di Paolo Godani
La filosofia francese del Novecento ha ripreso in vario modo il tema cristiano della carne. Talvolta, come in Michel Henry, ci si è limitati a rivendicare la carnalità come arma da opporre ad una presunta smaterializzazione del corpo avvenuta in età moderna e post-moderna. In altri casi, per esempio quando Merleau-Ponty, nel Visibile e l’invisibile, fa della nozione di chair un concetto fondamentale della sua ultima fenomenologia, della carne è rimasta poco più che la metafora: la “carne delle cose” è solo un sinonimo di “essere grezzo”, di un essere che si dà solo in una pienezza opaca, prima della separazione di un soggetto che percepisce e di un oggetto percepito, in un’esperienza al contempo originaria e impura. Oppure, ancora, si denuncia, come accade a Deleuze, il “carnismo” cristiano a cui sembra approdata certa estetica fenomenologica francese, opponendo provocatoriamente, a una chair pia e devota, l’immagine pietosa della carne macellata (viande, meat) che popola le opere di Francis Bacon. In mancanza delle Confessioni della carne, ultimo volume programmato della Storia della sessualità che Foucault non è riuscito a portare a compimento, si può dire che l’unico autore del XX secolo capace di fare un utilizzo al contempo letterale e nuovo della nozione di carne sia stato probabilmente Jean-Paul Sartre, quando nell’Essere e il nulla descrive l’incarnazione di sé e dell’altro che si realizza grazie al desiderio sessuale.
In pagine profondamente ispirate, Sartre spiega che nel momento in cui desideriamo un corpo si produce una trasformazione radicale nei modi in cui normalmente ci rapportiamo all’altro: non vogliamo fare uso del corpo altrui per giungere al nostro godimento, né limitarci a possederlo, riducendolo semplicemente a un oggetto in sé, ma entriamo nel campo di una relazione assoluta, nella quale il nostro corpo e il corpo dell’altro si mutano simultaneamente in corpi di carne.
L’estasi del puro desiderio sessuale, che sarà presto sopraffatta dal bisogno di entrare nel corpo altrui facendo uso di forze e movimenti che riportano inesorabilmente la relazione nel contesto di un rapporto tra mezzi e fini, sospende per un tempo indeterminato l’esercizio volontario delle facoltà e consente così l’accesso a una sorta di sentire puro. Le nostre capacità senso-motorie naturalmente restano intatte, ma la loro funzionalità è ridotta all’unico fine del sentire. Perché ciò accada è però necessario che il corpo dell’altro si sia a sua volta immerso in quello stato nascente, simile al sonno, nel quale tutto viene sentito, mentre nulla sta accadendo. Perché io riduca il mio corpo al suo sentire, è necessario che la relazione assoluta abbia portato anche l’altro a uscire da sé, per fare del suo stesso corpo un essere meramente senziente. È questa estasi relazionale che Sartre chiama incarnazione.
Posso guardare, conoscere e amare una donna in molti modi; posso osservarla per qualche sua stranezza più o meno attraente o perché è una vera bellezza, posso ammirarla per il modo di vestire o per un certo modo trattenuto di parlare, per un gesticolare nervoso o per l’intelligenza delle sue considerazioni, posso amare la sua tenerezza o la sua indecisione, i tratti del suo volto o le situazioni nelle quali perde la testa, ma nel momento in cui la sto desiderando la desidero in quanto corpo di carne.
Il desiderio – scrive Sartre – è un tentativo di svestire il corpo dei suoi movimenti come di vestiti, e di farlo esistere come pura carne; è un tentativo di incarnazione del corpo dell’altro (EN, p. 451).
Una carezza (termine che non deriva da caro, carne, ma da carus, che a sua volta si riferisce alla radice sanscrita ka, da cui kama, amore, e kamana, desiderabile) o uno sguardo che siano già situati in questo campo del desiderio sono uno sguardo o una carezza che si rivolgono alla carne dell’altro, e lo sono in quanto effetti del mio stesso corpo carnale.
Non si tratta solo del corpo nudo, della sua epidermide o della morbida consistenza della pelle: la carne non è un dato, non è già là, sotto i vestiti che sarebbe sufficiente sfilare.
Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell’insieme di cerimonie che incarnano l’altro. Ma, si può obiettare, non era forse già incarnato? No. La carne dell’altro non esisteva esplicitamente per me, perché percepivo il corpo dell’altro in situazione; non esisteva per lui perché la trascendeva verso le sue possibilità e verso l’oggetto. La carezza fa nascere l’altro come carne per me e per lui (EN, p. 452).
È possibile non solo guardare o accarezzare, ma anche denudare l’altro e denudarsi, senza che questo abbia nulla a che vedere con il desiderio e senza che dunque produca in alcun modo un essere di carne. Ma quando una carezza inaugura l’accesso al mondo parallelo del desiderio, quando si sfiora con uno lo sguardo il volto o con una mano il fianco della donna desiderata o si lascia che le labbra facciano sentire la propria fantasmatica presenza prima di scivolare per un momento, quasi impercettibili, sulla superficie del collo, allora l’atmosfera che circonda i corpi muta improvvisamente, rendendo perfettamente irreali tutti i movimenti di cui pure ancora siamo gli attori.
Ogni gesto è come circonfuso del suo stato potenziale, sta avvenendo come pura possibilità; ogni mio atto, pur essendo io a compierlo, è come se si svolgesse fuori dal mio dominio, in quella zona senza giurisdizione che è costituita solo in virtù della vicinanza e dell’attrazione di due corpi. Fuori da quell’attrazione, i gesti riprendono il loro senso ordinario e tornano a essere segni, i movimenti rientrano nel campo d’azione del mio corpo, l’altro torna a essere l’in sé che è sempre stato, un po’ familiare un po’ estraneo, ma comunque ormai privo dell’atmosfera a cui soltanto la relazione di desiderio può dar luogo.
È per questo che i gesti del desiderio sessuale non possono essere volontari, perché non sono i miei gesti o quelli dell’altro a poter far nascere la relazione, ma questa si istituisce precisamente quando sono proprio e solo i gesti stessi ad appropriarsi di me e dell’altro. L’incontro di un desiderare e di un essere desiderati è il modo in cui si analizza, a posteriori, una relazione nella quale non ci sono propriamente né io né l’altro. Non sono io che desidero, né è l’altro a desiderarmi. Siamo su un terreno nel quale la correlazione neutralizza l’intenzionalità. Il carattere involontario dell’erezione e delle secrezioni non sono che le modalità fisiologiche nelle quali si traduce questo esser parte di una situazione che ci reclama e a cui per un lungo momento veniamo interamente affidati.
Il luogo che viene a costituirsi tra i corpi desideranti, un luogo che in realtà appare come un “frammezzo” solo a una osservazione esteriore, non è che il divenire carne di quei corpi. Solo nei momenti in cui si desidera si è effettivamente corpi di carne, perché la carne è l’unica sostanza attraverso cui due corpi istituiscono una relazione che non sia di mera esteriorità. Al limite, si dirà che la carne che nasce nella relazione di desiderio non è mai semplicemente la carne di questo mio corpo in contatto con la carne dell’altro, ma che il contatto desiderante dei corpi produce una zona di indeterminazione, alla quale soltanto possiamo dare il nome di “carne”.
In verità, Sartre resta ancora per molti versi impigliato in una concezione tradizionale, specialmente quando fa della carne la “contingenza pura della presenza” (EN, p. 403) dell’altro, e quando sembra voler opporre alla fatticità del corpo di carne la grazia per la quale il corpo appare come “uno psichico in situazione” (EN, p. 462). Quando Sartre dice che normalmente la fatticità è rivestita e nascosta dalla grazia, e dunque la nudità della carne, per quanto sia sempre presente, è tuttavia costantemente invisibile (cfr. EN, p. 463), sembra tornare a fare della carne una sostanza naturale e pre-esistente, anziché un prodotto effettivo del desiderio; e sembra concepire la carne come il puro esserci di un corpo privato della grazia, anziché come uno stato alterato del corpo stesso, dovuto al suo essere in relazione. La carne non è là per nulla, ma c’è solo in quanto effetto di desiderio. Qui, non si può dire che la carne dell’altro ci sia, nella mera contingenza della sua presenza, come se l’incarnazione dell’altro non implicasse la mia stessa incarnazione; la mia carne e la sua esistono solo nel mezzo dei nostri corpi, anzi quella carne che propriamente non appartiene a nessuno è la sostanza stessa di quell’essere tra i corpi. Lo stesso Sartre, del resto, riconosce che
non si può percepire il corpo d’altri come carne a titolo di oggetto isolato che ha con gli altri questi dei puri rapporti di esteriorità. Questo sarebbe vero solo per il cadavere. Il corpo d’altri, in quanto carne, mi è immediatamente dato come centro di riferimento di una situazione che si organizza sinteticamente attorno a esso e che è inseparabile da questa situazione” (EN, p. 404).
