di Antonio Scurati
[Questo saggio fa parte di un’appendice all’Enciclopedia Italiana Treccani, intitolata Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura]
Per comprendere cosa sia la “letteratura dell’inesperienza” bisogna condurre un esperimento mentale.
Si chieda a un uomo nato in Italia al principio degli anni ’70 quale esperienza abbia della guerra. Di primo acchito risponderà: nessuna. Poi, dopo un attimo di riflessione, dovrà ammettere che ne ha parecchia: la sua prima ‘esperienza’ di guerra l’ha fatta a vent’anni, la notte del 17 gennaio del 1991 quando gli aerei della coalizione anti-Saddam bombardarono Baghdad in diretta televisiva. Certo si trattava di una ‘inesperienza’, cioè di un’esperienza deprivata dei tratti caratteristici dell’esperienza vissuta: la continuità, l’irreversibilità, la fatidicità. Dopo aver assistito allo spettacolo di morte e distruzione, si poteva spegnere la tv e andarsene a letto. Anzi, lo si doveva fare. Non c’era alternativa all’assurdo: per quel giovane uomo la guerra è stata una serata trascorsa davanti alla televisione sorseggiando birra fresca. Al pari di buona parte della sua rimanente vita pacifica. Tutti i grandi eventi storici e planetari cui la vita di quell’uomo ha preso parte dopo di allora – l’11 settembre, le catastrofi ambientali, le migrazioni dei popoli – sono stati per lui innanzitutto eventi mediatici. Il suo mondo è la sintesi disgiuntiva di una pluralità di mondi immaginari.
La Prima guerra del Golfo stabilì il paradigma della odierna prevalenza dell’immaginario imponendo un rapporto di proporzionalità inversa tra spettacolarità e visibilità: a un aumento esponenziale delle immagini di guerra, corrisponde una progressiva diminuzione della capacità del telespettatore di stabilire, attraverso l’esercizio della vista, una presa conoscitiva sulla realtà che sia anche di base all’agire politico e sociale (A. Scurati, Televisioni di guerra, p. 18). Ma, proprio in virtù di questo paradosso, quella guerra fu un grande successo politico e mediatico per i suoi promotori: la guerra come spettacolo televisivo per famiglie crea un lobo immaginario rispetto al quale il discernimento tra vero/falso diventa arduo perché la distinzione tra reale e finzionale viene proposta come irrilevante o, meglio ancora, impertinente. E’ il trionfo del nuovo statuto dell’immaginario, è ciò che si potrebbe definire fictual, una crasi della nuova confusione normativa (non facoltativa) tra fictional e factual. Il fictual sorge dalle macerie di Baghdad, la prima guerra della storia ‘inesperita’ in diretta televisiva da un pubblico globale.
Nel regno del fictual, per chi si trova dal lato incruento dello schermo, sul versante anodino della storia, nemmeno l’annientamento dell’essere umano significa più qualcosa in se stesso ma assume il proprio significato per rifrazione dalla diffusione mediatica delle immagini della sua distruzione, come nel terrorismo mediatico. Mai in una guerra la distruzione dei corpi fu più pretestuosa. Mai si morì più in vano che nelle guerre televisive. Nel regno del fictual si uccide e si muore al futuro anteriore, in vista del significato che questa uccisione un giorno avrà assunto al termine della sua circolazione mediatica, in vista di ciò che un giorno il morto sarà stato dopo che verrà tradotto in immagine.
E’ la compiuta degradazione del tragico in osceno, congenita alle tendenze fondamentali della cultura di massa fin dal loro primo manifestarsi (A Scurati, Dal tragico all’osceno, 2016, p. 15). E’ l’aberrazione del tema sacrificale: non più “loro muoiono in vece mia” ma “loro muoiono e io no” (E. Morin, Lo spirito del tempo [1962] 2002, p. 141). Siamo di fronte a una mutazione profonda delle strutture fondamentali dell’esperienza, a un inaudito slittamento antropologico:
Negli ultimi cinquant’anni la vita psichica delle masse occidentali ha subito una metamorfosi senza precedenti; tutti noi ne siamo stati trasformati e travolti. Fedele a una visione eroica e maschile dell’accadere e dell’esperienza, all’idea che le rotture epocali si manifestino sotto forma di guerre e rivoluzioni, una parte della cultura contemporanea continua a sottovalutare la portata di ciò che è accaduto (G. Mazzoni, I destini generali, 2015, p. 9).
La letteratura dell’inesperienza è, precisamente, quella parte della produzione letteraria europea contemporanea che non sottovaluta la portata di questa mutazione ma, al contrario, ne assume la condizione paradossale e la contraddizione basilare al fondo della propria scrittura. La condizione paradossale è quella di chi viva in un’epoca in cui le rotture epocali non si manifestino più sotto forma di guerre e rivoluzioni. La contraddizione consiste nel fatto che, anche quando accadano guerre, rivoluzioni e cataclismi ambientali, essi non s’impongono più alle nostre vite quali rotture epocali.
L’era del testimone e l’eclissi dell’esperienza
Quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero (…) Questo ci tocca oggi, soprattutto, ripensando a quei tempi: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva una immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, “Presentazione”, [1964] 1993, p. VI).
La letteratura dell’inesperienza ha una collocazione geopolitica – l’Europa ‘occidentale’ – un’origine storica, che può essere individuata nella dirette televisiva della Prima guerra del Golfo, ma ha anche una preistoria e questa va ritrovata in un dopoguerra: la stagione del neorealismo rievocata da Calvino nel 1964. Tutte le condizioni culturali che Calvino individuava negli esordi degli scrittori della sua generazione sono sistematicamente estinte per l’ultima generazione di scrittori del secolo: “il senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero” (p. VI), la comunità scrittori-pubblico, la “elementare universalità dei contenuti” (p. VII), quella presenza di materiali extraletterari depositati nell’esperienza di guerra, tanto massiccia e indiscutibile da sembrare “un dato di natura” e da far sì che per i suoi contemporanei tutta la questione letteraria si risolvesse in un problema di poetica: “Come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo” (p. VIII), nella certezza che “le letture e le esperienze di vita non sono due universi ma uno” (p. XVI).
Univocità del mondo, obbligatorietà dei contenuti, comunità: tutte queste condizioni non sono semplicemente assenti per gli scrittori che pubblicano all’inizio del terzo millennio. Molto di più: sono mancanti. La situazione del neorealismo perdura nella forma della sua più radicale negazione. Gli ultimi ragazzi del Novecento non sono semplicemente liberi da quelle condizioni che obbligarono i padri e i nonni, sono figli deprivati di quella eredità. Il mondo non si dà più in modo univoco e per questo diventa urgente raccontarlo, le comunità è introvabile e per questo bisogna fingerla, i contenuti sono del tutto arbitrari, innumerevoli, gratuiti e per questo difettano, le letture e le esperienze di vita sono destinate a rimanere universi separati proprio perché indistinguibili.
