spazi, che furono animati e pieni di una vita festosa e fastosa e che oggi appaiono desolati e cadenti, si offrono agli occhi della razionale eroina come enigmatici, misteriosi e proprio perciò propizi al manifestarsi di presenze soprannaturali. In altri termini, si mostrano adatti al ritorno, sotto forma fantasmatica, di un passato che è stato da poco superato.

Il secondo aspetto da considerare è quello relativo alle proporzioni degli edifici, che sono percepiti come inutilmente vasti e poco funzionali. È come se in forma capovolta si esprimesse con estrema forza una coscienza di classe borghese per la quale castelli cosí immensi, costruiti con cosí poca economia di spazio, fossero ormai talmente desueti e lontani dalla nuova mentalità che si andava affer- mando da diventare luoghi adatti al soprannaturale. Essi non escono soltanto dall’ambito di ciò che è comodo da abitare, ma addirittura, in senso molto forte, dall’abitabile stesso: non sono abitabili perché, come dice testualmente Annette, «are fit for nothing but ghosts», e non piú per esseri umani.

Gli edifici sono infine caratterizzati da irrazionalità labirintica, ancora più preziosa per la gestione della trama e l’evocazione di smarrimenti e terrori. In Udolpho abbiamo suoni lontani, paura di perdersi, passaggi segreti, bivi, scalette, numerose svolte e porte «through the wide extent and intricacies of the castle»[19]. E infine: silenzio assoluto e impressionante tutto intorno alla camera di Emily, che dentro il castello si trova, a livello sia fisico che psicologico, in una posizione estremamente isolata. Si tratta di situazioni che sopravviveranno fino ai film horror dei giorni nostri.

Anche la razionalizzazione con cui si chiude il romanzo, il fatto cioè che una volta spiegati i misteri non rimarrà traccia di soprannaturale, sta sotto il segno della speciale formazione di compromesso in cui consiste l’esitazione gotica, dove adesione e diffidenza sono in equilibrio. Il dato di fatto finale non vanifica infatti la sensazione costante di incertezza che rende coinvolgente il romanzo. La compresenza equilibrata di adesione e diffidenza è riscontrabile anche a livello di singoli passi dove spesso un vocabolario illuministico, tutto dalla parte della critica, prova a screditare, senza mai riuscirci del tutto, ciò che al contempo l’informazione veicolata dalla narrazione sta accreditando in modo significativo. Ecco due brevi esempi «Emily, though she smiled at the mention of this ridiculous superstition, could not, in the present tone of her spirits, wholly resist its contagion»[20]; «Emily, on hearing this, shrunk with a superstitious dread entirely new to her, and could scarcely conceal her agitation from St. Aubert»[21]. La lezione squisitamente post-illuministica da trarre da questi passi e dal libro tutto è che, se è vero che il soprannaturale non esiste, esiste però una profonda inclinazione umana a supporlo, e temerlo. Certo alla fine tutto può spiegarsi, però intanto ad ogni passo sorgono illusioni che verranno poi demistificate (e non importa se dopo dieci righe, dopo cento, o solo alla fine). E comunque sia non sempre la forza degli argomenti razionali, pur vincenti, supera il credito accordato alla superstizione dai piú (appartenenti soprattutto, ma non solo, alle classi inferiori): questa è davvero una lezione di pessimismo illuminista.

Introduzione dei curatori

Col titolo Il soprannaturale letterario pubblichiamo il primo inedito di Francesco Orlando. Si tratta di un’indagine condotta sull’arco di un ventennio, la cui genesi risale agli anni Ottanta e che, come tutte le ricerche dello studioso, è nata e si è sviluppata nelle aule universitarie. È in classe che a partire dal 1984 egli mette alla prova le sue ipotesi arricchendo di corso in corso il campionario. A inizio anni Ottanta una prima fase della sua produzione si sta concludendo, e questa ricerca sul soprannaturale ne inaugura di fatto un’altra. Orlando comincia una seconda fase di approfondimento delle sue proposte teoriche e dalla francesistica passa infine alle letterature comparate. Quando si lancia nella nuova impresa, ha terminato da poco il cosiddetto “ciclo freudiano” con la pubblicazione di Illuminismo e retorica freudiana (Einaudi, 1982; in seguito ristampato e ampliato come Illuminismo, barocco e retorica freudiana); ha appena raccolto ne Le costanti e le varianti (il Mulino, 1983) i suoi saggi sparsi, ed è entrato nella fase di stesura della ricerca trentennale su Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (Einaudi, 1993). Non si tratta solo di cronologia: per capire la genesi e la portata di questo libro non si può prescindere dal percorso che lo studioso aveva compiuto negli altri due. Nel libro sui Lumi, proiettando sulla storia delle idee e della cultura la sua proposta di una teoria freudiana, si era interrogato sui destini della letteratura in un momento di razionalizzazione estrema del mondo. Quale spazio l’immaginario riesce a riservarsi di fronte a una Ragione che ne mette in discussione perfino il diritto di esistenza? Ne Gli oggetti desueti aveva concepito una critica che non solo comparasse testi dell’intera tradizione occidentale, ma ponesse costantemente il quesito dei rapporti che la letteratura intrattiene col mondo: non tanto cioè in termini di rispecchiamento quanto di reazione agli imperativi, come quello di utilità e funzionalità, che ogni vivere civile impone agli esseri umani. Elemento mancante di un trittico, il libro su un tema come il soprannaturale doveva dunque costituire un ulteriore esercizio di critica tematica e comparata condotto su lunghissime durate e sullo sfondo degli equilibri mutevoli fra le esigenze della ragione e la necessità di fantasticare.