Questo significa che anche il corpo di carne non è mai semplicemente un corpo ridotto alla pura apparenza naturale o alla sussistenza fisiologica. Essere sempre in situazione significa, per il corpo carnale, essere già sempre quella certa maniera d’essere che in esso si incarna.
Così, da una parte, la stessa carne del desiderio, per quanto possa essere priva degli abiti, dei movimenti e delle espressioni che governano per lo più il corpo funzionale, resta nondimeno vestita, abitata e percorsa da cima a fondo da una potenza espressiva. I tremiti interiori, la lentezza dei gesti, gli spasmi improvvisi che definiscono il campo del desiderio sono le forme proprie della vita della carne, sono le espressioni di una carnalità, non semplicemente “naturale”, che ha luogo solo in quella sospensione dell’ordinario istituita dalla relazione sessuale.
E, d’altra parte, un corpo può farsi corpo di carne pur in un contesto del tutto ordinario o addirittura formale, nel quale il vestiario, le pose, gli atti e le parole continuino a figurare come meri segni sociali. Un modo di guardarsi, di salutarsi o sorridersi mentre, legati nell’eleganza dell’abito, ci si scambiano parole di circostanza può già istituire la tensione di un campo carnale – la cui eterogeneità rispetto al territorio dell’agire intenzionale è testimoniata dalla nostra incapacità di sapere se quelle forze di attrazione che all’occasione di un’espressione stranamente magnetica ci hanno trasportato nelle estreme vicinanze dell’altro sussistano realmente o se non siano solo l’effetto della nostra immaginazione.
In entrambi i casi, la carne del desiderio è sempre gratia plena. La cosmesi o la cosmicità della grazia non le sopravviene, ma costituisce il suo unico modo di apparizione.
È il sadico, invece, che immaginando la grazia come un abito, come un segno estrinseco e supplementare, pretenderebbe di sfilarlo via per fare apparire la carne dell’altro in quanto tale, per ridurre l’altro al suo essere nient’altro che carne.
L’ideale del sadico sarà di cogliere il momento in cui l’altro sarà già carne senza cessare di essere uno strumento, carne da far carne; quando, per esempio, le cosce si offrono già in una passività oscena e sfiorita e sono ancora degli strumenti che si maneggiano, si aprono, e si curvano, per far risaltare di più le natiche e per incarnarle a loro volta (EN, p. 465).
Così facendo, il sadico in realtà non ottiene nulla dall’altro, e tantomeno accede al suo proprio divenire carne. Trattando “l’altro come uno strumento” (EN, p. 465), sottoponendo il proprio corpo e l’altrui al prelievo forzoso di quella grazia immanente che li fa essere carnali, non entrerà mai nel campo d’apparizione del desiderio. La sua ricerca di una carne senza trucco si rivela impossibile, in fondo, anche solo per il fatto stesso di essere una ricerca volontaria. Volere la carne dell’altro è il modo più sicuro di mancarla.