Nella situazione storica del neorealismo, l’autorità del vivere appariva incontestabile, sovrana, assoluta. Confidando in essa, narrazione ed esperienza rinnovavano la loro antica alleanza. L’autorità della testimonianza dipendeva, infatti, dal prevalere di un orizzonte culturale in cui la possibilità che il mondo aveva di rivestire un senso risiedeva nel racconto che se ne dava, non nel calcolo scientifico, nella manipolazione tecnologica cui lo si sottoponeva o nella manifestazione spettacolare che gli si sovrapponeva. Ma, attenzione: la vita consolidava la propria autorità nella prossimità alla propria apocalisse. Nel secondo dopoguerra, testimonianza era, infatti, ancora il racconto di chi aveva vissuto ed era sopravvissuto, prima di essere il racconto di ciò che si era vissuto. Con la fine della Seconda guerra mondiale, nello scenario di una Europa trasformata in immenso cimitero apogeo, nei racconti dei superstiti si inaugurava quella che Annette Wieviorka ha definito “era del testimone”. A questa altezza storica, però, testimone è ancora quasi un sinonimo di martire, “il testimone è associato al destino di colui di cui testimonia”, la testimonianza estrema è ancora “quella del sangue” (A. Wieviorka, L’era del testimone, 1999, p. 48-49).
Oggi, invece, è proprio quest’autorità del vivere, il prestigio e la maledizione della nuda vita, a essere entrata in un margine di esclusione storica. Nella società dell’informazione, dello spettacolo, delle televisioni, dell’immagine elettronica, digitale, virtuale, a regredire è proprio la possibilità di conoscere il mondo in base alla nostra esperienza vissuta. L’arte del racconto tende, dunque, a scadere a intrattenimento, la vecchiaia dei superstiti a una fase terminale, inutile, imbarazzante dell’esistenza. Il mondo intanto si riduce in dimensioni, diventa a ‘portata di mano’ ma perde consistenza, un’ombra di quel mondo solido, prevedibile, affidabile e terribile che un tempo era stato. Sotto lo “open sky delle telecomunicazione in tempo reale” (P. Virilio, Open Sky, 1997), la realtà non ‘si vive’ e la sua conoscenza non riposa più sull’esperienza. Al contrario, l’inesperienza è la condizione trascendentale dell’esperienza attuale. Telepresenza, fine della geografia antropometrica, superfetazione dei simulacri: oggi, più viviamo più siamo inesperti della vita. L’inesperienza si “accumula innaturalmente come un tempo si cumulava, naturalmente, l’esperienza” (A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza, 2006, p. 34). Il mondo al tempo della “grande ottica” planetaria, rischia di essere la vita senza un orizzonte di mondo.
Inesperienza, modernità, mito della guerra
Viene da lontano l’eclissi dell’esperienza. In essa la guerra, le grandi tragedie storiche, le rotture cataclismatiche rivestono un ruolo centrale e ambivalente. Nell’Ottocento questo processo di lungo periodo si evidenzia nella nascita di un mito dell’esperienza che assume, non a caso, i tratti del “mito dell’esperienza di guerra” (A. Scurati, Guerra, 2007, p. XIII). L’allentamento dei legami comunitari, la giuridificazione dei rapporti interpersonali, l’impersonalità degli apparati burocratici, l’alienazione del lavoro industriale, la repressione degli istinti sessuali nella famiglia patriarcale, il principio del risparmio cui s’improntava l’economia fordista, l’anonimato dell’esistenza nelle grandi aree urbane, l’avvento delle masse sulla scena della storia, con la relativa spersonalizzazione dell’agire, furono tutti fattori che contribuirono a fare della società borghese un sistema oppressivo. Un sistema in cui il brandello di vita che l’individuo poteva vivere in prima persona era pressoché insignificante. Come osservò Musil, cominciò a crearsi una situazione paradossale per cui tutto ciò che poteva essere vissuto nelle nostre esperienze quotidiane assumeva il sapore di un’astrazione, mentre a sembrare concreto era ciò che si leggeva nei giornali.
Le esistenze scarnificate degli individui sottoposti a questo giogo vagheggiarono, perciò, nella guerra, il momento di massima intensificazione vitale che li avrebbe riscattati dall’inanità delle loro routine quotidiane. Ma, con il primo conflitto mondiale, la guerra produsse la più devastante delle autodemistificazioni. Come notò Benjamin, fu proprio con la Grande guerra che si realizzò la “caduta delle azioni dell’esperienza” (W. Benjamin, Angelus Novus, 1962, p. 248). Dalla guerra, per la prima volta, l’umanità tornava “ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienze partecipabili” (Ibidem). Il centro della macchina mitografica si rivelava vuoto eppure proprio per questo continuerà a produrre i suoi effetti. La smentita empirica non impedirà, affatto, che il mito della guerra come mito dell’esperienza riaffiori per tutto il Ventesimo secolo con i fascismi propugnati dai reduci delle trincee, poi con l’agiografia della Resistenza, e poi ancora e ancora. Anzi, il ritorno incessante, a dispetto di ogni smentita empirica, del mito della guerra come mito dell’esperienza è un caso esemplare di ciò che Badiou ha identificato come il tratto distintivo del XX secolo: la “passione del reale” (A. Badiou, Il secolo, 2006, p. 70). Più la realtà sociale quotidiana va assumendo il carattere di un falso organizzato e più l’esperienza del reale nella sua estrema violenza viene pensata come prezzo da pagare per poter asportare gli strati fuorvianti che ricoprono la realtà: “la durezza della violenza presente in quanto tale comincia ad essere percepita come un segno di autenticità” (p. 78).
La logica dell’esperimento scientifico che separa verità di fatto da verità di ragione, la proliferazione di “sistemi esperti”, tecnologie quotidiane a funzionamento incomprensibile, il trionfo del capitalismo che smaterializza l’economia separando il capitale dal lavoro, il valore di scambio da quello d’uso, il “sequestro dell’esperienza” da parte di istituzioni disciplinari e scientifiche, l’avvento infine dei media elettronici che rendono accessibili in tempo reale esperienze di vita violenta e di violenza estrema accadute a estranei: lungo questa strada la cultura di massa dà luogo a una mitologia euforizzante che tende a denegare l’esperienza della nostra mortalità e ad affrancarci dalla responsabilità per la morte altrui.
Lungo questa strada, il Novecento, secolo degli stermini e delle comunicazioni di massa, ritrova la centralità del testimone. Il suo profilo, però, è quasi irriconoscibile, il suo concetto rovesciato nel proprio opposto, ora che l’era del testimone scivola nell’era dello spettatore. Si tratta qui dello sconvolgente ribaltamento semantico che investe il concetto di «era del testimone» allorché la sua definizione passi dal punto di vista dello storico a quello del massmediologo. Definendo il Novecento a partire dalla centralità acquisita dalla funzione del testimone, Annette Wieviorka, nel suo saggio del 1998, aveva registrato la novità epocale rappresentata dalle migliaia di ebrei che in tutti i ghetti della Polonia invasa dai nazisti cominciarono a scrivere, a raccogliere testimonianze ‘dal basso’ e in prima persona, nella consapevolezza che la loro esperienza vissuta, in prossimità dell’apocalisse, si sarebbe storicizzata soltanto attraverso una stenografia quotidiana di ciò che stavano patendo. Nello stesso momento storico, ma rivolgendosi al presente e al futuro, lo studioso di mass-media inglese John Ellis, in un saggio apparso soltanto l’anno successivo a quello della Wieviorka, poteva definire come “era del testimone” quella apertasi con l’avvento della televisione negli anni ’50 e basava la propria definizione sulla funzione di testimoni a distanza che le masse di telespettatori svolgerebbero nei confronti dell’esistenza altrui. In questo modo, Ellis recide il nodo gordiano di esperienza e testimonianza, sganciando totalmente il nuovo concetto da qualsiasi ancoraggio nel vissuto personale (Ellis, Seeing Things, Londra 1999). Su un versante, quindi, un enorme popolo di morti, una comunità di uomini in posizione di vittime autorevoli prende la parola per la prima volta nella storia per testimoniare il proprio dolore, per denunciare l’ingiustizia subita, per accusare i propri carnefici. Rende autorevolmente testimonianza di ciò che ha vissuto perché ha vissuto e molto sofferto. Sull’altro versante, soltanto un passo più in là, una massa ancora più grande di viventi assiste in posizione di quasi totale passività e anestetica estraneità alla sofferenza altrui, ergendosene a testimone proprio perché non l’ha vissuta né mai, si presume e si spera, la vivrà
Ecco il paradosso, ecco la contraddizione. In questa tela di ragno della storia si avviluppa la letteratura dell’inesperienza.
