di Mimmo Cangiano
“Il tempo massimo concesso al docente per parlare è di 3 minuti e 20 secondi. Successivamente è necessario lasciare spazio al dibattito o alle domande degli studenti. In alternativa è possibile introdurre un supporto audio-visivo. Lo studente non può mantenere completa attenzione per più di 3 minuti e 20 secondi”. La collega che dice ciò ha lo sguardo vagamente ironico. Forse non crede a quello che ha appena detto, o forse quello sguardo è inevitabile nel quadro di un contesto universitario in cui l’egemonia che quella frase sottende non è ancora completamente realizzata, ma solo in corso d’opera. Ho ascoltato parole molto simili in altri contesti (negli Stati Uniti in particolar modo): erano dette senza alcuna ricerca di complicità, senza distinguo o tollerante apertura verso le particolarità del contesto o della disciplina. Erano dette con piena, e un po’ arrogante, potenza: la potenza del senso comune.
Siamo in dodici in questa stanza. Il seminario – Teaching: Pedagogy and Practice – è obbligatorio per i nuovi assunti: due incontri, ognuno di 6 ore. Siamo un gruppo particolare: quelli che ancora non parlano la lingua. L’Università ha organizzato per noi un duplicato, in inglese, del seminario di base. Ci sono un matematico tedesco, un chimico canadese, una biologa belga, due politologi, una economista, un filosofo e via dicendo. Le due Professoresse Associate che tengono il corso non sono pedagogiste di formazione e ci tengono a chiarirlo subito (altra ricerca di complicità). Sono una fisica e una storica, ma negli ultimi anni si sono dedicate quasi totalmente al versante pedagogico (“come, ahimè, il mio CV dimostra”, risate), sopperendo al netto calo delle rispettive pubblicazioni attraverso il più oscuro requisito connesso all’ottenimento della tenure (associatura): il service, supporto e assistenza (anche burocratica) alle attività e al funzionamento dell’Ateneo. Si tende a pensare che la pedagogia abbia a che fare con la sfera dell’insegnamento. Non è così. La pedagogia ha a che fare col service. Avevo pensato, inizialmente, che la presenza pervasiva delle metodologie di insegnamento e apprendimento nel nuovo corso degli studi universitari fosse diretta solamente alla semplificazione, per lo studente, del percorso di studi. Tale semplificazione, unita all’introduzione massiccia di attività extra-curriculari (ma con crediti curriculari), interattive o generalmente cool, avrebbe condotto ad un aumento del numero degli iscritti. C’è molto di più: in ballo è un processo di standardizzazione dei percorsi educativi realizzato mediante controllo (morbido fino a un certo punto) sui percorsi dell’apprendimento, e inevitabilmente destinato a portare ad una riduzione delle conoscenze contenutistiche (le recenti prove d’esame al concorso scuola in Italia ne sono un macroscopico esempio) tanto per gli studenti quanto per i docenti. Il fatto che tutto ciò venga poi presentato nei termini di una battaglia “contro il nozionismo” rivela solo quanta strada tale narrazione sia già riuscita a fare. È un sistema che si autoalimenta ad orologeria. Presidi di Facoltà, Capi Dipartimento, ecc., vedranno sempre nell’intervento sulle tecniche di insegnamento un sistema semplice e a basso costo per legare il proprio nome ad un’attività riformatrice; troveranno sempre docenti (meglio se ancora non associati ma vicini all’associatura) che, preoccupati magari dallo stato del loro curriculum, accetteranno di buon grado di accollarsi tale lavoro (service). Compariranno così workshop e seminari a getto continuo. A questi, i nuovi docenti (ancora precari), saranno costretti ad andare, le sessioni di pedagogia invaderanno i convegni (anche quelli più contenutistici), si decideranno di introdurre corsi obbligatori di pedagogia per i dottorandi e, infine, il sistema di class observation, vale a dire il controllo diretto in classe (sotto forma di consigli) del pedagogista. In casi di non ritorno l’Università assumerà una figura per gestire l’intero sistema. Il mio aveva questi titoli: Coordinatore responsabile per la condotta di ricerca dei dottorandi; Incaricato alla preparazione dei futuri docenti; Docente in tecniche di insegnamento, tecnologia e design. Il compito di quest’uomo era in pratica dirti costantemente (e non è che avesse torto) che senza un serio impegno nella sfera della pedagogia difficilmente avresti trovato lavoro (gli devo infatti un fondante corso in tecniche di insegnamento per l’infermieristica). Aveva però anche un altro ruolo: gestiva e coordinava il sistema di peer-observation, vale a dire che inviava dottorandi ad osservare l’insegnamento di altri dottorandi (io beccai una chimica e un economista esperto di teoria dei giochi). Faceva poi riportare loro tali osservazioni all’interno di un forum da lui gestito e invitava quelli con commenti negativi nel suo ufficio per i soliti consigli. Perché un sistema universitario sempre più teso alla precarizzazione assume figure di questo tipo? Perché organizza (investendo denaro) un numero abnorme di incontri e seminari a sfondo pedagogico? Ma soprattutto perché avverto un’aria di famiglia fra i seminari di pedagogia, quelli a sfondo burocratico, e quelli a sfondo comportamentale?