Orlando tarda a redigere il libro e bisogna aspettare la fine de-gli anni Novanta perché si decida a consegnare a Franco Moretti una prima formulazione della ricerca. Il saggio einaudiano non è tuttavia l’anteprima di un libro pronto. Orlando continua infatti nei corsi pisani degli ultimi anni ad affrontare il tema, a leggere nuovi testi e a precisare le categorie. Il testo che presentiamo al pubblico non è dunque stato redatto dall’autore nella sua forma definitiva: esso è tratto dai suoi corsi universitari, e in particolare dall’ultimo della sua carriera, quello della primavera 2006, di cui abbiamo le sbobinature complete, oltre a una serie di scalette e appunti dettagliati. Al corso del 2006 abbiamo poi integrato altre analisi testuali contenute in un corso anteriore, anch’esso registrato, risalente alla primavera 2005.

A chi già conosce i suoi scritti, questo libro apparirà probabilmente diverso dal solito, ma altri potrà riconoscervi l’oratore che ha saputo coinvolgere gli uditori piú disparati e diverse generazioni di studenti. Per arrivare al libro nella sua forma attuale il nostro lavoro sulle sbobinature è stato di varia natura ed entità. Da un lato, si sono dovute tagliare quelle ridondanze che si spiegavano con la necessità di chiarezza in classe. Abbiamo dunque omesso di riportare quei passaggi che riguardavano il racconto esteso delle trame, le informazioni biografiche sugli autori e le precisazioni sul contesto storico. Dall’altro, soprattutto per quanto riguarda le parti teoriche, è stato necessario riformulare alcuni snodi argomentativi, ricorrendo anche a passi e testi contenuti nelle opere prece-denti, soprattutto ne Gli oggetti desueti e in Illuminismo, barocco e retorica freudiana. Ma proprio perché si tratta di un inedito cui è mancato il lavorio della scrittura, il problema piú rilevante era quello della forma da adottare. Non ci si poteva limitare alla mera trascrizione delle lezioni, ed era necessario al contempo mantenere l’efficacia della parola viva. Abbiamo dunque tentato di ricreare uno stile che, fondato sull’eloquenza del docente, conservasse anche per iscritto le tracce dell’ironia e della passione che egli sapeva coniugare, in classe come nelle conversazioni piú impegnate. Lavorando in modo ravvicinato sulle registrazioni ci siamo potuti rendere conto di quanto profonda sia stata l’influenza di due modelli molto lontani ma niente affatto contraddittori della sua formazione, quali la causerie delle lezioni di letteratura che Tomasi di Lampedusa riservò all’amico ventenne, ma anche la prosa serrata e affabile di Sigmund Freud.

Nella struttura del libro è riconoscibile il modo di procedere del-lo studioso, che cercava sempre di bilanciare la teoria e gli esempi testuali. È del resto la struttura che egli adottava anche a lezione. Confrontando l’insieme degli appunti, si può notare che i corsi consacrati al soprannaturale cambiano titolatura nel tempo, ma l’ordine delle parti e l’impostazione generale rimangono sostanzialmente invariati. Questo in linea di massima il procedere della sua argomentazione: in una sezione introduttiva (1) si stabiliscono i confini dell’argomento, vengono definiti il soprannaturale e le sue regole, per passare infine a una contestualizzazione storica con al centro la svolta dei Lumi. All’introduzione segue sempre una prima serie di esempi in ordine cronologico (2). Si torna poi alla teoria e si assiste alla costruzione di una casistica delle forme del soprannaturale (3). Una seconda serie di esempi, in ordine questa volta tipologico, chiude infine il cerchio (4). Il lettore potrà riconoscere in queste quattro tappe il susseguirsi dei capitoli del libro: abbiamo seguito fedelmente l’impostazione originale dei materiali che costituiscono il punto d’arrivo della ricerca.

Se alternare la teoria e i testi è tipico di Orlando, lo è anche la volontà di astrarre e classificare. Tuttavia l’origine didattica e ora-le di questo libro fa sí che l’equilibrio tra la sensibilità del lettore di testi e la sistematicità del teorico ne risulti felicemente alterato. Anche qui egli elabora categorie, attua scelte in vista della formulazione di una casistica, e ne è prova eloquente lo schema, riportato alla fine del terzo capitolo, che Orlando elaborava via via in classe con gli studenti, proprio come l’autore degli Oggetti desueti guida il lettore, testo dopo testo, alla costruzione dell’“albero semantico”. La maggiore affabilità non incrina insomma il rigore di una riflessione maturata nei decenni. Resta che la volontà di classificare si fa assai meno pronunciata. Non è la costruzione di una griglia a scandire le letture, ma sono gli esempi che portano il critico a operare distinzioni. Se ne Gli oggetti desueti Orlando aveva già fatto ironia sul suo «attardato esercizio strutturalista» (p. 79), qui è come se il raffinato umanista mostrasse ancor piú apertamente il suo volto.