Il romanzo della Dopostoria
Essendo questi i termini della contraddizione, la letteratura dell’inesperienza abbraccerà tutte le situazioni narrative in cui il nodo stretto tra evacuazione del vissuto e sua mitologia risulterà inestricabile. Tra tutte, la rievocazione narrativa della Storia dopo la sua fine assumerà un ruolo centrale. Al centro del centro, si accamperà la Seconda guerra mondiale – il nucleo tragico-epico del tempo della Storia – assurto a materia narrativa d’elezione proprio quale momento quintessenziale di un’intensificazione esperienziale divenuta inattingibile.
A raccontarla oggi, si stenta a credere che la Seconda guerra mondiale sia realmente accaduta. Esattamente per questo motivo, in Italia come in Europa, la letteratura dell’inesperienza ne moltiplica i racconti. La conclusione del più grande e terribile evento della storia umana dista da noi settant’anni. Non solo i nostri nonni ma perfino i nostri padri l’hanno vissuto eppure, se proviamo a misurarlo sul metro delle nostre vite odierne, sbattiamo contro il muro dell’incommensurabile. L’esperienza di vita delle generazioni nate in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale manca di una base comune a quella della generazione che lo attraversò. Quando rileggiamo oggi sugli schermi digitali i diari dei nostri nonni sotto le bombe, possiamo pensare di non appartenere alla medesima specie umana.
Emblematica di questo sconcerto è la storiografia esperienziale del Secondo conflitto mondiale. In Inferno. Il mondo in guerra, Max Hastings offre una narrazione complessiva, analitica, documentata della Seconda guerra mondiale ma interamente incentrata sul vissuto delle persone comuni che vi presero parte. Questo affresco grandioso ci offre, insomma, l’occasione di verificare se sia possibile essere i continuatori dei nostri padri e di chiederci “che fine abbiano fatto tutti quei guerrieri” (J. Sheenan, L’età post-eroica, 2009).
“Questo libro parla soprattutto dell’esperienza umana”, proclama l’autore nell’incipit (M. Hastings, Il mondo in guerra, 2012, p. 11). Ovvio, potremmo ribattere, di cos’altro si può parlare se non dell’esperienza umana? Se ci si cala, però, nel flusso di questo terribile, ipnotico racconto, l’ovvietà svanisce. Hastings, consultando una mole enorme di scritture private, è andato alla ricerca del significato del conflitto per le persone comuni nei cinque continenti. Seguendolo, si scopre ben presto che, in molti casi, per chi lo visse in prima persona il grande evento non ebbe nessun significato intellegibile. L’esperienza vissuta rimase in seguito sempre memorabile sebbene fosse stata, al momento del suo darsi, come vuole il paradosso di Stendhal, cieca a se stessa e priva di senso.
“Volevamo combattere, eravamo eccitati, e volevamo che succedesse in fretta. Non credevamo che potesse capitare qualcosa di brutto” (p. 18). Lo dichiarerà un pilota polacco rievocando l’agosto del 1939, vigilia dell’invasione. Ciò che poi capitò in poche settimane fu l’annientamento della Polonia. Parigi, 22 giugno 1940, una ragazza inglese di diciannove anni, Rosemary Say, assiste alla parata per la vittoria tedesca: “La macchina da guerra percorreva gli Champs Elysées: cavalli dal pelo lucido, carri armati, cannoni e migliaia di soldati (…) I miei amici americani erano come ragazzini: ripetevano ad alta voce i nomi dei diversi reggimenti, gridavano al passaggio dei carri armati più moderni. Io restavo in silenzio, del tutto consapevole di assistere a un evento storico. Anche così, tuttavia non provavo grandi emozioni” (p. 109). I nazisti sfilano a Parigi sotto l’arco di trionfo eppure la giovane Rosemary non rabbrividisce dinanzi agli uomini terribili che presto bombarderanno i suoi parenti in Inghilterra. I suoi amici statunitensi si esaltano alla vista degli armamenti che pochi anni dopo li massacreranno sulle spiagge di Normandia. Il più grande choc culturale dell’età contemporanea vissuto come spettacolo glamour.
Il libro di Hastings è zeppo di aneddoti che testimoniano la struggente cecità dell’esperienza riguardo a se stessa. Ampio è lo spettro di questo accecamento. All’estremo opposto della folgorazione abbagliante, troviamo l’ottundersi della vista, l’addensarsi delle ombre, il progressivo sprofondare del mondo in un anti-spettacolo ottenebrante. Anche questa linea prosegue a infinito, sommando frammenti di cieche esperienze personali, brani di vite lacerate, marginali e ignote a loro stesse. Ma questa sommatoria ostinata, questa devozione cieca è esattamente ciò che pratica Hastings. L’aspetto sorprendente di questa compassionevole, impossibile sutura, è che, a ben guardare, essa è figlia proprio di un’ideologia dell’esperienza vissuta, a sua volta figlia della Seconda guerra Mondiale: la narrazione della storia che “enfatizza il punto di vista e l’esperienza dal basso, la voce dei piccoli piuttosto che dei grandi”, la cecità di civili immersi nella nebbia della propaganda o dell’incertezza, la cecità di soldati immersi nel caos tattico della guerra post-umana, questa poetica letteraria è probabilmente il più significativo prodotto culturale di quell’immane carneficina.
Fu, infatti, quell’azzeramento dell’umano a inaugurare in Europa una breve stagione di nuovo umanesimo, nel corso della quale nessuno avrebbe più rinunciato a misurare il senso delle idee e degli eventi sul metro breve dell’esperienza vissuta da ciascuna singola vita. Alle maligne astrazioni anti-umane della “mistica meccanizzata” nazista, delle ideologie totalitarie, delle guerre di materiali, l’Europa postbellica reagì inaugurando “l’era del testimone”. Molto presto, quel modo di raccontare divenne anche un modo di intendere la vita, la politica e il mondo. “Il popolo dei morti”, evocato da Piero Calamandrei durante i lavori dell’Assemblea Costituente divenne fonte di legittimazione della rinata democrazia europea, fondata sul nuovo diritto alla vita e sull’autorità assoluta che l’esperienza di ciascuno detiene riguardo a se stessa.
Ma quel modo di raccontare divenne presto anche un modo per far proliferare lo spettacolo spettrale della vita inesperta. Oggi, nel momento in cui la formidabile generazione della ricostruzione postbellica si avvia a esaurire la propria esistenza, la storia europea sembra ancora smottare verso un ciclo di maligne astrazioni e l’autorità della vita vissuta è usurpata dalle fantasmagorie delle merci sfrenate, delle esperienze mediate e della finanza globale. Il culto umanistico dell’esperienza, non a caso, si tecnicizza in una retorica della vita vissuta. Alla testimonianza di chi ha vissuto nella zona bruciante di contatto con la Storia si sostituisce l’individualismo obbligato dalle istituzioni economiche neo-liberiste, il protagonismo coatto di storie di vita da talk show televisivo, la loquacità di massa dei social media. Il criterio umanistico della tutela della vita non è più minacciato dalla sublime tragedia della storia ma dal suo scadimento a pantomima farsesca. L’essere nel tempo, smarrito ogni orizzonte storico, si cronachizza; l’esistenza, allora, si “cronicizza in una malattia di lungo decorso” (A. Scurati, Gli anni che non stiamo vivendo, 2010, p.13).