Il fatto è che la passività oscena e sfiorita con cui le cosce possono offrirsi alla visione sadica non può che restare ai margini dell’esperienza propriamente carnale. Non certo perché questa esperienza abbia qualcosa a che vedere con qualche amenità del corpo, ma solo per il fatto che essa, trovando il suo unico compimento nel sentire la comunanza della “propria” attrazione con l’attrazione dell’altro, non ammette la distanza che è invece necessaria a ogni osservazione come a ogni volontà cosciente. La passività oscena e sfiorita è il modo in cui la carne si presenta allo sguardo sadico, dal momento in cui quest’ultimo, nel suo pathos per la distanza, implica una sorta di giudizio estetico capovolto. Quello del sadico, però, resta appunto un giudizio, che come tale impedisce proprio quell’affondare della coscienza del corpo (cfr. EN, p. 459), necessario a ogni esperienza carnale.
In fondo, ciò che il sadico vorrebbe vedere incarnato non è che la malignità del corpo, l’essere ripugnante che, ai suoi occhi, si nasconde dietro le ingannevoli apparenze della grazia. In questo senso, lo sguardo sadico non è che il rovescio di quello cristiano: mentre quest’ultimo intende liberare il corpo di carne da quelli che riconosce come istinti peccaminosi, il primo vuole spogliare il corpo dei suoi belletti, per “dimostrare” la carne stessa in tutta la sua malvagia oscenità.
Non che la vista sia esclusa dal sentire propriamente carnale. Solo che il vedere in stato di desiderio è un vedere esclusivamente aptico. Non diversamente dalla mano, che non è mobilizzata per afferrare, anche l’occhio, divenuto carne, non fa che sorvolare a una distanza infinitesima il corpo dell’altro. Solo questo sguardo di carne, che scivola sul corpo come una carezza, è in grado di mantenersi nel campo del desiderio. La carnalità del piacere prende la sua consistenza propria solo dal momento in cui la tensione di uno sguardo aptico vibra del tremore della carne dell’altro. A distanza di giudizio, invece, la carne dell’altro non può essere sentita. Lo sguardo panoramico del voyerista e quello altrettanto globale anche se ravvicinato del sadico posso certo produrre eccitazione e godimento, ma nessun essere di carne.
Il mero godimento, così come si presenta in maniera esemplare nell’esperienza sadica, si distingue dal piacere carnale non per il suo essere immediatamente pulsionale, bensì, proprio al contrario, per la distanza strumentale che in esso si conserva. Un godimento che non è dell’ordine della pulsione acefala, ma è semmai il correlato di un comando volontario. Mentre il piacere che si accompagna al desiderio implica l’accesso a una relazione capace di sospendere l’intenzionalità personale, e solo in questo senso è propriamente carnale, il godimento è sempre e solo il godimento di un Io. Non solo di un Io che tiene a distanza l’altro, riducendolo a un fantasma di cui potersi cibare, ma di un Io che pretende di governare il proprio stesso modo di rapportarsi all’altro.
Anche lo sguardo fisso e ossessivo che gli amanti si rivolgono talvolta nei momenti che precedono il piacere è uno sguardo di carne, benché in un senso peculiare. Con gli occhi negli occhi, cercano di trattenersi entro il campo del desiderio, mettendo tra parentesi il senso meccanico dei movimenti con i quali sono tornati a utilizzare il corpo come uno strumento; cercano di portare dentro il campo d’attrazione della carne anche ciò che, per sua stessa natura, sembra sfuggirgli.
[Immagine: Egon Schiele, Gli amanti (l’abbraccio)]
“GRATIA PLENA”: LA CARNE DEL DESIDERIO – SARTRE, E IL TEMA CRISTIANO (NON CATTOLICO-ROMANO) DELLA CARNE.
“PERVERSIONI”: UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO …*
Che l’Essere sia o non sia, non è un problema ontologico – come sempre si è creduto, ma un problema morale ed etico! La Verità esiste, e infinite sono le sue versioni. Ma come si chiamano quelle che negano (in senso freudiano) la realtà e pretendono di dire tutta la verità nient’altro che la verità?! Che cosa sono, se non altro che per-versioni!? Questa la radice del problema.