Qui invece la situazione (me lo conferma lo sguardo perso del matematico tedesco) è già confusa, e presenta – fra nuovi assunti di discipline lontane e pedagogiste che non sono pedagogiste – tutti quei tratti che potremmo definire mediterranei, oppure, da capitalismo imperfetto, dove le vie di un controllo ragionato e totalizzante vengono applicate (per il momento) nelle maglie larghe e allentate di un esperimento in corso o di un fenomeno di importazione. Ne avrò certa conferma quando, alla fine del primo incontro, non mi assegneranno da leggere a casa tre saggi (uno empirico e due teorici) che presentano il ritrovato dell’acqua calda (ex. “alcuni studenti hanno maggior memoria visiva che auditiva, quindi usate la lavagna”) mediante 7 grafici, 4 diagrammi, la ripetizione costante del termine strategy e un campione statistico di 25 persone. Mi sorprendo intanto nel trovare i colleghi più bellicosi di me. Non vogliono essere là: vivono questi due incontri come un inutile attacco al loro tempo. A me 12 ore paiono niente, temevo molto peggio. Il primo incontro sta per finire. Una delle insegnanti ci chiede se possono venire a osservarci in classe (dilettanti!). Rispondono tutti di no. “Allora faremo un microteaching al prossimo incontro”.
Il microteaching è un concetto interessante: si tratta di impostare una finta lezione (in questo caso 7 minuti) rivolta a dimostrare non la tua conoscenza della materia ma la tua capacità di costruire un discorso organico adoperando le tecniche adatte. Tali tecniche, nel caso di pedagogiste di fortuna come le mie, si riducono ai grandi classici: strutturazione consequenziale: introduzione, spiegazione, riepilogo; tono condiscendente; supporto visivo di tipo tecnologico; utilizzo della lavagna; umorismo; conclusione a bullet-points (frasi finali ricapitolanti). In casi più raffinati si può arrivare all’introduzione di tecniche di tipo teatrale (alcune vagamente imparentate con la tortura come l’hot seating[1], si scherza eh) o comunque performativo: ex. “Impariamo Manzoni cucinando l’ossobuco in umido con piselli”. Sono comunque preparatissimo. Quando arriva il mio turno so con assoluta esattezza i gesti e le parole che le due insegnanti si aspettano: faccio le mie battute, scherzo col collega tornato tardi dal bagno, scandisco con chiarezza ogni volta che sto per passare a un nuovo argomento, dico “molto interessante!” o “questa è un’acuta osservazione” ogni volta che qualcuno interrompe per spararla grossa, concludo con “dunque oggi abbiamo imparato questo: …”.
Gli scienziati faticano di più. Il matematico tedesco ha aperto bene, ma ora la vedo sudare mentre traccia numeri (e segni ai più sconosciuti) sulla lavagna. Si blocca, chiede scusa, prova a giustificarsi dicendo che i suoi studenti queste cose già le conoscono quando arrivano nella sua classe, che è difficile spiegare la sua branca a chi è digiuno di ogni nazione matematica, ma è inconsolabile. La pedagogista ci prova a tranquillizzarlo (dilettanti!, penso, ma stavolta sbaglio). A questo punto ha un’idea geniale: “flip the classroom”, gli dice. In termini pedagogici “rovesciare la classe” significa invertire il tradizionale modello riservato a spiegazione e compiti. Gli studenti imparano i concetti o le nozioni a casa, prima della spiegazione in classe: il tempo in aula è riservato agli esercizi e ai chiarimenti. Un brivido corre lungo la mia schiena e quella dei politologi al pensiero che a breve ci daranno 15 pagine di algebra da studiare a casa (il filosofo invece è un analitico e quindi è contento). Non succede. Il matematico dà voce al pensiero di tutti e riguadagna un po’ di dignità. La perde subito quando le pedagogiste (e qualche altro degli astanti) cominciano a fare l’elenco di tutto ciò che non andava nel suo microteaching. Gli chiedono di nuovo se possono andare ad osservarlo in classe. Dice che va bene, le aspetta la settimana successiva.