Ed è precisamente in questo frangente crepuscolare, quando la vita singolarmente non-vissuta collima senza resti, senza vie di fuga, con il proprio perpetuo errore, quando la vocazione al racconto di tanta scrittura egemone è sottoposta a una “coazione alla cronaca” (A. Mazzarella, Politiche dell’irrealtà, 2011, p. 37)), che il romanzo europeo si rinnova nella ricerca di un diverso rapporto con la Storia. I romanzi che narrano le epopee rivoluzionarie e totalitarie del Novecento, i suoi stermini, le sue guerre mondiali, le sue odissee post-coloniali, fioriscono in Occidente al principio di questo suo nuovo secolo pacifico e prosaico. Ancor di più: è la stessa forma romanzo e rifiorire trapiantandosi, in una sorta d’illegittima translatio imperii, su questo terreno arato dal cannone di generazioni perdute.
Non si tratterà, ovviamente, di romanzo storico in senso tradizionale e convenzionale. Per questa ramificazione principale della letteratura dell’inesperienza la storia non può essere una semplice materia narrativa loquace e acquiescente; la storia è muta presenza inquietante e minacciosa, è l’assenza che incombe sui presenti, la storia è il convitato di pietra.
Si tratta, dunque, non di romanzi storici, e nemmeno di romanzi della fine della storia ma di romanzi che ricercano il perduto sentimento della storia, di romanzi della Dopostoria, per dirla con il poeta. Libri di confine, di sradicamento e trapianto, che “sussistono, per privilegio d’anagrafe/dall’orlo estremo di qualche età sepolta” e, “più moderni di ogni moderno”, si aggirano tra il Ventunesimo e il Ventesimo secolo “a cercare i fratelli che non sono più” (P. P. Pasolini, Io sono una forza del passato, 1994). Sono romanzi appartenenti alla fase matura, tardiva dell’era del testimone ma che vengono “dopo la scomparsa dell’ultimo testimone” (D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, 2009).
Il paradosso è vasto, la contraddizione stridente. Nel secondo Novecento, la testimonianza ha acquisito fondamentale autorevolezza storica. Parallelamente, l’ideologia del “vissuto”, a dispetto di ogni confutazione e auto-confutazione, si è consolidata a fondamento dell’autorità a narrare, disseminata in un proliferante storytelling; il secolo degli stermini e delle comunicazioni di massa, della violenza iperbolica e dei collegamenti orbitali in tempo reale, ha tolto la vita e ridato la voce a una moltitudine oscura di singole sofferenze estreme. A quest’altezza, però, si produce il paradosso, l’interruzione della tradizione che diventa il solo modo possibile di ereditarla: i romanzi della Dopostoria sono, infatti, scritti da una generazione nata subito dopo la fine di tutto questo e subito prima dell’inizio di tutto il resto. L’anagrafe stabilisce la nascita dei loro autori a partire dagli anni ’60, a ricostruzione compiuta, la biografia li vede affacciarsi all’età adulta sul finire degli ’80, in pieno riflusso di ogni superstite, stremata velleità politica novecentesca.
I romanzi della Dopostoria stanno, dunque, in questo paradosso e ne assumono la contraddizione: attingono la propria materia narrativa alla storia epico-tragica del Novecento, che ha inaugurato l’era dell’esperienza testimoniale, ma sono scritti da una generazione di non-testimoni inesperti. Sono, insomma, per forza di cose, tutti vangeli apocrifi, sono sostanzialmente romanzi postumi (G. Ferroni, Dopo la fine, p. 19). Non posseggono, infatti, la sola forma di autorità a parlare che essi stessi riconoscono. Sono privi di titolarità, di legacy, figli illegittimi, scritture bastarde, diseredate. Questi libri vengono catturati in un doppio legame di parentela ed estraneità, di prossimità e lontananza. I loro autori compongono l’ultima generazione raggiunta dall’eco della deflagrazione e la prima a non rimanerne ferita. Devono, dunque, proclamarsi senza diritti ma anche privi di colpe e, al tempo stesso, sgravati dal senso di colpa. A questo punto si produce, infatti, una svolta: c’è struggimento per qualcosa che non si è mai vissuto. C’è poetica dello struggimento ma non c’è malinconia, non c’è lutto, perché anche il lavoro del lutto è finito. La privazione è per questi romanzi un attributo essenziale e, simultaneamente, l’occasione di un nuovo inizio, di una più ampia, spericolata libertà creativa: questi romanzi della Dopostoria possono riappropriarsi della esplosiva materia narrativa novecentesca a partire dalla non-appartenenza ad essa. Sono finalmente liberi, potenti, inebriati da quel senso di potenza che si prova al cospetto di un cadavere.
Che cosa dobbiamo alle vittime? Come possiamo, nella nostra presente vita protetta e pacifica, guardare e richiamare il “dolore degli altri” (S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, 2003)? Come possiamo accollarci le loro storie senza usurparne l’autorità, senza narcisismi e senza, per altro verso, lasciare che azzerino le nostre esistenze? Come siamo indirettamente implicati in quegli orrori? Può la memoria di genocidi divenire forza attiva di resistenza? Nascendo da questi interrogativi, essendo scritto da una “seconda generazione”, facendo pratica di una “testimonianza vicaria” (F. Zeitlin, The Vicariuos Witness, 1998), “adottiva”, facendosi carico del paradosso di una personale “conoscenza indiretta” (E. Hoffman, After Such Knowdlege, 2004, p. 25) il romanzo dopostorico sembrerebbe ricadere sotto la categoria di “postmemoria”. Ne rappresenta, invece, l’antitesi dialettica.
Adottiamo qui il significato che al termine è stato dato da Marianne Hirsch la quale, nei suoi studi sulle pratiche letterarie e artistiche dei figli dei superstiti dell’Olocausto, ipotizza l’esistenza di una “struttura di trasmissione inter- e trans-generazionale di esperienze e conoscenze traumatiche” (M. Hirsch, The Generation of Postmemory, 106). L’ipotesi si spinge fino a sostenere che la memoria personale possa, in circostanze estreme, essere trasmessa a coloro i quali non la vissero con tutto il suo carico di conseguenze psichiche ed esistenziali, carico gravissimo visto che stiamo parlando di surrogati di quelle esperienze “dirompenti introdotte da traumi storici collettivi quali guerre, Olocausto, esilio e migrazioni di rifugiati” (p. 111). La letteratura della postmemoria tenderebbe, così, a riattivare in una “connessione vivente” eventi distanti nella storia e conosciuti solo attraverso mediazioni simboliche e parentali in un’affiliazione che risale a ritroso la corrente del tempo.
