di Mauro Piras

[Il 26 giugno 1967 moriva, a 44 anni, Don Lorenzo Milani. Dedico questo intervento agli studenti e ai colleghi della 5D Servizi Socio-sanitari dell’Istituto Professionale “Elsa Morante”, Firenze]

Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose. (Lettera a una professoressa)

 

Si parla fin troppo di Don Milani, quest’anno. Tutto è iniziato con un paio di articoli molto polemici. Uno di Lorenzo Tomasin sul Sole24ore, che denuncia nella Lettera a una professoressa una cultura del risentimento e dell’odio di classe (qui). Un altro di Paola Mastrocola, che da diverso tempo, periodicamente, accusa il “donmilanismo” di essere il male della scuola italiana, l’inizio di una decadenza che avrebbe portato all’abbandono dello studio serio “delle nozioni”, dell’italiano e della letteratura, a favore di attività di “intrattenimento” vaghe e inutili (qui). Sono seguiti diversi interventi di segno contrario che hanno, a volte con tono un po’ agiografico, difeso l’idea di scuola di Don Milani, o hanno ricostruito con più attenzione il contesto storico (Vanessa Roghi) o il senso del progetto pedagogico (Italo Fiorin); oppure, ultimamente, hanno cercato di pesare meglio i pro e i contro (Franco Lorenzoni). Fino alla visita del Papa a Barbiana, il 20 giugno scorso. Che fa un po’ l’effetto del volume dei “Meridiani” dedicato a Don Milani: una consacrazione postuma quasi eccessiva, troppo istituzionale, troppo incravattata, per una persona che ha rifiutato di netto la sua appartenenza alla borghesia colta (“Ci ho messo ventidue anni per uscire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Non devo farmene ricatturare neanche per un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro”, Don Milani, Lettera all’avvocato difensore, 20 ottobre 1965) per umiliarsi, nascondersi, occuparsi di catechismo e acquedotti, insegnare ai figli dei contadini.

In tutti questi interventi, però, quasi nessuno guarda in dettaglio all’idea di scuola che emerge dalla Lettera a una professoressa, pubblicata poco prima della sua morte, nel maggio del 1967, e concepita anch’essa con lo stesso spirito inconciliabile, quasi intrattabile, con cui Don Milani ha intrapreso la sua opera “per gli altri”, senza concessioni per i “piani alti della società”. In quel progetto di scuola ci sono cose attuali, giuste (alcune sono proprio quelle contro cui si scaglia la Mastrocola), altre inaccettabili per la nostra cultura moderna, altre semplicemente legate a un contesto passato, e che quindi non ci interessano direttamente per migliorare la scuola di oggi.

1. Statistiche. “Persi alla scuola” e “persi alla classe”

La Lettera a una professoressa è un libro pieno di statistiche. Don Milani amava i numeri, le statistiche riempiono anche il suo primo libro, Esperienze pastorali. Quelle della Lettera riguardano un tema che abbiamo imparato a conoscere: la dispersione scolastica. I dati dell’Istat vengono sintetizzati prendendo a modello una classe che entra in prima elementare nel 1957-58 e seguendone le vicende fino alla conclusione dell’obbligo. Viene fatto quindi una sorta di studio longitudinale. In questo modo Don Milani mostra non solo quanti studenti perde la scuola, ma anche quanti ne perde la classe.

Si ipotizza, all’inizio, una classe di 32 alunni. Alla fine della prima elementare 6 sono bocciati (18,8 %), cioè “persi alla classe”. Di questi, 4 ripetono la prima e 2 lasciano la scuola (“persi alla scuola”: 6,3 %). Alla fine delle elementari, 4 bocciati del gruppo originario hanno lasciato la scuola (12,5 %), mentre altri 13 bocciati ripetono altre classi. Totale: 17 “persi alla classe” (53,1 %), intesa come gruppo originario “dato in consegna” alla maestra. La classe iniziale di 32 è ridotta a 15. Il dato più importante però è quello generale: se si prende tutto il percorso, comprendendo anche gli studenti bocciati provenienti da altre classi, su un totale di 48 alunni che sono passati per la classe i “persi alla scuola” sono 11 (23 %), e i ripetenti sono 18. In totale quindi i “persi alla classe” sono 29 (61 %).