A inizio anni Ottanta, mentre Orlando chiudeva il ciclo freudiano, il decostruzionismo e gli studi culturali si affermavano in Francia e oltreoceano. Egli si oppone a questo movimento e continua a scommettere sul ruolo della grande letteratura e sul mestiere del critico. Lui, che dagli anni Settanta aveva intrapreso la via di una critica letteraria militante, riafferma il suo impegno puntando proprio sul concetto di canone. Allarga quindi il suo campo d’azione e rivendica la lucidità di uno sguardo che osservi l’attualità da lontano, partendo dal patrimonio dei classici. È cosí che egli mette alla prova e insieme estende le sue ipotesi teoriche, in classe, nel dialogo con le nuove generazioni, e in privato, nel confronto quotidiano con la sua biblioteca, che negli anni Ottanta e Novanta va completandosi al ritmo dei corsi e delle ricerche. Certo, le opere evocate in questo libro sono molto meno numerose rispet-to alle centinaia presenti ne Gli oggetti desueti, ma lo sfondo resta sempre quello della Weltliteratur. E ogni analisi approfondita, la scelta stessa di un testo esemplare, sembra sempre presupporre l’universo di una biblioteca nella quale Orlando cerca di dare un senso possibile alla tradizione, e con essa al presente.

Il lettore potrà essere sorpreso proprio dalla trattazione a tutto campo, senza steccati di generi, ambiti o ideologie, che porta all’accostamento di testi molto eterogenei. Sulla base di pochi criteri pertinenti e con spirito comparatistico, lo studioso mette infatti sullo stesso piano Omero e i racconti di fantasmi sette-ottocenteschi, mostra che il soprannaturale di Tasso ha quasi piú analogie con quello di Wagner, e perfino di Kafka, che con quello del cristiano Rutebeuf. Ecco poi Dostoevskij rivelare sorprendenti parentele con Goethe e Maurice de Guérin, mentre agli antipodi dei prodigi di Omero e Chrétien de Troyes si trovano riuniti i sarcasmi di Cervantes, Luciano e Voltaire. In un’altra impossibile categoria sarà poi l’ironia divertita di Ariosto a incontrare quella di Perrault, Basile, Collodi, e perfino di Ovidio. Se Orlando riesce a mettere ordine in questo insieme disparato di epoche, tradizioni e generi è grazie a una messa a punto concettuale che, come spesso accade alle vere scoperte, può sembrare scontata: il soprannaturale si ma-nifesta nei testi solo grazie alla presenza di regole che ne ritagliano l’esistenza dentro un contesto di normalità, si tratti dell’immancabile cigolio di una porta in una ghost story o dell’inoltrarsi dentro la foresta incantata in una fiaba. Alla ricerca delle regole il lettore deve inoltre far sempre seguire un quesito altrettanto basilare: una volta ammesso che ci sia soprannaturale, quanto deve essere preso per vero? O meglio, in che misura il testo sottomette il fenomeno prodigioso a una critica razionale? In che misura pretende che gli si faccia credito?

La dialettica fra credito e critica e il ruolo delle regole del soprannaturale sono i due principî su cui si regge l’originalità del libro. Essi presuppongono un approccio che il critico definisce “materialista”. L’ambito dello studio resta esclusivamente letterario e a Orlando interessa riflettere sulla forma che il soprannaturale prende nei testi, non all’esterno di essi. Ma proprio questo suo partito preso testuale gli consente poi di aprire squarci sulle dimensioni extratestuali e cioè storiche. Significativo in questo senso è il modo in cui affronta le opere piú connotate in senso religioso. Trattare ad esempio la Commedia come un caso di soprannaturale può certamente destare resistenze in chi pensa che le realtà di fede non possano essere comparate ai fantasmi, ai maghi, agli orchi di altri testi piú comunemente accettati come appartenenti al genere. Ma è proprio perché egli sceglie di non interrogarsi troppo sulle strutture del sacro o del mistero al di fuori della letteratura e di concentrarsi invece su come il singolo autore li gestisce sul piano letterario che poi le sue interpretazioni ci dicono molto sul rapporto tra l’uomo e l’irrazionale, in assoluto e nelle varie epoche. Si prenda El mágico prodigioso (1637) di Calderón de la Barca: il diavolo riesce a spostare montagne, ma non è in grado – ed è questo il centro del dramma – di muovere la volontà della virtuosa Giustina. Questo dato, cioè la regola secondo cui Satana non può niente sulla libertà umana, ci dice molto dell’importanza del libero arbitrio in tempi di Controriforma, ed è dunque del tutto conforme alla teologia cattolica dominante all’epoca. Ma esso ci rivela anche molto sul rapporto fra religione e ragione nella prima metà del Seicento in Europa, non certo solo in Spagna: mentre infatti la Nuova Scienza si stava affermando, per uno spettatore risultava ormai molto piú impressionante l’impotenza reale di Satana di agire sulle persone che la sua “scontata” capacità soprannaturale di spostare montagne.

