di Luisa Lorenza Corna

I.

Avvalendosi del sostegno del magnate francese Francois Pinault, il rappresentante della Young British Art ha recentemente deciso di fare della collezione – e della pratica del collezionismo – l’oggetto della sua ultima mostra veneziana. Quanto meno se seguiamo il testo esplicativo che precede la preziosissima raccolta di oggetti distribuiti lungo gli oltre 5000 metri espositivi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Si tratterebbe di una collezione di tesori risalenti al secondo secolo A.C., appartenenti allo schiavo liberato Amotan e originariamente destinati al tempio di Asit Mayor. Durante il viaggio navale verso la località del tempio, il vascello che trasportava il bottino – l’Apistos – sarebbe però naufragato, disperdendo l’immensa fortuna nel mare.
Venuto a conoscenza di questa storia, Damien Hirst se ne innamora, e decide di impegnarsi in un’impresa epica e titanica: salvare dagli abissi la collezione di Amotan per restituirla al pubblico, in tutta la sua magnificenza. Nella mostra, la storia dell’incredibile ritrovamento è narrata da enormi light-boxes ritraenti squadre di sommozzatori impegnati a recuperare i tesori dal fondo del mare, come dai rilievi delle opere “salvate” e da una riproduzione in scala del leggendario vascello.

Tutto ciò però non è altro che l’involucro appariscente del vero cuore dell’esposizione costituito da centinaia di sculture, gioielli, armi, lingotti e vasi di ogni dimensione e materiale, originariamente destinati al tempio di Asit Mayor. Hirst affolla l’intero spazio messo a disposizione. Già all’entrata di Palazzo Grassi ci accoglie una scultura di un demone senza testa che si estende fino a quasi toccare il soffitto. Segue una serie infinita di statue di epoche storiche diverse, alcune ancora coperte da coralli e concrezioni marine, altre perfettamente ripulite. Incontriamo busti, teste, conchiglie, leoni, meduse, scorpioni. Non mancano creature fantastiche. Le sale più grandi ospitano riproduzioni di episodi mitologici, come il duello tra Kali ed il serpente dalle nove teste Hydra; o la scena di Andromeda legata ad uno scoglio in mezzo al mare, dal quale emerge un minaccioso mostro marino.

A Punta Dogana sono invece esposti i gioielli, tutti rigorosamente sotto teche, così da esaltarne la preziosità. Qui, ammaliati dall’oro, dalle pietre e dai coralli, i visitatori fanno incetta di foto, ma il vetro, perfettamente lucidato e riflettente, gioca a loro sfavore.
Mano a mano che ci si inoltra nella mostra, però, la storia del vascello naufragato e del ritrovamento, inizia a perdere credibilità. Fra gli oggetti preziosi salvati dalle profondità del mare e della storia, troviamo quasi subito emblemi della nostra contemporaneità, come i cartoon disneyani di Goofie e Mickey Mouse.

Il volto della statua Bust of the collector richiama inequivocabilmente le fattezze di Hirst, mentre il mastodontico calendario collocato nella sede di Punta della Dogana, riproduce motivi scultorei della civiltà azteca, fiorita secoli dopo il naufragio dell’Aspitos. Ma anche i colori delle incrostazioni sono troppo brillanti così come le ammaccature sono troppo perfette per essere state sottoposte, per oltre duemila anni, alla forza erosiva delle correnti marine. Ci vuole, insomma, una buona dose d’ingenuità – e di miopia – per credere alla leggenda del tesoro ritrovato.
Mentre attraversavo le sale della mostra, continuavano a venirmi in mente scene tratte dal film Il grande impostore di Robert Mulligan. In questa divertente commedia, il protagonista Ferdinand Demara, impersonato da Tony Curtis, millanta di possedere titoli e competenze per cercare in ogni modo di avere successo. La menzogna, tuttavia, non serve a vincere, ma a perdere di nuovo. Ferdinand desidera disperatamente riscattare un fallimento professionale del padre, che ricade su di lui come una macchia.
La storia del grande impostore non è di certo sovrapponibile alla mostra di Hirst. Tuttavia, mi permette di riflettere, anche se per via negativa, sulla forma della sua macchinazione. A differenza di Ferdinand Demara, Hirst ha già conseguito tutti i traguardi possibili. Qualche anno fa, For the Love of God, il suo celebre teschio di platino ricoperto di diamanti, è stato venduto per 50 milioni di sterline, divenendo, al tempo, l’opera d’arte più cara della storia. Ma soprattutto, mentre Ferdinand occulta qualsiasi dettaglio che possa rivelare la sua identità reale, Hirst dissemina indizi ovunque sull’inattendibilità della storia che sta raccontandoci. La menzogna non serve ovviamente all’artista per autorappresentarsi come una figura socialmente più desiderabile, magari quella del collezionista filantropo che si è prodigato per restituire un tesoro sommerso all’umanità. Se così fosse, avrebbe smorzato i toni dei coralli o, per lo meno, evitato di includere i cartoon disneyani nell’esposizione. La menzogna serve ad un altro proposito, molto più insidioso.

Nel progetto concepito per la fondazione Pinault, Hirst gioca volontariamente su una scissione: quella fra discorso sull’opera d’arte e sua evidenza sensibile. E per discorso non si intende qui l’apparato teorico sovraimposto dalla critica, ma la testimonianza dell’artista sul proprio lavoro. Testimonianza che collide con la versione dei fatti da lui stesso inscritta nella forma dell’opera. La scelta di ostentare la contraddizione tra ciò che si dice a parole e ciò che si rivela, indirettamente, tramite ciò che si produce, non intende certamente rimandare alla radicale tesi adorniana della non-identità tra concetto e oggetto, ma è piuttosto una dimostrazione del potere assoluto di cui dispone un’artista una volta raggiunto un successo commerciale come il suo. Potere di ottenere la complicità totale di un’istituzione e di ridurre il lavoro di curatela ad un orpello. E più in generale, potere di irridere la presenza di una verità storica e degli sforzi destinati alla sua ricerca.

L’arte è, per definizione, artificio ed invenzione. Con Hirst però qualsiasi riferimento al mondo scompare e resta la contemplazione di un nichilismo assoluto. Gavin Turk, negli anni 90′, ammoniva che quando l’arte si sporge troppo sul terreno dell’industria dell’intrattenimento corre il rischio del proprio fallimento. Ma non tanto per ragioni morali, quanto per una logica banale. Per quanto si sforzi di abbracciare il disimpegno, inventando forme ed eventi in grado di divertire, svagare e stupire il pubblico, l’arte non può rinunciare alla sua aurea di prestigio. Se ciò accadesse, smetterebbe di costituire un’ineguagliabile forma d’investimento. Poter vendere all’asta per 50 milioni di sterline la scultura di un teschio comporta una rinuncia decisiva sul piano della godibilità. La visita alla mostra veneziana di Hirst vi regalerà la curiosa esperienza di passeggiare tra una zoologia immaginaria, ma non attendetevi effetti speciali capaci di riattivare l’apparato sensorio. Del resto, come scrisse lo stesso Turk, “as entertainment, art isn’t particularly entertaining”.


 

[Immagine di copertina: Damien Hirst, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, Venezia, 2017]

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