Riformulando: sui cinque anni delle elementari, la dispersione scolastica (i “persi alla scuola”) è del 23 %, mentre la “dispersione della classe” (i “persi alla classe”, quelli che non arrivano in fondo al percorso regolarmente) è del 61 %.

Alle medie l’ecatombe continua, anzi aumenta. Alla fine dell’obbligo (terza media) su un totale di 56 ragazzi che in complesso sono passati per la classe, questa ne ha persi 40 (72 %). Di quei 40, 16 (28,6 % sul totale di 56) sono andati a lavorare prima di aver compiuto l’obbligo; 24 ripetono.

Riformulando: la dispersione scolastica alla fine dell’obbligo è del 28,6 %; la dispersione della classe è del 72%.

“In terza media ci sono solo 11 dei 32 ragazzi che la maestra ha avuto in consegna in prima elementare” (p. 58; da qui in avanti, tutti i rimandi senza altre indicazioni sono a: Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, ristampa 2017).

Sono cifre impressionanti, che dipingono una scuola molto diversa dalla nostra. Noi sappiamo infatti che oggi la dispersione scolastica nella primaria e nella secondaria di primo grado è quasi inesistente. Quindi il problema riguarda, come è noto, la fine del secondo ciclo: quanti cioè non hanno conseguito una formazione nella secondaria di secondo grado. In questi termini, sappiamo che nel 2015 la dispersione scolastica in Italia era del 14,7 %, calcolata con il metodo degli early leaving from education and training (ELET): la percentuale di persone tra i 18 e i 24 anni che non hanno un diploma di scuola secondaria di secondo grado, né una qualifica professionale almeno triennale. Un dato superiore alla media UE, ma molto meno grave di quel 28,6 % all’uscita della scuola media di cinquant’anni fa. Da questo punto di vista, quindi, c’è una grande differenza tra la scuola della Lettera e la scuola di oggi: quest’ultima è molto più inclusiva.

Le cose però non sono così semplici. Il calcolo degli ELET è il metodo più ristretto per contare i “persi alla scuola”. Se invece procediamo come la Lettera, i dati sono diversi e ben più gravi. Se prendiamo cioè il totale degli ingressi nella scuola secondaria di secondo grado, facendolo uguale a cento, e vediamo poi il totale degli iscritti o dei diplomati al quinto anno, facciamo una sorta di calcolo dei “persi alla classe” come fa Don Milani. Vediamo cioè, tra tutti quelli che sono passati nel sistema scolastico nei cinque anni del corso regolare, quanti ne abbiamo persi perché non siamo riusciti a portarli al quinto anno o al diploma nei tempi giusti. Questo è il metodo seguito da Daniele Checchi, nei suoi studi sulla dispersione scolastica, e dai dossier sul tema prodotti regolarmente da Tuttoscuola.

Checchi, in un articolo del 2014 (“Tante scuole diverse: troppo diverse?”, in il Mulino 6/2014, pp. 955-962), prende in esame gli iscritti alle superiori nel 2005 e i diplomati del 2010: la percentuale di dispersi è del 27,4% (nel 2010 la dispersione calcolata come ELET era del 18,8%). Tuttoscuola, nel dossier sulla dispersione del 2014 (Dispersione nella scuola superiore statale, giugno 2014, scaricabile dal sito www.tuttoscuola.com), prende come ultimo anno di riferimento gli iscritti al 2013-14 e calcola la differenza rispetto agli iscritti nel 2009-10: la percentuale di dispersi è del 27,9% (nel 2013 la dispersione calcolata come ELET era del 17%, nel 2014 del 15 %). Sempre Tuttoscuola (qui: http://www.tuttoscuola.com/dispersione-scolastica-serve-unanalisi-completa-degli-abbandoni/) calcola che quest’anno la differenza tra gli iscritti al primo anno nel 2012-13 e gli iscritti al quinto anno nel 2016-17 è del 25,3% (la dispersione ELET nel 2015, ultimo dato disponibile, è del 14,7 %; ).