Per apprezzare in pieno la ricerca che qui presentiamo occorre tener presente come per Francesco Orlando la letteratura in generale tenda a funzionare come negativo fotografico della civiltà, intendendo quest’ultima come dispositivo di progressiva razionalizzazione del mondo. In questo senso, anche il soprannaturale letterario andrebbe concepito come testimonianza di una protesta in-cessante della specie umana contro il principio di realtà e l’obbligo di pensare logicamente; se una razionalità portata alle sue estreme conseguenze ammette l’esistenza soltanto di quel che è percepibile, attestato e visibile, l’essere umano – spinto dai suoi desideri e bisogni – accetta solo in parte questa costrizione, e proprio attraverso l’arte esprime la sua resistenza all’adattamento. Anche questo saggio può dunque essere letto sotto il segno della riflessione di Orlando sui meccanismi del ritorno del represso che caratterizzano il discorso poetico: dare credito con l’immaginazione al soprannaturale è da sempre un modo per ribellarsi alla potenza del reale e della ragione. E anzi, se si crede che la letteratura funzioni proprio in virtú di una fondamentale sospensione dell’incredulità, allora i testi a tema soprannaturale si porranno doppiamente sotto questo segno, costituendo una sorta di “letteratura al quadrato”.

In opposizione a una concezione, da qualche decennio sempre piú diffusa, che intende il discorso letterario come esclusivamente connivente con il potere, Orlando lo concepisce, e non importa se orale o scritto, se popolare o canonico, come destabilizzante e liberatorio; tuttavia, contro il rischio di derive facilmente irrazionalistiche, il critico si è sempre e comunque posto dalla parte della razionalità illuministica. Il punto è a suo avviso costituito dal prezzo da pagare per il necessario adattamento al processo di civilizzazione, e cioè in definitiva all’affermazione di versioni del principio di realtà sempre piú esigenti. La letteratura a tema soprannaturale costituisce in quest’ottica una testimonianza di quanto nella specie umana si oppone a quei processi: far immaginariamente esistere quel che non esiste, far vedere quel che non può essere visto, far credere quel che non può essere – razionalmente – creduto.

Ma se la protesta contro i vincoli della civiltà è in definitiva di tipo metastorico, e riguarda la specie umana nel suo complesso, il disagio che quelle costrizioni procurano si fa progressivamente piú acuto quanto piú ci si avvicina alla grande svolta avvenuta intorno alla metà del Settecento. In molta parte della sua opera Orlando ci ha mostrato come la grande letteratura rechi traccia di questa

enorme mutazione culturale e sociale, che ha cambiato per sempre le configurazioni e gli assetti del mondo. È in effetti sempre in quel giro d’anni che si sviluppa un soprannaturale di tipo nuovo: quel fantastique studiato da Todorov che secondo Orlando va concepito nei termini di una condizione di ignoranza e insicurezza connessa con la perdita delle antiche certezze, e con la fragilità di una razionalità ancora troppo recente. Ma nel saggio che presentiamo tutte le proposte di definizione e classificazione del soprannaturale sono sempre concepite sullo sfondo di grandi trasformazioni epocali. Se infatti il Todorov strutturalista procede a studiare questo fenomeno letterario da un punto di vista formale e astratto, quel che distingue l’approccio di Orlando rispetto al suo maggiore interlocutore è il tentativo costante di determinare storicamente le categorie che analizza, e che pure estrapola in un primo momento sulla base di criteri formali quali quello della dinamica tra credito e critica: tutte le grandi varianti di soprannaturale letterario individuate sono in questo senso riconsiderate da un punto di vista cronologico, e si avvicendano, succedono o compenetrano in prossimità di grandi svolte, quali proprio quella avvenuta in Europa tra Sette e Ottocento o quella segnata dall’affermazione della Riforma e della Nuova Scienza.