A questo punto scatta il gioco (c’è spesso il gioco in questi seminari). Hanno preparato un grafico con quattro quadranti. All’interno vi sono fotografie di vario tipo a tema naturale. Sopra un domanda che riguarda la formazione eccessiva di anidride carbonica in una determinata zona dell’Australia. Ci sono quattro possibili risposte (ricordo solo che in una è colpa dei koala). Danno ad ognuno un telecomando per votare. Subito dopo mostrano il grafico formato in diretta dalle risposte (nessuno ha detto che è colpa dei koala). Non sappiamo chi ha votato cosa, anche se tutti guardiamo il chimico canadese e la biologa belga (non sapendo bene a quale campo collegare l’anidride carbonica) in cerca d’aiuto. Sappiamo solo quanti voti ha preso una determinata risposta. A questo punto possiamo discuterne, ma a nessuno è permesso rivelare il proprio voto. Ci fanno rivotare. Il nuovo grafico mostra un aumento dei voti verso la risposta già espressa dalla maggioranza nell’occasione precedente. “Volevamo dimostrarvi”, dice la pedagogista (e io a questo punto comprendo finalmente che si tratta in realtà di una leninista che ha deciso di distruggere il sistema dall’interno e che probabilmente ha la foto di Makarenko sul letto), “che quando viene lasciato spazio alla collegialità e alla discussione il processo di apprendimento si intensifica rapidamente. Ci auguriamo che farete lo stesso coi vostri studenti”. Il chimico canadese prova timidamente a obiettare che forse è semplicemente che la gente preferisce stare in maggioranza. Ma ormai siamo tutti stanchi e guadagniamo l’uscita. Dietro la porta sento ancora il matematico tedesco che continua a giustificarsi.
Non è facile chiarirsi perché questo sistema sia oppressivo, perché il crollo contenutistico debba essere ora accompagnato da una teoricamente fragile, ma sempre più potente, teoria tesa a giustificarlo, a organizzarlo. Non è facile comprendere, voglio dire, perché un sistema chiaramente sempre meno interessato alla preparazione degli studenti debba implementare metodi continui riguardanti l’apprendimento. E perché a una disciplina che appare (a leggere libri e saggi) in chiarissima decadenza, focalizzata com’è, a livello empirico, sull’ossessiva ripetizione di metodi, e, a livello teorico, a giustificare questi metodi mediante banalità scritte in linguaggio accademico, sia dato tanto potere all’interno delle istituzioni educative.
C’è sicuramente la questione del controllo sulle scelte e sul tempo degli insegnanti (all’università come a scuola): una gestione totalizzante che grava soprattutto su chi è precario, costringendolo a riferirsi a determinati modelli, a seguire determinate regole di condotta e ad impiegare con rigore i nuovi strumenti che l’Istituzione richiede. E qui si spiega, almeno in parte, quell’aria di famiglia fra pedagogia, burocrazia e controllo comportamentale. E credo che tale controllo riguardi poi anzitutto la pedagogia stessa, vale a dire quella disciplina che più delle altre è fondata su un nesso di teoria e pratica, e da cui infatti sono partite alcune delle più importanti (proprio nel loro essere “pratica”) rivoluzioni culturali del secolo scorso.
La standardizzazione delle tecniche di insegnamento è poi preludio (negli Stati Uniti già realizzato) ad una incipiente standardizzazione contenutistica, vale a dire a quella quantificazione oggettiva dell’educazione che può ottenersi mediante i test standardizzati. In questo caso avremmo a che fare (e l’estrema protezione degli studenti che la nuova pedagogia veicola è parte della questione) con una scientificamente ricercata incultura travestita da tecniche di apprendimento. Il controllo esercitato sugli insegnanti mediante la macchina pedagogico-amministrativo-burocratica diventerebbe così diretto effettivamente a un suo ritorno sugli studenti, mantenendo questi ultimi a un basso livello culturale e lasciando ad altri elementi – generalmente connotati classisticamente come la famiglia – il compito della formazione culturale dell’élite.