Come si vede da questi dati, i “persi alla classe” sono molti di più dei dispersi secondo il calcolo ufficiale (i “persi alla scuola”): questa differenza si spiega con i ripetenti, con i trasferiti nelle scuole paritarie o private, con gli iscritti alla formazione professionale e con quanti ottengono il diploma più tardi, grazie all’istruzione per adulti. Se però il problema è quello di tenere gli studenti a scuola, per dare loro una formazione completa, e per non discriminarli socialmente; e se il problema è dare una formazione qualificata, di alto livello, che non li metta in posizione subordinata nel mercato del lavoro, il dato di cui dobbiamo tenere conto è proprio quello dei “persi alla classe”. È questo infatti che ci mostra il fallimento del nostro sistema scolastico e formativo che, con le bocciature, continua a lasciare indietro “i cretini e gli svogliati”, come diceva Don Milani, perché ritenuti non adatti a studiare.

Questo fallimento appare in modo impietoso se si guarda al tasso di dispersione “alla classe” alla fine del biennio delle superiori, cioè alla fine dell’obbligo scolastico. È questo il dato da confrontare con i numeri della Lettera, che si concentrava appunto sull’obbligo. Oggi questo non è a 14 anni, ma 16, alla fine del biennio delle superiori. Tuttoscuola, nel dossier del 2014, ha calcolato la differenza tra gli iscritti al primo anno e gli iscritti al terzo anno: nel 2013-14 la differenza rispetto agli iscritti nel 2011-12 è del 14,8 %. Cioè più della metà dei dispersi sull’intero quinquennio (27,9%, come abbiamo visto sopra). La nostra scuola non è così inclusiva come appare: seleziona ancora in modo consistente, e lo fa soprattutto nel periodo dell’obbligo scolastico, nel periodo cioè in cui dovrebbe portare tutti fin in fondo.

Inoltre, come la scuola di cinquant’anni fa, per quanto in modo meno evidente, colpisce ancora e soprattutto nei ceti sociali più deboli. Sempre secondo il dossier di Tuttoscuola, la dispersione negli Istituti professionali nel 2013-14, calcolata con il solito metodo, è del 38 % alla fine del quinquennio. Ora, noi sappiamo che negli istituti, e soprattutto nei professionali, si concentrano i figli dei genitori con i titoli di studio più bassi (licenza elementare o media) e delle classi sociali più deboli (http://www.almadiploma.it/info/pdf/convegno2016/02_Rappresentazioni-grafiche-AD2016.pdf). Nella scuola di cinquant’anni fa la stragrande maggioranza dei bocciati e dei dispersi erano figli di contadini e operai, come mostra la Lettera. Anche se il quadro è più complesso, la tendenza generale non cambia: la maggioranza dei bocciati e dei dispersi si concentra negli istituti, soprattutto professionali, e quindi nelle classi sociali più deboli.

2. La scuola selettiva

Come è fatta la scuola selettiva di cui parla Don Milani?

È una scuola che offre poco ai suoi allievi. Prima di tutto, in termini di tempo: “ma siete ben miseri educatori voi che offrite 185 giorni di vacanza contro 180 di scuola” (p. 66). Le ore che i ragazzi passano in classe sono poche, rispetto a quelle che passano a casa, cioè al lavoro o comunque lontano dai libri e dallo studio. La scuola chiusa il pomeriggio e nei giorni festivi è per i ricchi, che vivono nella cultura quotidianamente. È una scuola in cui gli insegnati danno poco. La Lettera si scaglia con toni durissimi contro l’orario degli insegnanti, troppo ridotto: “[…] il vostro orario è indecente. Un operaio lavora 2150 ore l’anno. I vostri colleghi impiegati statali 1630. Voi da un massimo di 738 (maestri) a un minimo di 468 (professori di matematica e lingua straniera)” (p. 88).