Come già Gli oggetti desueti anche questo saggio, infatti, se pure considera testi che vanno dall’antichità (cui si accenna soltanto) fino al Novecento, individua nella fase illuministica il momento di passaggio decisivo, il punto archimedico su cui fondare l’intera costruzione teorica. Non è un caso che alcune delle analisi testuali che si trovano ne Gli oggetti desueti anticipino quelle poi condotte secondo la prospettiva del soprannaturale: gli ambienti cadenti e in disuso, e proprio perciò sinistri, di molta narrativa gotica sono spesso quelli piú propizi all’evento prodigioso. Rispetto all’indagine sull’antifunzionale in letteratura, in questo caso lo strumento prescelto per sondare un corpus cosí eterogeneo e complesso è l’articolarsi di una dinamica tra le istanze del credito e della critica che ogni singolo testo esaminato decide di accordare (o meno) agli eventi o alle entità presuntamente soprannaturali. Dove non è naturalmente in questione quel che credeva lo scrittore biograficamente inteso, né tanto meno i suoi lettori contemporanei o successivi, bensí quel che il testo ci domanda di credere – per in-tenderci, dobbiamo, come lettori, assumere che Gregor Samsa si è trasformato in un insetto, anche se nella realtà sappiamo che ciò è impossibile. A seconda delle proporzioni con cui le due istanze si combinano, ne derivano alcune grandi articolazioni che non hanno valenza contenutistica o tematica (ad esempio la magia, le fate, le streghe, il patto con il diavolo), ma puramente orientativa – e cioè tesa a distinguere alcune poche modalità di relazione con il dato soprannaturale: si pensi alla categoria innovativa di soprannaturale di indulgenza, caratteristico per esempio di Ariosto, che indica appunto un’attitudine ironica, ma anche affettuosa, verso gli eventi prodigiosi in genere.

Si andrà da testi caratterizzati da un massimo di credito e un minimo di critica – nel caso in cui il soprannaturale risulti convalidato da credenze tradizionali diffuse e condivise – ad altri caratterizzati invece da un massimo di critica e un minimo di credito, nel caso in cui il soprannaturale venga evocato solo allo scopo di essere contestato e ridicolizzato. Al crocevia, quei testi in cui si dà un quasi perfetto equilibrio tra la tentazione di credere e quella di diffidare, e che Todorov cataloga come fantastici. L’ambizione è quella di avanzare una proposta che possa dare un qualche ordine, grazie a poche grandi categorie di riferimento, a una fenomenologia letteraria che altrimenti ci apparirebbe magmatica e informe. Questa angolatura di analisi non è certo l’unica possibile, e il critico ne è consapevole: sono o sarebbero altrettanto validi e praticabili altri criteri, purché essi possano mostrarsi pertinenti e coerenti, ovvero in grado di “fare sistema”, di organizzare in modo altrettanto semplice ed efficace la massa dei dati, secondo un principio che eviti la deriva dell’elenco e si dimostri capace di funzionare come strumento pratico e duttile sia per la singola analisi di testo sia per proporre visioni panoramiche.

Un esempio per tutti: analizzando il soprannaturale kafkiano della Metamorfosi, Orlando mostra che il testo gioca incessantemente a proporre come assolutamente normali e regolari fenomeni, quali la subitanea trasformazione in scarafaggio del protagonista, che secondo il senso comune ci aspetteremmo fossero presentati come causa di assoluto stupore e incredulità. È adoperando come chiave di lettura questa originale e inaspettata combinazione tra istanze del credito e della critica che Orlando analizza il testo, evitando di caricarlo di riferimenti diretti e univoci a questo o quel referente simbolico, storico o ideologico, cosa che rischierebbe di limitarne fortemente la complessità e plurivocità. Riferendosi sempre e solo ai modi e alle forme con cui si dà questo inedito soprannaturale, il critico riesce a rilevare tutta una serie di interessanti fenomeni, come in questo passo: «Come in Gregor progredisce l’adattamento all’adattamento e la rassegnazione alla rassegnazione, cosí negli altri personaggi progredisce l’abitudine – lenta, complementare e divergente – nei suoi confronti: sempre meno nel senso di un’accettazione impietosita e sempre piú nel senso dell’indifferenza infastidita, sino al rifiuto mortale e alla rimozione della carcassa» (p. 85). Ma tutte le analisi testuali del saggio sono condotte sul filo di questo grande parametro di fondo, che si dimostra redditizio, oltre che dal punto di vista interpretativo, anche perché rende possibile una serie di comparazioni sistematiche: in questo agisce in Orlando l’imprescindibile modello di Mimesis. Come Auerbach analizza e confronta i piú diversi e lontani capolavori della letteratura occidentale sulla base del criterio della separazione o commistione degli stili, Orlando accosta testi anche lontani mostrando come essi dosino diversamente e significativamente credulità e diffidenza. Ne risulta allora che nelle Metamorfosi di Ovidio traspare già quell’indulgenza verso il soprannaturale che sarà poi tipica di un Rabelais o di un Ariosto, cosí come in alcuni testi di Lucia-no fa già capolino un’attitudine di derisione che sarà poi quella di Voltaire. E non si tratta certo per il critico di confondere i testi e le epoche, ma di notare che in quelle opere antiche si manifestano già in nuce concezioni che verranno riprese e sviluppate solo molto piú tardi dalle filosofie illuministe e materialiste.