Per quanto suggestiva, e anche prestigiosa, possa essere la casistica dei discendenti che avrebbero “ereditato attivamente il trauma” attraverso narrazioni testimoniali vicarie, esiste una casistica molto più ampia, vasta quasi quanto l’esperienza di un’intera generazione, che si caratterizza, all’inverso, proprio per il fatto che questa opera di appropriazione postuma, di riattivazione retroattiva, di affiliazione a ritroso avvenga in totale ed evidente assenza di trauma: “Solo attraverso lo splendore straniato di un’assenza – il trauma che non subiamo, le vittime che non siamo – sembra offrirsi la possibilità di conferire senso alla nostra esperienza impoverita” (D. Giglioli, Senza trauma, pp. 10-11). L’aspetto peculiare e straordinario dei romanzi dopostorici consiste, infatti, proprio in questo: la vicenda traumatica dei nostri genitori e nonni giunge fino a noi estraniata, evacuata di ogni dramma attivo, mettendoci al mondo in un giardino riparato dalla violenza della storia dove prosperiamo come un’agave attenuata, le cui foglie carnose e prive di spine, uniche nella loro specie, sono fragili al punto da poter crescere solo in un ambiente artificiale.
La letteratura della Dopostoria ci dice, insomma, che i grandiosi, apocalittici eventi formativi del Ventesimo secolo, soltanto una generazione dopo, nonostante tutto, non hanno formato le nostre vite.
Il romanzo dopostorico in Italia e in Europa
Numerosi e rappresentativi sono i libri di scrittori italiani della “generazione del dopo” che al principio del nuovo secolo e millennio cercano un nuovo rapporto con la storia del Novecento, secolo della Storia, di cui si sanno diseredati.
Il capostipite, liminare sia per anagrafe sia per anno di edizione, si può far risalire a Campo del sangue, il diario del viaggio verso Auschwitz che Eraldo Affinati scrisse a cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, rievocando il nonno partigiano e la madre scampata alla deportazione, nella piena consapevolezza di quanto quel mezzo secolo trascorso fosse un “ritardo indispensabile” per potersi riavvicinare all’accaduto e nel tentativo impossibile di colmare quella distanza con un’autoimposta “esperienza integrale” quale fu l’attraversamento dell’Europa in buona parte a piedi. Coevo, e anch’esso a suo modo liminare, è Lezioni di tenebra di Helena Janeczek, narrazione in cui l’autrice, approfondendo il rapporto con la madre, unica superstite a una famiglia annientata nella Shoah, scrive la propria autobiografia di donna nata e cresciuta in tempo di pace attraverso la biografia della generazione che venne inghiottita dal buco nero della storia novecentesca. Libro classico di “guardianìa della memoria”, Lezioni di tenebra inizia, però, sintomaticamente, con una scena di triplice telepresenza in cui l’autrice rievoca l’Olocausto attraverso un programma cui assiste da spettatrice televisiva – protagonista è una “tizia che sostiene di essere la reincarnazione di una ragazza ebrea uccisa in un campo di sterminio” – segnalatogli da un amico attraverso una telefonata (p. 11).
Da questo momento, sono numerose le opere letterarie italiane che possono essere ricondotte alla categoria della Dopostoria. Ne ricorderò alcune a titolo di esempio: Le rondini di Montecassino della stessa Janeczek, romanzo corale e bellico nel quale l’autrice ha ormai reciso il cordone materno. La saga della famiglia Chironi, attraverso la quale Marcello Fois squaderna la storia del Novecento e, soprattutto, Memoria del vuoto, romanzo in cui l’autore sardo, raccontando le gesta criminali del bandito Samuele Stochino, nemico pubblico del regime e al tempo stesso antitesi speculare della violenza fascista, fissa in forma archetipica e trasfigura al modo epico la cronaca nera di cent’anni prima. Vita di Melania Mazzucco, in cui l’autrice ricostruisce la saga dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti a partire dallo sguardo retrospettivo e smarrito di un discendente schierato sul fronte del Sangro in piena Seconda guerra mondiale. Le serie noir ambientata da Carlo Lucarelli durante e dopo la caduta della Repubblica Sociale e quella ambientata nelle colonie italiane in Africa Orientale scaturita dal romanzo L’ottava vibrazione. Figurano in questa lista esperimenti quali Asce di Guerra in cui il collettivo Wu Ming alterna l’invenzione letteraria ai capitoli autobiografici di ricostruzione storica scritti da un ex partigiano e l’esperimento di Scrittura Industriale Collettiva sfociato nel romanzo In territorio nemico. Il romanzo ‘solista” Stella del mattino, di Wu Ming 4, ambientato a Oxford nel 1919 dove tra le macerie psichiche delle trincee cresce la progenie culturale della Grande guerra. Giuseppe Genna che, con il suo Hitler, si è avventurato in un temerario assalto frontale al cuore della demoniaca mitologia politica del Ventesimo secolo e Luigi Guarnieri che imbastisce ne Il sosia di Hitler un singolare intreccio tra ricostruzione storica e narrazione pseudo-documentaria; va poi ricordato il dittico di Adelchi Battista, composto da Io sono la guerra e da L’estate degli inganni, nel quale l’autore si attiene al programma di raccontare alcuni capitoli cruciali della “grande storia” novecentesca in forma di rigorosa cronistoria. Ricordo, poi, se mi è consentito, Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati, nel quale l’autore conclude la trilogia dedicata ai momenti epici della storia italiana moderna affrontando il nodo di memoria pubblica e ricordo personale, personaggi storici e persone comuni, invenzione e documentazione, autobiografismo e biografia della Nazione, con il racconto della vita illustre di Leone Ginzburg affiancato a quello delle vite di uomini non illustri da cui lo scrittore discende. Per la generazione più giovane, infine, anche qui a titolo di esempio, si possono menzionare Mandami tanta vita di Paolo di Paolo e Partigiano Inverno di Giacomo Verri, entrambi alle prese in forma dopostorica con la materia dell’antifascismo e della Resistenza.
Un discorso a parte, ma pienamente riconducibile al romanzo dopostorico quale espressione della letteratura dell’inesperienza, meriterebbero quelle narrazioni che, confrontandosi con le guerre della ex-jugoslavia, contemporanee e in qualche misura “visitate” dagli autori, che però le raccontano provenendo dalla sponda pacificata dell’adriatico, traducono la incolmabile distanza storica rispetto al “reale” terrificante dell’esperienza novecentesca in una distanza geo-politica. Ricordiamo tra questi Possano le mie parole di sangue di Babsi Jones, Come fossi solo di Marco Magini e Gli ultimi ragazzi del secolo di Alessandro Bertante.
Il romanzo dopostorico italiano va, però, letto in un contesto europeo. Per molte buone ragioni. La principale è che, a differenza del processo di costruzione dell’identità nazionale, in cui l’oblio ha una parte essenziale – una dimenticanza ‘edificante’ che fonda la riflessione morale su esempi virtuosi da imitare – il problematico processo di costruzione dell’identità europea si fonda sul bisogno di passato come replica e riparazione, su “una memoria che è quasi sempre memoria del male” (Bidussa, L’era della postmemoria, 36).
È questa, ad esempio, l’Europa che Mathias Énard ha eletto a tema narrativo costante della sua scrittura, il rumore sordo della battaglia che si ode al fondo di ogni suo romanzo. Si tratta qui dell’Europa che si affaccia sul mediterraneo, che sconfina da sempre nel mondo arabo e mussulmano, nell’Africa nera e migrante, nel mito. Più che di una realtà geografica, si tratta di un modo di stare nell’esistenza storica come in una perenne, subdola guerra a bassa intensità, un modo gracile e vigoroso, generoso e cinico a un tempo, molle e violento. La nostra Europa, insomma.