Questo (poco) tempo, poi, viene sprecato in attività che non sono vero insegnamento: “Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo” (p. 127). Ciò che prevale, in questa scuola, è proprio l’aspetto del processo: interrogazioni, verifiche, esami, sorveglianza (pp. 127-131). In questo contesto, gli studenti si rassegnano ad annoiarsi, a non interessarsi a quello che studiano; tutto è finalizzato invece al voto, all’interrogazione; durante le spiegazioni si studiano le materie in cui si verrà interrogati nelle ore successive. Non si ha voglia di approfondire, ci si limita a sottolineare le parti più importanti del manuale (o addirittura ci si riduce ai Bignami; p. 132).

Questa scuola si irrigidisce su contenuti spesso troppo lontani dalla vita pratica, e comunque molto lontani dalla cultura delle classi popolari: l’ossessione della grammatica nell’apprendimento dell’italiano e delle lingue straniere, invece di insegnare veramente a parlare e scrivere, in entrambi i casi; l’obbligo, spesso, di imparare un italiano letterario morto, lontanissimo dalla lingua moderna, viva; il culto esagerato dell’antichità, della storia antica, dei poemi classici, appresi poi in traduzioni ormai illeggibili (Monti, Annibal Caro; pp. 28, 130). Insomma, una “cultura” che si concepisce come patrimonio di una classe sociale autoreferenziale e che sembra fatta apposta per escludere chi non vi appartiene. L’ossessione per questi programmi impedisce di occuparsi dell’attualità, della storia viva, contemporanea, e della Costituzione, che di fatto non viene mai studiata; non si risponde mai alle curiosità dei ragazzi, che non hanno il diritto di intervenire e di dire la propria (pp. 27, 129).

Ma soprattutto è una scuola selettiva nell’intenzione, che fin dalle elementari distingue gli studenti in tre categorie: i capaci, i cretini e gli svogliati. Solo i primi meritano di passare, sulla base dei risultati; i secondi non sono all’altezza, non ce la fanno, sono troppo lenti, e quindi vengono bocciati, devono ripetere perché possano finalmente imparare; e i terzi, gli svogliati, sono considerati dei semidelinquenti, con loro non si può fare nulla, bisogna levarseli di torno al più presto. Peccato che i secondi, i “cretini”, vengano inchiodati alla ripetizione inutile degli stessi contenuti, invecchiando tra i loro compagni, finché si stufano e se ne vanno. E i terzi, gli svogliati, i “delinquenti”, cercano al più presto di lasciare la scuola, restando analfabeti (pp. 16-20, 79-80).

È una scuola che seleziona appellandosi ai principi più alti: l’onore della scuola, il bene stesso dei ragazzi, la giustizia. Si guardano i risultati, e non il contesto d’origine dei ragazzi. Così vengono eliminati sistematicamente i figli dei contadini e degli operai, molto più di quelli della media o grande borghesia. E questo avviene, come abbiamo visto, in primo luogo nella scuola dell’obbligo. Dopo, i ragazzi sono già selezionati.

Quanto è distante la nostra scuola da questo quadro? In prima battuta, molto. La nostra è una scuola che, nelle intenzioni esplicite e nella parte predominante delle sue pratiche, vuole essere inclusiva. Il tasso di bocciature è molto più basso (per quanto non irrilevante, come vedremo più avanti), e l’atteggiamento generale dei docenti e di tutta l’istituzione non è di escludere, ma di comprendere e includere: si fa di tutto per capire le condizioni di provenienza degli studenti (fino alla formalizzazione di questa attitudine con la definizione dei BES, “bisogni educativi speciali”) e per evitare di colpire duramente proprio i più deboli. Da qui vengono le accuse di “lassismo” (Galli della Loggia), che alcuni interpretano proprio come l’eredità negativa che ci avrebbe lasciato Don Milani (Mastrocola).

