di Stefano Ercolino
[La versione italiana del libro di Stefano Ercolino Il romanzo-saggio è stata da poco pubblicata da Bompiani (l’originale era uscito in inglese per Palgrave Macmillan). Verrà presentata da martedì 27 giugno alle ore 19,30 presso la libreria Assaggi Letterari, via degli Etruschi 4, a Roma. Massimo Fusillo, Raffaello Palumbo Mosca e Lorenzo Marchese ne discuteranno con l’autore].
Innanzitutto, va capito cosa “fa” il saggio nel romanzo-saggio, ossia, va chiarita la sua specifica funzione narrativa, o, meglio nel nostro caso, la sua funzione anti-narrativa. Il saggio rallenta il flusso della narrazione. L’inserimento di una forma non narrativa e atemporale, il saggio, in una intrinsecamente narrativa e temporale, il romanzo,[1] frena il dipanarsi dell’intreccio, determinando un effetto di sospensione, di dilatazione, di rarefazione, o, in certi casi, anche un’esplosione dell’intreccio. Già in Controcorrente di Huysmans, possiamo osservare chiaramente quelli che sono generalmente riconosciuti come alcuni dei maggiori risultati sperimentali del modernismo letterario: la disgregazione dell’intreccio e la revisione della categoria di tempo narrativo. In Controcorrente non succede nulla. L’intero racconto verte sulla segregazione di des Esseintes e sulle sue performances. C’è un personaggio solo, una sola ambientazione. Con la parziale eccezione dell’“Antefatto”, di alcune analessi e di due tentativi di lasciare Fontenay, il mondo è rigorosamente tenuto fuori dal claustrofobico romanzo di Huysmans. La “pura narrazione”[2] di cui ha parlato Moretti a proposito di Illusioni perdute di Balzac è svanita, la forza propulsiva della narrativa balzachiana si è esaurita. L’intero mondo frana su un singolo personaggio, su un singolo luogo; il movimento della narrazione si cristallizza nell’immobilità della reclusione di des Esseintes.
La pressione del tempo storico era oramai divenuta intollerabile. La confusa proliferazione di oggetti sociali – di “contenuti”[3] materiali e culturali – che si intensificò a partire dalla metà del XIX secolo, negli anni ottanta e novanta produsse un’onda d’urto che si abbatté con violenza sul sistema delle arti. La crisi del pensiero hegeliano; la nascita e l’ascesa della cultura positivista (dalla sociologia di Comte, alla teoria dell’evoluzione di Darwin); la diffusione parallela e sotterranea di filosofie irrazionalistiche, culminante nella beatificazione di Schopenhauer e di Nietzsche nella cultura europea di fine secolo; lo sviluppo del materialismo storico di Marx e l’organizzazione della sinistra internazionale; il nazionalismo; il messianismo; la musica di Wagner; il pragmatismo di Peirce e di James; lo spiritualismo e l’occultismo: un elenco disordinato e ampiamente incompleto, che può servire, però, a dare un’idea, anche solo approssimativa, dell’eccezionale aumento di complessità culturale verificatosi negli ultimi decenni del XIX secolo.
È probabilmente vero che gli eventi del 1848-1849 giocarono un ruolo importante nel determinare il successo della filosofia di Schopenhauer prima,[4] e di quella di Nietzsche poi, contribuendo a preparare una lenta svolta irrazionalistica nella vita intellettuale (a malapena percettibile in un primo momento, oscurata dall’astro dello scientismo positivista) che sarebbe divenuta molto marcata nell’ultimo quarto del secolo, anche a seguito dei traumi della Guerra franco-prussiana e della Comune di Parigi. Inoltre, nella seconda metà del XIX secolo, si assistette a uno straordinario progresso tecnologico e scientifico. È stata chiamata Seconda rivoluzione industriale, o Rivoluzione tecnica: un’era di crescita materiale senza precedenti che, tuttavia, precipitò nella prima crisi economica moderna, una crisi di sovrapproduzione, la Grande depressione del 1873-1896. Mentre le conseguenze della Grande depressione sul prodotto interno lordo delle maggiori potenze europee furono limitate, esse si rivelarono ingenti, invece, a livello sociale. Divenne del tutto evidente, forse per la prima volta in modo così chiaro, che l’equazione fra progresso scientifico e tecnologico, da un lato, e progresso umano, materiale e spirituale, dall’altro, era errata. Il capitalismo mostrava le sue contraddizioni: prima furono il crollo dei prezzi nel ventennio 1870-1890 e la rovina di migliaia di agricoltori, poi il massacro della Prima guerra mondiale. Il primo atto della “tragedia dello sviluppo”[5] capitalistico era cominciato.