Ma poniamo anche che non sia in gioco nessuna trasformazione complottistica come quella descritto da Jean-Claude Michéa (L’insegnamento dell’ignoranza), resta comunque il fatto che tale apparato pedagogico sta presentando il riflesso, in campo educativo, di alcuni dei modi di funzionamento della macchina sociale: estensione del controllo burocratico come attacco al “tempo”, educazione al conformismo come necessità di controllo della massa dei precari, quantificazione oggettivante della produzione (anche intellettuale) come strumento unico per la valutazione di questa, spostamento dalla logica (certo oppressiva) del contenuto a quella altrettanto oppressiva (ma leggera e cool) della forma. Ma contenuto e forma non si separano, e l’oppressione sul piano della forma (modo di preparare le lezioni, costruzione di syllabi, uso degli strumenti tecnologici e dei supporti online, scartoffie) sarà sempre oppressione anche sul piano del contenuto.
E non conta nulla che questi modi siano presentati nella veste (talvolta addirittura sessantottesca) dell’educazione dello studente all’espressione della propria individualità, del proprio spirito critico o dell’indirizzamento verso temi a lui confacenti, se poi al momento dell’esame, delle prove o di quel che è, si richiede in ambito valutativo (millemila seminari sull’assessment) la consueta standardizzazione. Ma non è poi questo il solito doppio binario del nostro tardo Capitalismo che richiede al tempo stesso atomizzazione e standardizzazione? La frammentazione della conoscenza (il tramonto dei programmi di studio condivisi) potrebbe non essere dunque educazione al libero sviluppo dell’individualità, ma più sinistramente incitamento al libero sviluppo dell’individualità come educazione all’atomizzazione culturale, e dunque anche sociale, razionalizzata poi sul piano della valutazione (di docenti e studenti), cioè per l’appunto sul piano dell’assessment.
Questa pedagogia è il riflesso delle contraddizioni del nostro tempo, ma come spesso accade (e non solo alla pedagogia) tale riflesso è presentato come soluzione a quelle stesse contraddizioni.
Ma della pedagogia, anche più che di altre discipline, non possiamo fare assolutamente a meno. Nessun reale cambiamento è pensabile senza il suo contributo. Ma cari pedagogisti, perdonate la banalità, qui c’è anzitutto da scegliere da che parte stare.
[1] “The student-dubbed “hot seat” is one pedagogical technique that exemplifies how conceptual, emotional, and behavioral scaffolding come together in our teaching practice. In the hot seat exercise, a student receives coaching on his or her project or practice in a focused, targeted way in front of the other learners. This creates an instant moment of narrative in which the class focuses on how the student will handle the challenge, not only in terms of the specifics of their project, but of being coached in front of the entire class.” http://marshallganz.usmblogs.com/files/2012/08/Chapter-8-Ganz-Lin1.pdf.
[Immagine: koala]
Mi pare che questa ottima riflessione meriti però una sintesi diversa: non tanto “Non incoraggiate la pedagogia” quanto “NON incoraggiate il PEDAGOGISMO” dilagante, nuova ortodossia totalizzante che sta soffocando i contenuti e spalleggiando la progressiva esternalizzazione della memoria già incoraggiata dalla rivoluzione informatica. Una cosa è riflettere su come insegnare i contenuti della propria disciplina (didattica della disciplina), tema che merita senz’altro una seria ricerca interna alla disciplina stessa; altra è imporre modelli standardizzati di insegnamento indiscriminatamente a tutti. Per esempio, la glottodidattica è stata ed è utilissima: chi insegna una lingua straniera è assai bene che sia istruito e aggiornato sulle tecniche didattiche sviluppate da questo tipo di sapere pedagogico. Quella che va invece a mio avviso osteggiata è l’imposizione di stili di insegnamento modellizzati e uniformi attraverso varie forme di intrusione da parte dell’istituzione. L’efficacia didattica del docente non può essere misurata in termini standard, perché gli studenti non devono essere trattati come una massa indistinta di consumatori cui indirizzare messaggi mediamente efficaci.
Grazie, condivido in tutto e per tutto osservazioni di dettaglio e impostazione generale.
Io non riesco a condividere questo approccio al problema. Non si può fondare una tesi così pesante e gravida di conseguenze su una narrazione autobiografica, per quanto essa possa essere avvincente e significativa. Io penso esattamente il contrario – e mi perdonerete se non sto a prendermi la briga di argomentare in un post ciò che sostengo con il mio lavoro di ricerca e di insegnamento da una vita – e ormai comincio a pensare che questo antipedagogismo non sia il sintomo o la conseguenza della debolezza della pedagogia italiana, bensì la causa della debolezza della nostra letteratura
Da trent’anni insegno e da trent’anni, con consapevolezza via via più salda, penso che gli esperti di didattica non abbiano proprio idea di che cosa sia una classe. Una classe vera, il grigio scuro delle otto del mattino in gennaio, i voti da mettere, i genitori con cui discutere, l’esame di stato con cui fare i conti. E mi fa ogni volta ridere (verde) la supponenza con cui, durante gli aggiornamenti, con lezioni rigorosamente, tradizionalissimamente frontali, ci spiegano con sdegno e scandalo che la lezione frontale non va, assolutamente, vietatissima!!