Tuttavia, alcune delle cose denunciata da Don Milani e dai suoi allievi suonano stranamente familiari.

Il problema del tempo. Da quando ha adottato il tempo pieno, la scuola italiana ha abbandonato quella divisione del tempo condannata da Don Milani, e ha esteso le opportunità di tutti. Tuttavia, il tempo pieno è distribuito in modo molto diseguale. In primo luogo, ormai è presente solo nella scuola primaria, mentre ci sarebbe da chiedersi quanto potrebbe essere utile anche nella secondaria di primo grado, almeno. Inoltre, anche nella primaria è diffuso al nord e al centro, ma molto di meno, a volte quasi assente, al sud e nelle isole. Questo crea grandi disparità nelle opportunità formative, e lascia la scuola in molte regioni quasi nelle condizioni descritte da Don Milani.

Poi c’è il problema di come viene utilizzato questo tempo: il quadro descritto da Don Milani sembra ancora quello di molte scuole secondarie, di primo o di secondo grado. Un tempo scandito, in modo irregolare e differenziato per discipline, e quindi irrazionale, da interrogazioni e verifiche; e in cui un ruolo importante è quello della “sorveglianza”. Un tempo quindi che induce a un rapporto docenti-alunni fondato sulla sfiducia: lo studente viene sempre valutato e controllato, perché non ci si fida di lui (“se non sono sotto pressione non studiano”, “se non li controlli copiano”, “se non li interroghi continuamente non imparano niente”, “se non li sorvegli commettono delle scorrettezze” ecc.). Reciprocamente, lo studente assume un atteggiamento rigorosamente strumentale: punta solo a ottenere buoni voti (o i voti che gli servono), studia in funzione delle verifiche, a scuola si annoia, accetta come ovvia la superficiale schematicità di molte cose che deve imparare più o meno a memoria. Al di là degli sforzi di molti docenti per rendere più attiva la partecipazione degli studenti, tutti noi riconosciamo in questi tratti il sistema dominante nella scuola secondaria, soprattutto di secondo grado. Il meccanismo spiegazione-verifica, centrato sui “programmi da svolgere” nelle singole discipline, crea questo sistema, che nella struttura di fondo resta invariato da cinquant’anni a questa parte. E l’imperativo del programma espelle fuori dalla scuola, ora come allora, una formazione seria sull’attualità, sulla vita sociale contemporanea (l’educazione civica), sulla Costituzione e i diritti.

Su quest’ultimo punto la somiglianza è impressionante: “Un’altra materia che non fate […] è educazione civica. Qualche professore si difende dicendo che la insegna sottintesa dentro le altre materie. Se fosse vero sarebbe troppo bello” (p. 123). Questa è la fotografia esatta della materia “Cittadinanza e Costituzione” oggi, che è prevista esplicitamente negli ordinamenti, in tutti i gradi di scuola, a partire dalla riforma Gelmini (2009-2010), ma che di fatto non si fa, perché è affidata “a tutti i docenti”: non viene previsto un docente che faccia esplicitamente questa materia, non c’è un monte ore definito, e non ci sono valutazioni obbligatorie su questa materia, quindi non viene svolta, perché il professore di storia o quello di italiano, a cui di fatto viene chiesto di farla, devono finire il programma di storia o di italiano, e quindi non fanno la Costituzione per non restare indietro: alla fine dell’anno, in scrutinio, nel registro elettronico non c’è la colonnina dei voti di “Cittadinanza e Costituzione”, mentre c’è quella di “Storia” e di “Italiano”, quindi, nella logica implacabile del voto, è chiaro quali sono le priorità.