Innovazione scientifico-tecnologica, svolta irrazionalistica, crescita materiale, crisi economica, impetuoso sviluppo delle arti: l’ultimo quarto del secolo fu pura opulenza polifonica; un nuovo, scintillante, caos. Si trattò di una crisi di saturazione sia della produzione materiale, che di quella simbolica; una crisi – quasi in linea con l’originaria accezione medica del termine – sentita come un’inedita pressione esercitata dal tempo storico,[6] che ebbe un effetto profondo e duraturo sul sistema delle arti. Fu, infatti, allora che ebbe inizio una serie di radicali e polimorfici rivolgimenti retorici che scosse la sfera estetica e che, nella storia del romanzo, culminò nelle sperimentazioni delle avanguardie e del modernismo, di cui il Nouveau Roman rappresentò l’ultimo sussulto. Dall’impressionismo al postimpressionismo, dal cubismo all’espressionismo astratto di Pollock, da Wagner alla musica atonale e dodecafonica, dall’Art Nouveau al Bauhaus, le arti occidentali furono permeate da una profonda ansia per la forma, emersa negli ultimi decenni del XIX secolo e anima di ogni tentativo di riforma artistica fino alla mercificazione tardocapitalista dell’utopismo avanguardistico.
Il romanzo-saggio fu uno dei primi e più sofisticati prodotti letterari di questi molteplici sommovimenti retorici. Le dettagliate descrizioni naturaliste di particolari spaccati sociali avevano perso il loro fascino ed esaurito il loro potere esplicativo. Il mondo era oramai percepito come talmente ambiguo e minacciosamente complesso da richiedere una reazione sia difensiva, che critica. Nel romanzo-saggio, l’irruzione del saggio nel romanzo sfidò le ragioni dell’intreccio. Ostruendo vistosamente il flusso narrativo, l’introduzione di una forma non narrativa e atemporale (il saggio) in una narrativa e temporale (il romanzo) costituì una sorta di esorcismo formale della nuova pressione del tempo storico; una pressione talmente intensa da portare all’emergenza di una nuova forma, di un nuovo genere del romanzo: il romanzo-saggio. Un genere critico: per affrontare e scandagliare la ricchezza culturale dell’“abbondanza”[7] di fine secolo, era necessario uno strumento potente, che la natura sostanzialmente illuministica e critica del saggio sembrava in grado di offrire.