Negli ultimi anni il controllo sulla didattica si è fatto più opprimente, è vero. Il famoso bonus renziano, ad esempio, oppure il criterio di scelta per la chiamata diretta dei presidi, dalle mie parti privilegia chi ‘innova la didattica’. Mica importa come: è un’antonomasia, come le ‘riforme’ che bisogna fare assolutamente. La loro efficacia magica sta nell’essere riforme, cancellazione dell’esistente. Quale progetto ci sia dietro sembra non importare a nessuno. O meglio: sembra sia persa la consapevolezza che una riforma è un progetto politico, non una necessità tecnica. A scuola è lo stesso.
Come per gli invalsi, che stanno condizionando la didattica dell’ italiano nel biennio del liceo, o dell’analisi del testo nel triennio, tarandola su richieste che oscillano fra il banale e il cervellotico e che evitano con ogni cura la dimensione storica e culturale. Come per le novità della buona scuola, che rosicchiano famelicamente i tempi dello studio riorientandoli al lavoro (gratis), perché tanto, appunto, i contenuti sono poco meno che nocivi – ciò che conta sono le soft skills, che di contenuti fanno a meno, visto che in pratica si tratta di saper leggere e scrivere e far di conto, e in più, verniciatura di contemporaneità, saper fare public relations: sapersi vendere, in pratica. O come per la mia breve esperienza di autore di libri scolastici, durante la quale ho scoperto che l’imperativo categorico era uno solo: semplificare, semplificare, semplificare. O la ridefinizione delle classi di concorso, che permette di insegnare materie di cui si sa pochissimo, perché la competenza nella propria disciplina nella nuova scuola non conterà letteralmente nulla. Un gigantesco balletto sul vuoto, tecniche artificiosissime per insegnare due sciocchezze da Bignami.
Qualcosa si è confuso, nella percezione del ruolo della scuola. Il padre di un alievo mi ha rimproverata con sincero sdegno di volere una scuola nozionistica perchè mi ero permessa di chiedere al figliolo se sapesse descrivere e collocare cronologicamente la Riforma . Non l’Hypnerotomachia Poliphili: Lutero. Non credo sia casuale che il padre in questione fosse docente universitario (non umanista), abituato a quelle tecniche di valutazione e didattica di cui si parla nell’articolo. Se anche Lutero è nozionismo, che cosa deve insegnare esattamente il liceo? Ma lo so, lo so, la domanda è posta male, perchè postula un ‘che cosa’, quando ormai bisogna puntare su un ‘come’, sulla disinvoltura, la spigliatezza, qualità relative a un modo di essere, più che a un sapere. Cosa preoccupante, perchè tutto sommato in questa prospettiva la scuola come la conosciamo diventa inutile.
Sinceramente mi sono ormai stufato di questa continua critica a certe (anche se è da discutere quanto siano diffuse) attuali tendenze pedagogiche legate ad aspetti come burocrazia, valutazione, standardizzazione, quantificazione, critica che si conclude con le solite denunce delle “logiche di mercato”, senza mai capire quale alternativa proporre. Alla fine mi sembra che sia tutta una scusa per tornare al gentiliano “chi sa, sa insegnare”, “il metodo è il maestro” “la pedagogia è ancella della filosofia” e “se la scuola va bene è merito dell’insegnante, se la scuola va male è colpa degli studenti, delle famiglie, dei pochi finanziamenti e così via, di tutti tranne che dell’insegnante”. Insomma, idee di un’altra epoca (quando a scuola ci andava una minoranza di ragazzi, quelli delle famiglie più agiate, facile rimpiangere la scuola di una volta, se essa aveva studenti già colti per conto proprio) che nella scuola di massa non possono certo funzionare… Si spera che prima o poi il vento cambi e si discuta davvero di pedagogia tenendo conto che nella nostra società complessa non servono a nulla articoli antipedagogisti come questo che rischiano di somigliare agli articoli-bufale sulla non efficacia dei vaccini basati sulla critica allo strapotere delle case farmaceutiche basate sul potere e sul mercato…
Ci risiamo. A stagioni alterne parte la filippica contro la pedagogia mentre langue il dibattito sulle ragioni per le quali quasi il 40% degli studenti universitari italiani non completa il suo percorso di studi e sul perché è ancora così difficile far dialogare contenuti e metodi nella comunicazione con lo studente nella scuola e nell’università pubbliche che abbiamo voluto. Coraggio, che lo si dica forte e chiaro, senza troppi giri di parole: questa Università e questa Scuola l’hanno inventata i pedagogisti! Si accettano proposte alternative.