Insomma, alla fine la scuola condannata da Don Milani è, per certe strutture di fondo, ancora molto simile alla nostra. Questo deriva da un impianto di fondo che, in tutta la secondaria, di primo e secondo grado, risente ancora del predominio del modello liceale: dopo la primaria, in cui il metodo di lavoro è molto diverso, si passa all’improvviso a un sistema che è una fotocopia sbiadita del liceo: pluralità di discipline, ognuna delle quali procede per conto suo, metodo di lavoro in classe prevalentemente cattedratico, interrogazioni e verifiche, il programma da svolgere. E tutto questo anche in una fascia di età, quella tra gli undici e i quattordici anni, in cui si dovrebbero continuare a sviluppare le competenze fondamentali (parlare e scrivere in italiano, apprendere i fondamenti della matematica, delle scienze e della conoscenza storica), mentre ci si disperde in un quadro frammentato che impedisce la costituzione di questi fondamentali. E questo è ancora più grave se si tiene conto che ci si trova dentro l’obbligo fino a sedici anni, quando la frammentazione, con la differenziazione degli indirizzi, diventa ancora più grave.

E così si viene alla questione delle bocciature (da cui dipende, ovviamente, la dispersione scolastica). Nella primaria e nella secondaria di primo grado quasi non si boccia, ma il solo fatto che la bocciatura sia prevista in questi gradi di scuola, e non la si sia voluta abolire neanche con l’ultima riforma, mostra che qualcosa della scuola selettiva di cinquant’anni fa resiste ancora. Ma le cose si aggravano notevolmente se si guarda al primo biennio delle superiori. La vulgata dominante in molta opinione pubblica, soprattutto tra gli intellettuali, è che la scuola italiana promuova tutti. Questo perché all’esame di “maturità”, di cui si parla sempre molto quando arriva, vengono ammessi quasi tutti (96,3 % di ammessi quest’anno) e promossi sostanzialmente tutti. Questi dati però nascondono una situazione più complessa, più selettiva. Le bocciature ci sono, e colpiscono soprattutto gli ordini di scuola “non liceali”: istituti tecnici e professionali, e soprattutto il biennio delle superiori. Nel 2015 mentre nei licei i bocciati erano solo il 9 % del totale degli iscritti, nei tecnici erano il 13,3 %, e nei professionali il 17,4 % (http://www.tuttoscuola.com/secondarie-il-miur-pubblica-i-dati-degli-scrutini/). Se si incrociano questi dati con quelli sulla provenienza sociale degli studenti degli istituti, come sempre le bocciature colpiscono le fasce sociali più deboli. L’impressione che la scuola “bocci poco” deriva dal suo carattere selettivo: certi ragazzi vengono per definizione “scaricati” verso gli istituti, quindi la popolazione dei licei è impostata in modo tale da garantire bassi tassi di bocciature; negli istituti o si ritirano prima o vengono bocciati e ripetono. Quindi, per quanto con percentuali di bocciati più bassi, si ripetono gli scenari denunciati da Don Milani.

3. La scuola dell’eguaglianza

Come è fatta invece la scuola “giusta”, non selettiva, che propone la Lettera? Prima, bisogna chiarire da dove parlano Don Milani e i suoi studenti. Cioè da quale visione generale.

La scuola selettiva non è frutto del caso o di cattiva volontà, ma del dominio di una classe sociale (la borghesia) sulle classi lavoratrici (contadini e operai). È coerente con un sistema sociale in cui la borghesia, con la sua cultura, con i suoi titoli accademici, domina nell’università, in Parlamento, nei partiti. L’unico luogo in cui i lavoratori possono esprimersi sono i sindacati. La “mamma di Pierino”, colta, laureata, sposata con un laureato, entrambi figli della borghesia, “non è una belva”: quando iscrive suo figlio, Pierino, in prima elementare a cinque anni, in anticipo, sta semplicemente riproducendo la sua classe sociale. Se ha potuto studiare fino a 24 anni è perché ha sfruttato inconsapevolmente chi invece ha dovuto lavorare da subito: “Tutto il tempo che ora le avanza è un dono dei poveri o forse un furto dei signori. Perché non lo spartisce? […] sommando migliaia di piccoli egoismi come il suo si fa l’egoismo di una classe che vuole per sé la parte del leone. Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione” (p. 74).