Come abbiamo già accennato, una delle messe a punto teoriche piú promettenti e originali del saggio è quella relativa alle regole del soprannaturale: secondo Orlando, non si darebbe alcun possibile soprannaturale senza il ricorso prima di tutto a norme che lo definiscano e lo delimitino soprattutto dal punto di vista della localizzazione sia spaziale che temporale. E questo per la buona ragione che il soprannaturale coincide sempre e comunque con un momento di disordine e rottura rispetto alla consuetudine spazio-temporale in cui tendiamo a essere immersi: il sovvertimento che esso comporta deve essere dunque limitato e codificato secondo vincoli precisi e coerenti, per impedire che produca una confusione generalizzata. La decisività delle regole non era mai stata cosí efficacemente evidenziata e resa dirimente per la definizione di questo ambito letterario; essa porta con sé tutta una serie di importanti implicazioni per l’analisi dei testi. A proposito della struttura della Commedia, Orlando scrive ad esempio: «La localizzazione è massima e corrisponde a un insieme complicato, motivato, grandioso e totalitario di localizzazioni, l’opposto di un aldilà rivelato per visioni singole. La razionalità divina si fa topografia, e la topografia è viaggio» (p. 9). Ma il concetto di localizzazione si rivela decisivo per ogni tipo di soprannaturale: si veda quando il critico ci mostra come Ann Radcliffe, nel mettere in scena i suoi terrori gotici, abbia letteralmente inventato un nuovo tipo di relazione con lo spazio, fatta di spaesamento e ignoranza di un soggetto che, sentendosi in balia di luoghi oscuri e sinistri, pro-va uno smarrimento assoluto e arcaico quale ancora lo ritroviamo in tantissima cinematografia horror.

Ma il soprannaturale non è soltanto quel che si manifesta – o è possibile sospettare si manifesti – come tale: gli scrittori posso-no anche raccontare un soprannaturale che il testo presenta fin da subito come irreale, ma che nondimeno viene evocato. È questo il caso, di capitale importanza, del Don Chisciotte, cui Orlando dedica un’analisi innovativa e che non potrà non sorprendere, dal momento che nel grande testo di Miguel de Cervantes manca del tutto il riferimento a un soprannaturale oggettivo di tipo conclamato: il protagonista, quando crede di vedere giganti o di essere sotto l’influenza di maghi, semplicemente delira e l’autore non avalla mai quelle visioni. E tuttavia secondo Orlando il romanzo pone, o meglio suppone, a tutti gli effetti il dato prodigioso, proprio in virtú del fatto che don Chisciotte, nonostante ogni possibile smentita, vi crede con tutte le sue forze; e dal momento che noi ci identifichiamo con lui, è inevitabile condividere, almeno in parte, le sue illusioni. Non è chi non veda quanto poco reificante fosse l’approccio del critico, che in questo come in altri casi fa un uso perspicuo del modello della negazione freudiana, e cioè di una negazione che afferma: ridere o sorridere di una certa realtà significa comunque ancora considerarla, concederle una qualche residuale forma di esistenza e di nostalgica simpatia.

Proprio grazie all’esempio di don Chisciotte il critico individua un tipo di soprannaturale che non era mai stato considerato, quello che definisce di derisione, in cui il dato fuori o contro natura viene implacabilmente ridicolizzato in nome dei valori della razionalità e del buonsenso – ma al quale, anche e proprio tramite la plateale derisione, viene dato spazio e risalto. Questo tipo di trattamento è lo stesso che Voltaire e altri illuministi riserveranno alle incredibili superstizioni, ai bestiari leggendari, ai miti delle religioni rivelate, alla scatenata metaforicità dei testi sacri. Anche questi autori, per principio avversi ad ogni tipo di irrazionalismo, possono dunque rientrare nella cartografia del soprannaturale che Orlando ha qui disegnato, dimostrandosi capace di valorizzare ancora una volta quanto di prezioso è contenuto nei modi di pensare e vivere che proprio l’Illuminismo ha proceduto a negare e a liquidare.

Del resto nella visione di Orlando il soprannaturale non è solo manifestazione di un ritorno del superato logico e ideologico, ma anche un modo per dare forma a paure, bisogni e desideri circa realtà attuali o metastoriche che gli scrittori traspongono in chiave di eventi prodigiosi e misteriosi. È soprattutto quando si approssima alla letteratura del soprannaturale tardo settecentesco e ottocentesco che il critico prova a dimostrare come essa costituisca anche un tentativo di pensare l’impensabile, e cioè alcune realtà inedite o inaudite della condizione umana e delle sue trasformazioni. Il primo esempio che viene in mente è quello, tardo, di The Turn of the Screw di James, in cui è centrale la questione se dare o meno credito ai fantasmi che, secondo l’istitutrice protagonista e narratrice, sarebbero ritornati per perseguitare Miles e Flora, i due bambini a lei affidati. Contro quei critici che hanno sostenuto che si tratta di allucinazioni causate dalle fobie sessuali dell’istitutrice, Orlando scrive che il testo, pur nella sua ambiguità, tende ad avvalorare la concreta possibilità che il soprannaturale, nella forma dei due temibili revenants, possa davvero minacciare i bambini. Ma osare credere alla realtà dei fantasmi significa, fuor di metafora, avere il coraggio di confrontarsi con una realtà altrettanto inquietante anche se del tutto concreta, e cioè l’influenza, con ogni probabilità malvagiamente perversa, che i due adulti esercitarono da vivi su Miles e Flora. Il referente sempre taciuto e sempre alluso, la scomoda verità a cui non si vorrebbe prestare credito, sarebbe allora quella di una sessualità infantile pericolosamente soggetta ai desideri degli adulti. Era una verità talmente inaudita da dover essere presentata sotto le apparenze del soprannaturale, ma è proprio quella stessa verità che solo pochi anni dopo Freud avrebbe esposto nei suoi Tre saggi sulla teoria sessuale, ottenendo reazioni di scandalo e incredulità del tutto paragonabili a quelle suscitate dalle “visioni” dell’istitutrice. Le letture che patologizzano questo personaggio, e stanno tutte dalla parte di una critica positivista al soprannaturale, corrono il rischio di apparire culturalmente regressive perché in qualche modo finiscono per accreditare il mito del bambino-angelo, che invece il testo demistifica potentemente.