“La vita può assomigliare al brutto dépliant di un’agenzia di viaggi, Parigi, Zagabria, Venezia, Alessandria, Trieste, Il Cairo, Beirut, Barcellona, Algeri, Roma, o a un manuale di storia militare, conflitti, guerre, la mia, quella del Duce, quella di Millán Astray il legionario guercio o ancora prima quella del 1914 e così di seguito dalla guerra del fuoco”. Così scrive Énard in Zona, capolavoro della rinascita letteraria francese scaturita dalla riconciliazione con l’arte del romanzo, dopo decenni di sterile anti-romanzo, e dall’elezione della tragica storia politica europea novecentesca a sua materia narrativa preferita (cinque degli ultimi dieci premi Goncourt rientrano in questa lista, Robert Littel con Le Benevole, Alexis Jenni con L’art français de la guerre, Jérôme Ferrari con Le sermon sur la chute de Rome, Pierre Lemaitre con Ci rivediamo lassù, oltre allo stesso Enard e a diversi altri narratori di primo piano quali Laurent Mauvignier).
Siamo – ci rivela Zona, rintracciando ovunque tra le pieghe de nostri territori acquietati, miliziani balcanici, guerrigliere palestinesi, mercenari coloniali – reduci dalla trentennale illusione di un’Europa che credé di poter stare al mondo come in un guscio climatizzato autoimmune in cui condurre un’esistenza indoor di piacevolezza e di lusso negli “spazi interni del capitale” (P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, 2006, p. 42) escludendo nell’altrove mediatico e turistico il mondo reale, grande e terribile. Enard ridisegna, infatti, questa stessa nostra Europa sotto specie di mappa militare. Mappato da Énard, il mediterraneo è ancora il mare avventuroso e bellicoso dell’epica omerica, il luogo storico e geografico in cui la nostra zona di pace ha sempre confinato – e sconfinato per linee interne – con una zona di guerra. Con una sola frase lunga 517 pagine, Zona ci svela, dunque, il fondo tragico che giace sotto la pellicola della nostra civilizzazione europea; sembra, nel finale, annunciare – e quasi invocare – una fine del mondo in verità già venuta molte volte.
L’atto di nascita del romanzo dopostorico europeo si ha, però, con la pubblicazione de Le benevole di Jonathan Littell. Il caso Littell è paradigmatico di questo sviluppo della letteratura dell’inesperienza sia sul piano biografico sia su quello poetico: nato in una famiglia ebrea, l’autore potrebbe essere per anagrafe un “figlio dell’Olocausto” ma i suoi nonni emigrarono negli Stati Uniti già a fine Ottocento e i suoi genitori ritornano in una Francia pienamente pacificata solo al principio degli anni ’70; la sua ricerca dell’estremo lo conduce però a contatto con la situazione limite della guerra nei sette anni in cui lavora come volontario per varie ONG nei Balcani, in Cecenia, in Asia Centrale, e lo conferma nella sua identità liminare di testimone inesperto di guerre altrui, lo radica nell’aporia dell’inesperienza: “Alla fine il mondo si è manifestato, per quel che mi riguarda, nella guerra che è una esperienza singolare del mondo”.
Le Benevole nasce, così, come opera monstre che supplisce alla mancanza di esperienza vissuta (erlebnis) con una mole iperbolica di esperienza depositata (erfahrung) nutrendosi sia di un immenso archivio documentale sia di una vastissima biblioteca letteraria. Il risultato è un romanzo ipercolto, iperdocumentato, iperdiegetico, ipermediato che fonda, però, un “nuovo realismo ipermoderno” (Donnarumma, Ipermodernità, p. 122), emblema di una nuova scrittura per la quale è il “fuori”, l’informazione, non più il vissuto, che diviene materia di romanzo: “L’immaginazione arriva dall’esterno. La memoria si appropria della storia, la parassita (…) Da profonda e produttiva, l’immaginazione si fa riproduttiva e intermediale” (Giglioli, Il buco e l’evento, pp. 283-84). Questa appropriazione indebita, questa usurpazione dell’autorità del passato depositata nella maestà dell’esperienza altrui sarà la caratteristica essenziale del romanzo dopostorico. Il suo principale fenomeno sarà, però, non va disconosciuto, la finzionalizzazione.
Lo sterminato archivio multimediale, l’immensa biblioteca sono, infatti, nuovamente immersi da Littell in un flusso narrativo che li restituisce alla finzione romanzesca. Qualunque sia la sua tortuosa e tormentata genesi, la sua spuria e impura genealogia, Le Benevole, se considerata come realizzazione letteraria, segna il ritorno del puro romanzesco. L’adozione del punto di vista di una SS nazista, che tanto ha dato scandalo, è la conseguenza di questa riconquistata e pericolosa libertà creativa. L’equidistanza (non certo l’equipollenza) dell’autore dopostorico rispetto al punto di vista di vittime e carnefici, dunque la sua libera scelta nella focalizzazione narrativa, discende in linea diretta dal trascendentale dell’inesperienza. E’ il portato di un mondo in cui il differenziale antropologico rispetto alla violenza tende oscenamente a non esser più la distinzione vittima-carnefice ma quella tra la coppia carnefice-vittime su un versante dello schermo e lo spettatore sull’altro versante. Da un lato quelli che infliggono o subiscono la violenza, dall’altro quelli che la guardano sul computer o in Tv. L’aver corso il rischio dell’oscenità e della banalità, l’aver scritto il suo grandioso romanzo avanzando su questo crinale sottile fiancheggiato da due versanti abissali, ha consentito a Littell di comporre una delle opere letterarie più significative del nostro tempo, un tempo equivoco in cui la parola “testimone” può significare sia sopravvissuto alla Shoa sia spettatore televisivo.
L’usurpazione finzionale – e l’equidistanza prospettica che ne è il corollario – si ritrovano in altri esempi eminenti di romanzo dopostorico. Citeremo appena il recente Morire a primavera di Ralf Rothmann, salutato in Germania come il libro che ha “ufficialmente e potentemente inaugurato l’era post-Gunther Grass”, in cui l’autore si prende la libertà di rielaborare le memorie paterne in un apologo antibellicista in cui il ruolo di pacifisti istintivi viene assegnato a due giovani reclute delle SS con tanto di epilogo melodrammatico che piazza il protagonista nel plotone d’esecuzione dell’amico disertore; oppure, sempre in Germania, ne Le forme originarie della paura in cui Marcel Beyer fa i conti con l’ideologia nazista attraverso una biografia traslata in romanzo di Konrad Lorenz; o, ancora, ne L’offesa dello spagnolo Ricardo Menéndez Salmòn che si autorizza a sua volta a narrare la ferocia nazista dal punto di vista di una mite “belva bionda” in una trama deliberatamente scelta per le sue valenze metaforiche innestata su un subplot amoroso.
Ma le aporie dell’inesperienza sono all’origine anche della seconda tipologia di romanzi dopostorici, solo in apparenza antitetici ai primi, vale a dire quelli in cui il “disagio della memoria” si risolve in un netto rifiuto della messa in scena romanzesca. Programmatico da questo punto di vista HHhH di Laurent Binet, nel quale si fa aperta professione di abiura di ogni artificio romanzesco nel racconto “fattuale” della eroica azione di commando che condusse alla morte di Reynard Heydrich nella Praga occupata dai nazisti. A dispetto di ogni proclama anti-romanzesco, introspezioni, dialoghi ricostruiti e ogni altro elemento d’invenzione vengono, però, qui come altrove, sostituiti dal supremo artificio romanzesco, vale a dire l’Io autobiografico o autofinzionale dell’autore che occupa la scena in qualità di protagonista della “romanquête” sulle tracce del passato.