Il tempo dopo e sempre stato diverso da quello prima.
Sappiamo che le trasformazioni et similia, prima sono state più lente quindi più gestibili. Oggi no.
Il tempo odierno vive di “cose” che alienano rispetto al prima quando quelle neanche esistevano.
La convivenza tra quanto rappresentava la potenza del prima ed il corrente di oggi é contraddittoria. Il fondamento non è più assoluto. Piaccia o non piaccia.
Una quota parla, si conforma, si desostanzializza senza un reale confronto mentre altra quota parla, mal si conforma, pensando di porsi opponendosi.
Il movimento delle cose e delle proprie causali, continua.
La dialettica è stata banalizzata, resta il contrasto.
Personalmente non vedo,ora, questo antibiotico.
Complimenti all’autore per il bell’articolo; per quanto mi riguarda, da insegnante, condivido in pieno l’analisi dell’utente “lacurra”.
Complimenti a Mimmo Cangiano per l’articolo. Tutta l’aria fritta prodotta dal pedagogismo, dalla didattica “di regime” è irrilevante o nociva, per il semplice fatto che, come sa qualunque docente con un po’ di esperienza, tutti i metodi (e non c’è bisogno di cattedre universitarie per “insegnarli”) possono funzionare, compresa la vituperata lezione frontale. Dipende da come e, soprattutto, da CHI vengono attuati.
Grazie all’Autore per questo articolo terrificante.
Colgo l’occasione per segnalare un fatterello recentemente verificatosi a Yale (Yale, non la Cambogia di Pol Pot o la Cina della Rivoluzione Culturale).
Halloween. Un gruppo di studenti pianta la grana della “cultural appropriation” e delle “microaggressions”: i bianchi non si azzardino a mettere costumi riconducibili a storie di “minoranze” quali i neri, indiani, etc..
Erika Christakis, vice master del Silliman College, fa girare una mail diplomaticissima in cui invita gli studenti a rispettare la libertà di espressione.
Grave errore: le vanno sotto casa, la insultano, etc. Esce suo marito Nicholas Christakis, master del College e professore di sociologia, difende la moglie e le sue buone intenzioni, discute con gli studenti (i rivoltosi?). Viene circondato da una banda di isterici ideologizzati, insultato, mandato a quel paese, minacciato. Gli isterici lamentano di essere stati aggrediti (?), gridano, si mettono a piangere. Non picchiano Christakis, ma uno ci va molto vicino, gli si pianta a due centimetri dalla faccia e urla. Sono presenti pezzi grossi dell’amministrazione universitaria, e stanno zitti. (Detto en passant, i due Christakis sono dei liberals al 100%, non dei cattivi reazionari razzisti)
Nei giorni seguenti la muta dei rivoltosi inscena un casino dell’altro mondo, l’amministrazione universitaria NON apre bocca per difendere i due insegnanti e anzi si mostra infinitamente preoccupata e sollecita per il benessere emotivo degli aggressori, poverini.
Finisce che i Christakis si dimettono entrambi. Due degli studenti che hanno aggredito Christakis vengono insigniti di un premio del campus per le “relazioni razziali”. In calce metto il video del confronto Christakis-muta.
Se la pedagogia odierna conduce lì, fuciliamo i pedagogisti finchè siamo in tempo.
https://youtu.be/9IEFD_JVYd0
Articolo bello, limpido, su di un argomento chiave, decisivo per campire la società nella sua globalità.
Ovviamente, molte delle preoccupazioni sollevate qui sono ragionevoli e condivisibili: formalizzazione dei metodi e svuotamento dei contenuti, sono rischi veri. Ma qui non si parla dell’Italia.
La mia domanda è: quanto di tutto questo avviene nella scuola italiana? Quasi niente. Io vedo soprattutto lezioni tradizionali, interrogazioni e verifiche tradizionali, disciplinarismo ossessivo.