Stesso rigore e stesso pathos interpretativo si riscontrano nella lettura di Der Schimmelreiter di Storm, in cui gli eventi considerati soprannaturali sono connessi alla lotta eroica e solitaria di un ingegnere autodidatta per la costruzione di una nuova e piú sicura diga che difenda le coltivazioni e le abitazioni. Si tratta di un’impresa che viene condotta contro la mentalità superstiziosa e retriva tipica di una certa provincia, e in nome di ingenui ma coraggiosi ideali di progresso. In questo come in altri casi le manifestazioni del soprannaturale possono essere lette in chiave di ritorno del re-presso rispetto a una razionalità di cui Orlando ci illustra tutta la portata di sfida nei confronti delle secolari consuetudini e tradizioni d’Ancien Régime. Ma a questo proposito forse la lettura piú affascinante è quella del Faust di Goethe; Orlando dimostra come in esso si affermi una vera e propria nuova forma di soprannaturale, mai cosí chiaramente individuata e descritta: un soprannaturale recuperato dalla tradizione ma allo scopo di significare qualcosa di storicamente nuovo e inedito. Ecco che allora nella magia medie-vale si traspongono, secondo il critico, la tecnologia industriale e le speranze e le angosce ad essa connesse, quasi a segnalarci che solo ricorrendo al mito Goethe è stato capace di riferirsi a quanto di misterioso e fatale si stava producendo in quel giro di anni, e che inevitabilmente sfuggiva ancora alle coscienze dei singoli. In questo contesto lo stesso Mefistofele viene reinterpretato come la reificazione di tipo distruttivo e soprannaturale di quella spinta creativa e assolutamente naturale incarnata da Faust. Ma si può affermare che tutte le letture qui proposte, nel mentre si concentrano sulla gestione dei fenomeni prodigiosi caratteristici di una singola opera, riescono a illuminare quanto di reale e storico viene trasposto o alluso da quelle stesse manifestazioni: si veda per esempio come nel caso dell’Hamlet shakespeariano si possa leggere nel sopra-naturale (l’apparizione dello spettro) il corrispettivo di una realtà contro-naturale (il fratello che uccide il fratello; la vedova che sposa l’assassino del marito ucciso). Si direbbe anzi che piú in generale Orlando, decifrando le figure del soprannaturale, abbozzi una storia immaginaria e segreta degli sviluppi, ma anche delle crisi, di una razionalità in via di progressiva affermazione.

Questo nuovo libro di Francesco Orlando, che compare a piú di sei anni dalla sua morte, corrisponde al desiderio e all’intenzione di essere prima di tutto un viaggio dentro i territori del soprannaturale, effettuato nell’alternanza di momenti teorici e singole analisi, che rimandano gli uni alle altre nel tentativo di produrre un effetto d’insieme: delineare alcune importanti contro-verità della civiltà occidentale. Il saggio punta dunque prima di tutto su un – ci si augura felice – compromesso tra istanze di classificazione e istanze analitiche centrate su letture ravvicinate di singole opere, tra esprit de géométrie ed esprit de finesse. L’intenzione è che lo strumentario proposto possa risultare utile per avvicinarsi ai testi, porre loro domande, collocare fenomeni ed eventi in prospettive inedite e potenzialmente illuminanti. Esso del resto non è, né sarebbe il caso che fosse, né immutabile né definitivamente fissato, dal momento che il saggio è prima di tutto – a partire dalla genesi fino alla pubblicazione – l’esito di una continua ricerca che coinvolge e invita il lettore non solo alla collaborazione, ma anche alla messa in discussione critica. Leggendo il testo ci si potrà e dovrà chiedere quanto le forme e le questioni trattate possano essere valide per la letteratura, per il cinema, per le modalità di narrazione piú recenti. La scommessa è che le forme del soprannaturale individuate in questo saggio possano essere ulteriormente messe alla prova, convalidate o confutate, eventualmente ibridate – o aumentate, a patto che se ne rispettino le presupposizioni di fondo, la cornice di pensiero da cui esse traggono origine. Chi legge questo libro dunque è chiamato dall’autore ad applicarlo, ma anche a interrogarlo e migliorarlo

Note

[1] W. Scott, Lives of the Novelists [1824], in I. Williams (ed. by), On Novelists and Fiction, Routledge&Kegan Paul, London 1968, p. 114. [«to give probability to events which could not, without great violation of truth, be represented as having taken place in England» (traduzione dei curatori)].