È la pista seguita anche da Javier Cercas in Soldati di Salamina e nel recente L’impostore (che s’immergono rispettivamente nelle pieghe oscure della guerra civile spagnola e dell’Olocausto), da Emmanuel Carrère che, in Come un romanzo russo, rimesta nei fantasmi famigliari del collaborazionismo sotto Vichy intrecciando i misteri di un nonno inghiottito dagli abissi della storia alla cronaca delle sue pochade erotiche. E’ questo anche il caso di Forse Esther, di Katja Petrowskaja, straordinario memoir di viaggio, nel quale l’autrice, cresciuta in Ucraina all’ombra del monolite sovietico, ricostruisce l’albero genealogico della sua famiglia, ebrei dell’Est europeo dispersi e sommersi dalla “grandiosa” violenza genocida di un passato per noi obliato e recente. Ne riemerge una galleria di destini memorabili. Raccontandoli in tedesco, la lingua del nemico, come le “poche persone che erano per caso miei parenti”, la Petrowskaja tiene in pugno l’intero Ventesimo secolo, un secolo di cui tenta di rintracciare la memoria proprio perché se ne sente dimenticata. Un secolo nel quale le donne e gli uomini non ebbero modo – avrebbe detto Giaime Pintor – di attardarsi, come fa l’autrice e come facciamo noi tutti i santi giorni, sul loro dramma interiore perché s’imbatterono in un dramma esteriore perfettamente costruito.
“Devi raccontarmi!”. “Non puoi raccontarmi!”. Questa la duplice, contraddittoria ingiunzione/interdizione tramite la quale il passato novecentesco invivibile lega a sé il romanziere dopostorico in uno schizoide double bind dell’inesperienza. Non le sfuggono nemmeno quegli autori i quali, collocandosi sullo spettro dell’inesperienza all’estremo opposto rispetto alla finzionalizzazione, pagano il loro pegno all’ideologia della documentalità, come nel caso di Trieste, al quale l’autrice Daša Drndić appone il sottotitolo aporetico di “romanzo documentario” protestando, in questo modo, il proprio debito impagabile nei confronti delle vittime.
Finzionalizzazione, focalizzazione libera, egotismi vari, ossessione documentaria. C’è un’ultima tipologia di usurpazione dopo storica che va elencata. Si tratta di un’appropriazione indebita che avviene al livello dell’intreccio, in virtù di una temporalità sapientemente anacronistica, una sorta di usurpazione per risonanza.
Ne fa un uso esemplare Il sermone sulla caduta di Roma, romanzo di Jérôme Ferrari che ci restituisce magistralmente l’astenia delle nostre catastrofi al rallentatore. La fine dei mondi, il più alto e grave dei temi, è indubbiamente al centro di questo magnifico racconto filosofico; lo esplicita, in esergo, l’epigrafe da Agostino: “Ti meravigli che il mondo va in rovina? Meravigliati che il mondo è invecchiato”. Eppure, se dovessimo riassumere la trama principale del romanzo, dovremmo farlo così: due giovani uomini dei nostri giorni, delusi dagli studi universitari, decidono di aprire un bar in un paesino della Corsica dove hanno trascorso la parte felice della loro infanzia; dopo un iniziale, breve successo, tutto va a rotoli. Fine della storia.
Nonostante il finale tragico, chiaramente tracciato dall’esterno, l’intera vicenda principale, se lasciata a se stessa, rischierebbe di precipitare nell’inconsistenza. Ma Ferrari non la lascia affatto a se stessa. Due altre linee narrative, linee curve, quasi circolari, abbracciano, infatti, la storia principale ma minore di Libero e Matthieu. La prima di queste linee narrative secondarie narra niente meno che la storia del nostro Novecento. Filtrata attraverso le reminiscenze di Marcel, nonno di Matthieu, come attraverso la valva di un mollusco che spurghi un mare infetto, la “grande” storia del XX secolo, còlta nei suoi momenti fatidici, scandita dalla sue guerre, le sue conquiste e disfatte coloniali, raggiunge e permea – conquista per sfinimento, si potrebbe azzardare – anche il paesino di mezza costa, l’eden semirivierasco in cui i due ragazzi odierni, due generazioni più tardi, ben pasciuti e protetti dentro la membrana impermeabile del secolo Ventunesimo, si dedicano alla insulsa, divertente, velleitaria impresa di ricreare in una antico borgo di gente grama e dolente un clima da villaggio vacanze. La terza linea narrativa, rievocata grazie al personaggio di Aurélie, sorella di Matthieu, archeologa che scava nei deserti dell’Algeria alla ricerca della chiesa che fu di Agostino, narra, poi, addirittura, della caduta di Roma per mano dei Vandali di Alarico e della fine del mondo antico.
Paradossalmente, sono proprio queste due reminiscenze di mondi estinti a insufflare la vita nel pezzetto d’argilla maldestramente plasmato dalle mani sconsiderate e inesperte di Libero e Matthieu, e, contemporaneamente, nel piccolo mondo magistralmente plasmato dalla penna di Ferrari. La grandezza del suo romanzo non si genera nonostante la “piccolezza” del suo soggetto narrativo principale ma proprio grazie a essa, alla giustapposizione tra la pochezza delle nostre quotidiane apocalissi, tra la modestia delle nostre aspirazioni, comunque frustrate, dei nostri miseri sogni di baristi falliti, e la vastità cosmica di mondi crollati.
Volendo illustrare letterariamente il tema filosofico della fine dei mondi, Ferrari si è guardato attorno nel suo mondo di quarantenne professore di filosofia, cresciuto nell’Occidente europeo nella seconda generazione nata dopo la fine della seconda guerra mondiale, e non ha trovato niente di adeguato. Eppure non ha desistito. Ha preso la fine del mondo antico, la fine delle illusioni moderne e, accostandole al nostro presente, le ha usate come diapason per accordare a una nota standard le vibrazioni apocalittiche emesse alle nostre basse frequenze. In questo modo, ha trasformato la cavità del nostro presente in un luogo delle risonanze, una caverna in cui tendere l’orecchio al riecheggiare del tonfo prodotto da mondi perduti. Ma ha anche fornito al nostro presente, per quanto modesto, un cielo sotto cui vivere, una volta cosmica verso la quale poter alzare lo sguardo.
La fame di storia che caratterizza buona parte del romanzo attuale è ricerca di una forza di trascendimento dalla asfittica bolla d’immanenza in cui abbiamo troppo a lungo vissuto. Il romanzo possibile di un’epica impossibile. Il sentimento della Storia, questa la Patria perduta del nuovo romanzo europeo contemporaneo.
Patria perduta e ritrovata. Il romanzo Dopostorico si annuncia, infatti, proprio in ragione di ciò, come letteratura dell’avvenire. Sono tutte opere, dicevamo, accomunate da un’anagrafe postuma: i loro autori sono nati almeno due decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il nucleo tragico-epico del secolo della Storia che rievocano nei loro libri. Il rapporto di questi autori con quel nucleo è libero, arbitrario, volontario, disincarnato, impolitico, forse non casuale ma certo non destinale, apparentemente autobiografico eppure non biografico, in ogni caso non fondato sulla vita vissuta. Eppure quel nucleo continua a irradiare un sentimento vasto del tempo. Il romanziere per coglierlo salta una o due generazioni e si piazza nel luogo delle risonanze. Il presupposto è che in quel passato prossimo eppure straniero, in quel terribile nucleo di non-vissuto riposi qualcosa di memorabile e, dunque, di futuribile.