Benvenuto lo sa e cerca di mettere a soqquadro tutto, per uscire dal labirinto e dal regime della ‘Normalità’, della Per-versione ‘Vera’! La questione è antropologica, edipica … e riguarda tutta la Città (Tebe, come Tokyo, Roma come New York, Madrid com Pechino, ecc.) e tutto il nostro sapere. Edipo ha saputo sciogliere l’enigma della Sfinge… ma la peste continua a mietere vittime! La questione non è risolta… e se è un problema di “gelosia” (come già Freud, e come ripete ancora lo stesso Benvenuto: “che è il cuore dell’Edipo”, pp. 41-42), bisogna capire che la gelosia di Edipo non è originaria né originale, è una ‘risposta’ alla gelosia già presente nella camera del re e della regina, del padre e della madre – di quell’uomo e di quella donna che sono i suoi genitori!
Se per il passato la relazione Madre-Figlio diede luogo alla tragedia, non possiamo dire che la relazione Padre-Figlia (il cattolicesimo-romano) ci abbia portato alla “commedia” – come voleva Dante! Il Figlio – l’uomo e la Figlia – la donna devono riprendere il cammino e cercare ancora…. il loro ‘Padre’!
Tre metri sopra il cielo – Benvenuto rompe gli indugi e sollecita a ‘saltare’: omnia munda mundis o meglio, nell’ottica della pratica zen, prima dell’illuminazione le perversioni sono perversioni, dopo l’illuminazione le perversioni sono perversioni. Cosa si vuol dire? Semplicemente, che Benvenuto, sia pure con ambiguità ed esitazioni, si getta al di là di là del narcisismo (il personale è politico, e viceversa!) e ci presenta il risultato di un lavoro (nonostante tutto) eccellente, segnato proprio dall’illuminazione, vale a dire, da una (auto)coscienza ‘adulta’ (in senso forte), aperta all’altro e alla luce del Sole.
Per chiarire e far capire meglio, citiamo:
“Non è l’oggetto anatomico desiderato a fare la perversione, ma direi, la presenza o meno della cura dell’altro come soggetto di desiderio.
Insomma, l’atto sessuale – sottolinea l’autore – non perverso è quello in cui si mostra carità per l’altro. Caritas nel Medioevo non significava fare opere di beneficenza, bensì ‘amore’ in quanto distinto da amor, il trasporto sessuale. […] Per avere un coito decente ci vogliono sia amor che caritas. E questa carità è provare com-passione per il desiderio dell’altro, è sentirsi chiamati a rispondere all’attrazione e al bisogno che l’altro ha di noi, e quindi andargli in soccorso. Il coito, come carità compassionevole, è atto etico per eccellenza (non a caso la Chiesa cattolica ha elevato il coito a sacramento: se fatto nelle dovute forme è il matrimonio).
Dire che il coito è un atto di carità compassionevole rischia di muovere al riso […] Ma ci rendiamo presto conto che senza carità compassionevole – anche il più ligio alla norma eterosessuale – prende una coloritura perversa, cioè appare come uso dell’altro in quanto soggetto che non è fine ma mezzo di piacere.
La premessa eminentemente intersoggettiva del rapporto sessuale è del resto evidente: è nella misura in cui l’altro (uomo o donna) mi desidera o trae piacere da me che io sono disposto/a a desiderarlo/a e a trarne piacere. Ciò che eccita eroticamente è il riflesso del proprio desiderio nell’altro; ma questo riflesso implica il riconoscimento ipso facto della soggettività dell’altro”(p.36).
Al di là della logica dello specchio e dell’opposizione (con o senza dialettica), il lavoro mette in evidenza l’esercizio di una ragione aperta (ma non popperiana) e critica, potremmo dire – chiasmatica, che riprende e porta avanti alla grande la lezione avviata da Freud (e ripresa anche da Elvio Fachinelli – mi riferisco in particolare e soprattutto al suo ultimo lavoro, La mente estatica del 1989). L’intera psicoanalisi ne esce semplicemente ‘terremotata’, e l’antropologia e l’etica anche. Aria pura in ‘Danimarca’, e non solo!