[2] J. Austen, Northanger Abbey [1818], in Ead., Northanger Abbey, Lady Susan, The Watsons, and Sanditon, London 1990, vol. II, capp. IX e X, pp. 159 e 160-161. [«dove strade e giornali mettono tutto allo scoperto» (traduzione dei curatori)].

[3] [Il castello di Otranto].

[4] A. Radcliffe, The Mysteries of Udolpho, Part I, Chapter I, Oxford University Press, Oxford 19803, p. 1. [«Scene di semplice natura»].

[5] Vedi il suo A philosophical enquiry into the origin of our ideas of the Sublime and the Beautiful [Un’inchiesta filosofica sull’origine delle nostre idee del Sublime e del Bello].

[6] E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime [1757], Aesthetica, Palermo 19872, Parte I, Sezione VI, p. 71: «passions which concern self-preservation».

[7]Ibid., Parte IV, Sezione XIV, p. 148.

[8] A. Radcliffe, The Mysteries of Udolpho, Part I, Chapter I, cit., p. 1. [«maestosi Pirenei», «tremendi precipizi», (trad. it. V. Sanna, in A. Radcliffe, I misteri di Udolpho, Edizioni Theoria, Roma-Napoli, p. 29)].

[9]Ibid., Part II, Chapter V, p. 225 [«profonde solitudini» (trad. cit., p. 249)].

[10] A. Radcliffe, The Mysteries of Udolpho, Part II, Chapter V, cit., p. 226. [«Appennini nel loro aspetto più oscuro e pauroso.» (trad. cit., p. 250)].

[11]Ibid., Part II, Chapter V, p. 225. [«… le montagne sembravano moltiplicarsi a mano a mano che procedevano e ciò che formava la vetta di un’altura si rivelava come nulla più che la base di un’altra.» (trad. cit., p. 249)].

[12] Ibid., Part I, Chapter V, p. 54. [«in tutto e per tutto la dimora dei banditi» (trad. cit., p. 81)].

[13] Ibid., Part I, Chapter XII, p. 122. [«Emily fu colta da ammirazione, ma non dall’ammirazione che porta alla stima; essendo mista a una certa dose di timore di cui non conosceva esattamente la causa.» (trad. cit., p. 147)].

[14] Ibid., Part III, Chapter V, p. 384. [«ed ella contemplò se stessa in una remota località selvaggia degli Appennini, circondata da uomini che ai suoi occhi erano poco meno che furfanti…» (trad. cit., p. 408)].

[15]Ibid., Part II, Chapter IX, p. 308. [«Mentre passava lungo le ampie e solitarie gallerie, fosche e silenti, si sentì abbandonata e timorosa di… non sapeva bene che cosa.»].

[16]Ibid., Part I, Chapter VI, p. 62. [«[…] chi siete voi che volete andare lì?» disse l’uomo sorpreso. St. Aubert, a sentire questa strana domanda e vedendo il tono particolare con cui veniva fatta, si affacciò dalla carrozza. «Siamo viaggiatori» disse «in cerca di una casa dove trascorrere la notte; ce ne sono in questi paraggi?» «Non ce n’è nessuna, signore, a meno che non vi venga l’idea di cercare fortuna lì» rispose il contadino indicando il bosco «ma non vi consiglierei di andarci.» «A chi appartiene il castello?» «Non saprei dirvelo, signore.» «È disabitato, allora?» «No, non è disabitato; credo che ci siano il maggiordomo e la governante.» (trad. cit., pp. 88-89)].

[17] Ibid., Part II, Chapter V, pp. 231-232. [«[…] Ma piano!, Mademoiselle, camminate in punta di piedi! Mi è parso ripetutamente che qualcosa mi passasse accanto.» «È ridicolo!» disse Emily «Non dovete assecondare simili fantasie.» «Ma signora! Non sono fantasie, per quanto io sappia; Benedetto dice che gallerie e sale terribili come queste sono buone solo perché ci vivano i fantasmi; e credo proprio che, se ci vivrò in mezzo a lungo io, diventerò io stessa un fantasma.» (trad. cit., pp. 255-256)].

[18] Ibid., Part II, Chapter II, pp. 178-179. [magnifiche, desolate, scarsamente ammobiliate, trascurati, in disuso, sbiadite].

[19] Ibid., Part II, Chapter X, p. 317. [«[…] attraverso la grande estensione e il groviglio di corridoi del castello» (trad. cit., p. 339)].

[20] Ibid., Part I, Chapter VI, p. 68. [«Emily, pur sorridendo al sentire di quella ridicola superstizione, non riuscì, nel suo stato d’animo del momento, a sfuggire completamente al contagio.» (trad. cit., p. 95)].

[21] Ibid., Part I, Chapter VI, p. 71. [«Emily si fece piccola a queste parole, colta da un timore superstizioso interamente nuovo per lei, e riuscì a fatica a nascondere la sua agitazione a St. Aubert.» (trad. cit., p. 97].

[Immagine: Francesco Orlando].

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