Ciò vale per tutta l’Europa occidentale ma è vero soprattutto per l’Italia, un Paese in cui, per molti motivi e sotto molti aspetti, il dopoguerra è durato quanto il ‘secolo breve’. Soprattutto in Italia il romanzo della Dopostoria traccia, allora, una via di accesso alla (tarda)modernità diversa da quella strada senza uscita a lungo, troppo a lungo, imposta dal diktat modernista. La scrittura dopostorica diventa, così, il passaggio che ci consente finalmente di uscire dal Novecento e, dunque, di diventarne finalmente eredi. Finalmente liberi da ogni perdurante, infantile, velleità reazionaria. Si eredita, infatti, solo un mondo non nostro, il mondo dei padri ma prima bisogna diventare adulti.
A lungo il Novecento ci ha intimato la sua ingiunzione contraddittoria: “sii come me!”, “non puoi essere come me!”. Il risultato è stata la scissione psichica, la schizofrenia culturale, l’impotenza creativa. A lungo ci siamo trovati, di fronte all’ingiunzione di quei padri leggendari, nell’impossibilità storica di rispondere. Con il romanzo della Dopostoria lo sterminio simbolico è consumato, la linea di tradizione interrotta e ripristinata. Non dobbiamo più rimpiangere di non poter tornare indietro nel tempo a combattere le battaglie dei nostri padri.
OPERE
Affinati, Campo del sangue, Milano 1997
Battista, Io sono la guerra, Milano 2012
Battista, L’estate degli inganni, Milano 2015
Beyer, Forme originarie della paura, Torino 2011 [2008]
Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, Firenze 2016
Carrère, La vita come un romanzo russo, Torino 2009 [2007]
Cercas, Soldati di Salamina, Parma 2004 [2001]
Cercas, L’impostore, Parma 2015 [2014]
D. Drndić, Trieste, Milano 2015 [2007]
Di Paolo, Mandami tanta vita, Milano 2013
Énard, Zona, Milano 2011 [2008]
Ferrari, Il sermone sulla caduta di Roma, Roma 2013 [2012]
Fois, Memoria del vuoto, Torino 2006
Genna, Hitler, Milano 2008
Guarnieri, Il sosia di Hitler, Milano 2014
Hastings, Inferno. Il mondo in guerra, Vicenza 2012 [2011]
Janeczek, Lezioni di tenebra, Parma 1997
Janeczek, Le rondini di Montecassino, Parma 2010
Jenni, L’art français de la guerre, Parigi 2011
Jones, Sappiano le mie parole di sangue, Milano 2007
Lemaitre, Ci rivediamo lassù, Milano 2014 [2013]
Littell, Le benevole, Torino 2007 [2006]
Lucarelli, L’ottava vibrazione, Torino 2008
Magini, Come fossi solo, Firenze 2013
Mauvignier, Degli uomini, Milano 2010 [2009]
Mazzucco, Vita, Milano 2003
P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, Milano 1964
Rothmann, Morire a primavera, Vicenza 2016 [2015]
Menéndez Salmón, L’offesa, Milano 2008 [2007]
Petrowskaja, Forse Esther, Milano 2014
Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, Milano 2015
Scrittura Industriale Collettiva, In territorio nemico, Roma 2013
Verri, Partigiano inverno, Roma 2012
Wu Ming, Asce di guerra, Milano 2000
Wu Ming 4, Stella del mattino, Torino 2008
BIBLIOGRAFIA
Badiou, Il secolo, Milano 2006 [2005]
Benjamin, Angelus Novus, Torino 1962 [1955]
Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino 2009
Bidussa, L’era della postmemoria, Brescia 2015
Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, “Presentazione”, Milano 1993 [1964].
Donnarumma, Ipermodernità, Bologna 2014
Giglioli, Senza trauma, Macerata 2011
Giglioli, “Il buco e l’evento”, in Mosaico Francese, Bergamo 2012
Ellis, Seeing Things: Television in the Age of Uncertainty, Londra 1999
Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino 1996
Hirsch, “The Generation of Postmemory”, Poetics Today 29:1, 2008
Hoffmann, After Such Knowledge: Memory, History and the Legacy of the Holocaust, New York 2004
Mazzarella, Poetiche dell’irrealtà, Torino 2011
Mazzoni, I destini generali, Roma-Bari, 2015
Morin, Lo spirito del tempo, Roma 2002 [1962]
Paggi, Il «Popolo dei morti», Bologna 2009
Scurati, Televisioni di guerra, Verona 2002
Scurati, La letteratura dell’inesperienza, Milano, 2006
Scurati, Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale, Roma 2007 [2003]
Scurati, Gli anni che non stiamo vivendo. Il tempo della cronaca, Milano 2011
Scurati, Dal tragico all’osceno, Milano 2016
J. Sheehan, L’età post-eroica, Roma-Bari 2009 [2008]
Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, Roma 2006
Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano 2003
Virilio, Open Sky, Londra, 1997
Wieviorka, L’era del testimone, Torino, 1999 [1998]
Zeitlin, “The Vicarious Witness: Belated Memory and Authorial Presence in Recent Holocaust Literature”, History and Memory, 10 1998.
[Immagine: Matt Boylan, 11 September https://www.
“ Venerdì 15 maggio 2015 – Poi c’è Scurati che dice che la Letteratura è una cosa e l’Informazione un’altra. Ma io la vedo scura comunque. “.
Difficile e assai impegnativa la lettura dell’articolo. Lo rileggerò
Sempre illuminante Antonio Scurati
@ Francesca
Commento lievemente ossimorico. O no?
È vero, Elena Grammann, intendo dire che le letture di A.S. anche quando mi risultano più difficili e oscure sono spunto di riflessione e mai banali. Anche la lunghezza mi ha un po’ scoraggiata
Dopo la lettura (oscura e complicata sì, difficile no):
“Il paradosso è vasto, la contraddizione stridente”
Ecco, questo mi pare che si possa dire.
Interessante ( non certo nuovo, parecchie di queste tesi esposte altrove e argomentate meglio) , ci sono parecchi punti a cui adorerei controbattere ( e qualche autore escluso ingiustamente dalla bibliografia es. Rastello..e poi che segno oscuro dei tempi è non citare più il nome in bibliografia?)
Che il criterio valutativo della attività presente della Scrittura debba nascere dal suo rapporto con la Storia o
l’Antistoria o il Dopostoria che dir si voglia è un criterio di valutazione come un altro.Non il solo. Forse neanche
il migliore.
La Scrittura è sempre nata da una decisione di interpretazione e orientamento dell’esistenza entro il caos storico ed esistenziale di colui che ne ha usufruito.La nostra situazione attuale,sotto questo aspetto basilare, non è differente da quella di qualsiasi altro contesto.
Che oggi questa necessità testimoniale sia ridotta a microfunzione voluttuaria o commerciale dalla dittatura mercantile e dalla invasività tecnologica , non fa altro che evidenziare l’automarginalizzazione della Scrittura,
ridotta a prodotto di consumo e chiacchiera sociologica.
Sganciata da una finalità di ricerca di Valore e disintegrata rispetto ad un progetto di presenza attiva sulla realtà, non le rimane che il rimasticare slogan e idee-spazzatura della corrente generale.