Insegnare è difficile, facciamocene una ragione, e dei modelli alternativi servono. La “classe rovesciata”, per esempio, che io ho praticato in modo improvvisato, funziona bene. Se si continuano queste lamentele, queste guerre inventate tra “pedagogisti” e “antipedagogisti”, non ci si muove di un centimetro. Ci si muove se ci si chiede: che cosa fanno i ragazzi in aula? Lavorano, e lavorano tutti? O solo alcuni stanno ad ascoltare le parole del professore? Stanno imparando, o l’apprendimento deve essere sempre solo rimandato al momento dello studio a casa, penalizzando quelli tra loro che vivono in una casa in cui non si sa neanche che cosa vuol dire “studio”?
Scusi, Piras, ma per quelli “che vivono in una casa in cui non si sa neanche che cosa vuol dire ‘studio’ ” , invece di lanciarsi in esperimenti pedagogici non sarebbe più semplice organizzare un doposcuola, pagando i tanti insegnanti o laureati disoccupati che ci sono?
l’ultima osservazione: pedagogisti, da che parte state, mi sembra che riassuma bene tutto. forse niente come la pedagogia può essere utilizzato in maniera ambivalente. Grandi pedagogisti sapevano bene da che parte volevano stare, penso a Rodari, al maestro Mansi e penso a A pedagogia do Oprimido di Paulo Freire che già dal nome…
Gentile Roberto, la questione di Yale è un po’ più complessa (ho cercato, perdonatemi l’autocitazione, di raccontarla qui: http://www.glistatigenerali.com/america-mondo/razzismo-stati-uniti-universita-yale/) e ha poco a che fare con i metodi che Mimmo discute. Se no si rischia di confondere i piani.
La distruzione pedagogica della scuola pubblica italiana è stata avviata con l’autonomia scolastica. L’attuale scuola che produce studenti semianalfabeti, con un lessico miserabile, incapaci di scrittura corsiva, ignoranti morfologia e sintassi, è la scuola che ha marginalizzato il lavoro curricolare, quello che Piras chiama ‘lezioni tradizionali, interrogazioni e verifiche tradizionali, disciplinarismo ossessivo’, sostituendolo con i progetti extracurricolari. La riforma Renzi-Giannini cerca di stanare l’ultimo residuo di lavoro curricolare e omologarlo ai nuovi metodi. Non nascondiamoci dietro un dito! Il pedagogismo burocratico vige già da vent’anni, ha vanificato la didattica effettiva ed è responsabile dell’attuale fallimento scolastico conclamato. La didattica capovolta è la quintessenza del pedagogismo distruttivo: parte dall’assunto estremamente controintuitivo che gli alunni vogliano imparare, che abbiano i prerequisiti per farlo, che possano impostare da soli il lavoro. Se ci si riflette, parte dall’assunto che l’insegnante sia inutile. La verità è che si voleva la distruzione della scuola pubblica, perché si generasse la domanda di istruzione privata.
@ Luca Peretti
Grazie della precisazione, leggo volentieri.
@ Luca Peretti
Ho letto il suo articolo, grazie ancora della segnalazione. Dissento in toto. Questi ragazzi, di qualunque colore siano, sono viziati, prepotenti e ignoranti come capre. Con la scusa che sono vittime (vittime di cosa? sono giovani, in salute e frequentano una università prestigiosa e costosa) tappano la bocca a chi non la pensa come loro, insultano un professore, e non solo la passano liscia ma vengono premiati dall’Università. Metodo fantastico per garantire la diffusione dell’ignoranza, della prepotenza, e quel che peggio dell’autocensura tra chi insegna e scrive. Se criteri simili si adottassero nelle facoltà di ingegneria bisognerebbe accendere un cero alla Madonna ogni volta che si attraversa un viadotto.
Se uno vuole imparare qualcosa, sarà meglio che si abitui ad ascoltare anche opinioni che divergono dalle sue (tra l’altro, in questo caso espresse da Christakis con il massimo rispetto e con una delicatezza anche eccessiva, evidentemente motivata da più che giustificata paura). Altrimenti se la suoni e se la canti a casa sua, con la mamma che gli dice “poverino”.
Il genocidio degli indiani d’America e lo schiavismo sono realtà storiche, e su questo non ci piove. E allora? Per questa ragione i discendenti degli indiani e dei neri dovrebbero essere trattati come lungodegenti in rianimazione, come ospiti permanenti del reparto psichiatrico? Se gli si vuole portare rispetto, che li si tratti da persone responsabili, così magari lo diventeranno anche. Adesso, non lo sono: sono una muta di ciechi, sordi, vili e violenti.