Il “romanzo del capitalismo”[8] di Balzac, la cui narrazione impetuosa riproduceva i “tratti anarchici e febbrili del primo capitalismo”,[9] aveva smarrito la sua spinta propulsiva, e non l’avrebbe riacquistata fino al “ritorno alla narrazione” nella postmodernità. Si potrebbe vedere un nesso fra la nuova fase del capitalismo, avviata dalla Grande depressione del 1873-1896 (la cosiddetta fase del “capitalismo organizzato”), e la metamorfosi che subì la retorica narrativa nello stesso periodo. Per la prima volta, il selvaggio spirito liberista del primo capitalismo doveva scendere a compromessi. L’intervento massiccio dello stato nell’economia – dall’adozione generalizzata di politiche protezionistiche, alla promozione di monopoli –, così come la nascita delle banche miste, furono i segnali macroscopici che il peso delle contraddizioni del sistema era divenuto insostenibile, al punto da richiedere una revisione radicale. Sul piano estetico, qualcosa di analogo avvenne al romanzo. Sotto la pressione della “crisi di abbondanza”[10] di fine secolo, il declino del modello narrativo balzachiano e l’esaurimento dell’estetica naturalista spinsero il romanzo a percorrere altre strade. Strade che furono inevitabilmente quelle del compromesso – di un compromesso formale, nel nostro caso –, e che condussero al romanzo-saggio. Una forma che entra in un’altra forma, abbiamo detto. Il saggio entra nel romanzo sia come tentativo di esorcismo formale della pressione del tempo storico, che come strumento di critica. Mentre il capitalismo era costretto a cercare un nuovo compromesso fra pubblico e privato, il romanzo esplorava altre possibilità espressive, ibridandosi con forme non narrative. Non era la prima volta nella storia del romanzo e non sarebbe stata l’ultima. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, la modernità entrò in un’inedita fase di incertezza; una fase di compromessi a cui fu costretta dalle crescenti contraddizioni del sistema, e che riguardò sia la sfera economica, che quella estetica. Quasi nel significato freudiano dell’espressione, potremmo guardare al romanzo-saggio come a una formazione di compromesso, una forma che, in una costruzione morfologica e simbolica ibrida, fu in grado di catalizzare e di sottoporre a esame critico la polifonia culturale di fine secolo. La “pura narrazione” di Balzac era stata abbandonata, sì, ma questo, in fondo, non importava. Il romanzo era salvo; era ancora in grado di raccontare il mondo.
[1] Cfr. Di Bona, Elvira, “Narrative and Reflective Temporalities”, in Narration and Reflcetion, a cura di Stefano Ercolino e Christy Wampole, Compar(a)ison, 33, 1-2, 2015, pp. 49-62.
[2] Moretti, Franco, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, p. 176.
[3] Simmel, Georg, “Concetto e tragedia della cultura” (1911), in Id., Arte e civiltà, a cura di Dino Formaggio e Lucio Perucchi, Milano, ISEDI, 1976, p. 102.
[4] Burrow, John W., La crisi della ragione. Il pensiero europeo, 1848-1914 (2000), trad. it. Stefano Poggi, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 53-54.
[5] Berman, Marshall, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. L’esperienza della modernità (1982), trad. it. Valeria Lalli, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 60.
[6] Koselleck, Reinhart, “Krise”, in Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, a cura di Otto Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck, Stoccarda, Klett-Cotta, vol. 3, pp. 617-19.
[7] Kern, Stephen, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento (1983), trad. it. Barnaba Maj, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 15.
[8] Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. 159.
[9] Ibid., p. 159.
[10] Kern, Il tempo e lo spazio, cit., p. 15. Si veda anche Schleifer, Ronald, Modernism and Time: The Logic of Abundance in Literature, Science and Culture, 1880-1930, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. ix-xiii, 35-63.
[Immagine: Kazimir Malevič, Quadrato nero, cerchio nero, croce nera (gm)]
Molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Una domanda, se posso: Proust, mi pare, rientra perfettamente nella categoria del romanzo-saggio qui delineata; “L’uomo senza qualità” può essere considerato un gigantesco saggio, come pure “La morte di Virgilio” di Broch. Ma Kafka, ma Céline? Mi sembra che in entrambi i dispositivi per rallentare l’azione siano di tipo diverso dalla riflessione critica (che ritroviamo invece, con altri scopi, in un romanzo come “Pastorale americana”, decisamente fuori tempo rispetto al periodo considerato). Ricordo inoltre intere pagine, in Balzac, consacrate alla disamina del problema del calo dell’allevamento equino in Francia, che secondo l’autore avrebbe portato necessariamente a una situazione di inferiorità militare, nonché, in “César Birotteau”, infinite digressioni di carattere finanziario-commerciale. Queste ultime rallentavano talmente l’intreccio che io “César Birotteau” l’ho mollato lì a metà.
Molto interessante l’articolo, per quello che dice e per la semplicità e chiarezza con cui lo dice. L’ho appena condiviso sul mio blog (nei “consigli di lettura”) e sulla pagina FB.
Cordialmente
A. Ottieri