Benvenuto, in cammino e in dialogo con Freud e soprattutto con “Masud Khan, Jacques Lacan e Robert Stoller”, ma (se vogliamo, pur non essendo espressamente ricordato, e ripeto) anche con Fachinelli (si cfr., a riguardo, la sua importantissima indicazione – un vero e proprio punto di svolta antropologico e non solo psicoanalitico – ‘segnata’ Sulla spiaggia, in La mente estatica), con il coraggio delle origini (di Freud, come degli altri), “non chiudendosi nel narcisismo della prassi e della teoria” proprio della psicoanalisi ‘normalizzata’, “ma investendo direttamente forme di sapere e di discorso limitrofe”, supera fossati e barriere, mette in connessione “accordi slegati”, trova “il filo rosso tra i suoi vicoli di Napoli e la Berggasse viennese” di Freud, riesce a comporre il tutto in “una sinfonia”, e giunge (finalmente) a dirci e “a dire ancora qualcosa di fresco e convincente” – dentro e al di là del paludoso e mefitico orizzonte del nostro presente storico… e a fare un coraggioso passo al di là dell’edipo, al di là della tradizione cartesiana ed hegeliana e marxista, e al di là della tradizione ‘cattolico’- romana!!!
* PER COMPLETEZZA, mi sia consentito, cfr.: FEDERICO LA SALA, “PERVERSIONI” di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO – http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=283.
Che il tema cristiano della carne sia stato affrontato da Jean-Paul Sartre nell’Essere e il nulla come carne del desiderio – l’incarnazione di sé e dell’altro si realizza grazie al desiderio sessuale – dice però solo dell’argomento desiderio maschile. (“L’estasi del puro desiderio sessuale, che sarà presto sopraffatta dal bisogno di entrare nel corpo altrui facendo uso di forze e movimenti che riportano inesorabilmente la relazione nel contesto di un rapporto tra mezzi e fini”… “Il carattere involontario dell’erezione e delle secrezioni”).
Il tema cristiano della carne è invece l’incarnazione del figlio nella donna di carne. Questo rapporto tra due, due creature e anche due sessi, radica il tema al sé di carne.
Il terzo, il frammezzo, il desiderio che fa esistere la carne di sé e dell’altro, ma non la genera, può però riscattarla dal sadismo, delirio dell’uno neutro-maschile. Forse, per questo verso, Sarte resta per fortuna “ancora impigliato in una concezione tradizionale”.
E IL VERBO SI FECE CARNE: IL CATTOLICESIMO, L’IN-CARN-AZIONE, E LA POLITICA DELLA CARNE. IN QUALE “MONDO”, SU QUALE “REGISTRO”?: QUELLA dell’ “Unto del Signore” – DEL DIO-MERCATO E DI DIO-MAMMONA (“CARUS” … “CARITAS”) o DEL DIO di Gesù Cristo – del DIO-GRAZIA (gr. “Charis”), del DIO-AMORE (“CHARITAS”)?! QUELLO DELL’APOSTOLO GIOVANNI o DELLL’APOSTOLO DELLE GENTI, CATTOLICO-ROMANO-IMPERIALISTICO, PAOLO?! DIAMO ANCORA CREDITO ALLA “DONAZIONE DI COSTANTINO”?!:
PAOLO DI TARSO, L’ASTUTO APOSTOLO DELLA GRAZIA (“CHARIS”) E DELL’ AMORE (“CHARITAS”), E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO!
UNA NOTA *
“[…]raccogliere sotto un solo capo, in Cristo, tutte le cose: tanto quelle che sono nel cielo, quanto quelle che sono sulla terra” (Efesini 1,10).
(…) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana:
“[… ] NOI non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti VOI siete uno in Cristo Gesù” (Galati: 3, 25-28).
Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal NOI siamo al VOI siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente – a modo suo – e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma. Nasce la Chiesa … dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino). La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria… Tutti e tutte sulla romana croce della morte.
Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto… Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna – con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) – comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno – questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate… fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.
Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!
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Si cfr.: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25. – http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4944
Federico La Sala
P.S. – I “TESTICOLI” DELLE DONNE E LA “COGLIONERIA” DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE “PALLE”. L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! *:
“De Testicoli delle donne”. Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo […]: così inizia il cap.15 dell’ ANATOMIA di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne”(p. 91).
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Per approfondimenti, mi sia consentito, cfr:. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5548#forum3127578
Federico La Sala