L’incidente è in effetti molto significativo. Nella mail da cui è nato la prof.ssa Christakis si chiedeva: “Una volta le università americane erano uno spazio sicuro non solo per la crescita, ma anche per una certa esperienza regressiva o anche trasgressiva; sembra che siano diventate sempre più dei luoghi di censura e di proibizione. E la censura e la proibizione vengono dall’alto, non da voi (studenti)! Ci sta bene questo trasferimento di potere? Abbiamo perso la fede nella capacità dei giovani – nella vostra capacità – di esercitare l’autocensura attraverso le norme sociali, e nella vostra capacità di ignorare o respingere le cose che vi disturbano?” La prof.ssa lamenta la fine della libertà di espressione in università; l’accetterebbe se fosse un’autocensura che gli studenti stessi si infliggessero, non accetta che sia un’iniziativa della dirigenza. Immensa fiducia nei giovani! L’esercizio dell’autorità, anzi: del potere, sempre colpevole! Evidentemente la sua fiducia era mal riposta e ha peccato almeno di eccessivo idealismo. Nondimeno colpisce il ‘be quiet’ della studentessa al professore: in Italia ci sono sicuramente casi di docenti insultati o anche picchiati dai discenti, ma non riesco neanche a immaginare docenti messi così brutalemente a tacere dai discenti. Da noi vige ancora almeno il ricordo che è il docente ad autorizzare la parola. Non è difficile capire il motivo del rovesciamento: a Yale lo studente è un cliente – e il cliente (a differenza dello studente che ha sempre torto) ha sempre ragione. Ma il pedagogismo che ha devastato le nostre scuole non è soltanto l’eredità del Sessantotto, è invece la confluenza di questo con l’ideologia neoliberale, per la quale ogni rapporto umano è essenzialmente uno scambio di merci; non è un caso che nella scuola dell’autonomia non si insegni: essa consiste in un’offerta formativa alla ricerca della sua domanda.
Di recente, altro episodio di aggressione a professore da parte di muta di studenti fanatizzati dal vittimismo politico all’Evergreen State College di Olympia, Wash., che si autodefinisce “a progressive, public liberal arts and sciences college”, v.http://evergreen.edu/
Un gruppo di studenti, sulla base della “identity politics” e dell’antirazzismo razzista, indice un “Day of Absence” in cui tutti i bianchi dovrebbero assentarsi dal College. Un professore, B. Weinstein (di sinistra radical) obietta. La muta di fanatici lo assedia, lo insulta, lo minaccia, pretende le sue dimissioni:
https://youtu.be/a7s8IAOuumQ
Invece di espellerli tutti, i dirigenti del College incredibilmente si zerbinano di fronte alla banda di barbari di ritorno:
https://youtu.be/bO1agIlLlhg
Qui la risposta agli studenti del vigliacco in capo:
http://www.cooperpointjournal.com/2017/05/27/george-bridges-statement-in-response-to-student-demands-delivered-in-the-longhouse-on-friday-may-26/
Dopo la vittoria, i neobarbari organizzano ronde di vigilantes armati di mazze da baseball con la scusa di mantenere l’ordine nel college.
Risposta dei dirigenti del College? No, non denunciano i vigilantes, non chiamano la la polizia, non li espellono: gli mandano una email invitandoli delicatamente a smettere.
L’incredibile dichiarazione di resa senza condizioni alla violenza e all’ignoranza fanatica, e di abiura della ragione, è la seguente:
“Dear RAD Students,
We are aware of a small group of students coordinating a community patrol of housing and campus. We acknowledge and understand the fear and concerns that are motivating these actions. We also understand that these students are seeking to provide an alternative source of safety from external entities as well as those community members who they distrust.
Community patrols can be a useful tool for helping people to feel safe, however the use of bats or similar instruments is not productive. Some members of this group have been observed carrying batons and/or bats. Carrying bats is causing many to feel unsafe and intimidated. The bats must be put away immediately in order to protect all involved. Non-students participating in this activity are advised to leave campus.”
http://www.thecollegefix.com/post/33027/
Qui un buon commento che va al nucleo della questione:
“In the end, the Weinstein/Evergreen State affair poses a significant crossroads to modern society, extending well beyond the conflict occurring on campus. Evergreen State represents the natural culmination of postmodern thought—roving mobs attempting to silence dissenting thought merely based on race, informed by far left theories that weaponize a victim status drawn solely from immutable, innate traits. Unfortunately, I cannot place full blame on the students either, as they have been indoctrinated with these ideas on the very campus that is now serving as the petri dish for applied postmodernism.”
http://quillette.com/2017/06/08/evergreen-state-battle-modernity/
Molto interessante la ripartizione dei ruoli e dei generi in questo racconto.