Di conseguenza gli insegnanti, quando difendono il loro modello di scuola e i loro diritti (anche sindacali), difendono, spesso inconsapevolmente, un sistema di dominio sociale: si mettono dalla parte dei ricchi contro i più poveri. Il conflitto tra insegnanti e genitori diventa un riflesso del conflitto di classe. Si pensi già alla prima frase della Lettera: “Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi” (p. 5). Come si potrebbero controllare gli insegnanti che abusano del loro potere e bocciano senza pietà i ragazzi come Gianni e Sandro, figli di contadini, lenti o svogliati, mentre portano avanti con gloria Pierino, il figlio dei ricchi in anticipo di un anno? Ecco la risposta: “Un bel sindacato di babbi e mamme capace di ricordarvi che vi paghiamo noi e vi paghiamo per servirci, non per buttarci fuori” (p. 26). Il conflitto di classe, secondo lo schema della contrapposizione padroni-sindacati, è replicato fedelmente nella scuola.

Il dominio della cultura, in queste condizioni, è dominio di classe. La cultura “alta”, i contenuti della tradizione occidentale, la letteratura, la filosofia, la scienza, sono il patrimonio di un’élite autoreferenziale che ha letto gli stessi libri e “riconosce i suoi”. Per farne parte bisogna accettare questo sapere, spesso lontano dalla vita reale, sicuramente lontano dalla vita dei lavoratori (pp. 29, 105). Questa visione spiega alcuni tratti radicalmente antimoderni della Lettera. Il rifiuto dell’individualismo e del credo del “Libero Sviluppo della Personalità”, in primo luogo (p. 112). Il rifiuto di ogni forma di interesse egoistico, anche in vista della propria realizzazione personale o professionale (p. 96). Il rifiuto dell’amore per la cultura fine a se stessa: “[…] questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo” (p. 110). Il disprezzo per la cultura umanistica, che serve a selezionare la classe dominante (p. 29) e a cui viene contrapposta l’unica verità del Vangelo (p. 120). E anche il rifiuto della cultura scientifica: “Neanche per la scienza non ti dar pensiero. Basteranno gli avari a coltivarla. Faranno anche le scoperte che servono per noi. […] Non dannarti l’anima per cose che andranno avanti anche da sé” (p. 97).

Questo rifiuto in blocco della cultura moderna, in quasi tutti i suoi principi portanti, si giustifica da due punti di vista: uno profondamente religioso, la fedeltà al Vangelo, e uno sociale, l’idea che quella cultura è frutto e espressione della classe dominante. Le due prospettive si saldano nell’assumere il punto di vista degli ultimi. E questo punto di vista spiega invece perché l’unico principio della modernità che si salva è l’eguaglianza: un’eguaglianza non solo morale (non è solo il messaggio cristiano che parla, qui), ma politica e sociale. La cultura che serve davvero, che deve essere insegnata a scuola, è quella che rende “sovrani”. Questa è la vera idea fondante della Lettera. La scuola giusta non è quella che forma individui autonomi o persone individualmente libere, né quella che garantisce le pari opportunità di carriera o i diritti soggettivi; la scuola giusta obbedisce a una sorta di imperativo rousseauiano: “Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali” (p. 94).

Essere sovrani significa saper parlare, dominare lo strumento della comunicazione. È la parola che rende eguali, anche quando non si è eguali nella ricchezza: “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno” (p. 96). “Quando il povero saprà dominare le parole […], la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata” (Don Milani, Lettera a Ettore Bernabei, 28 marzo 1956). I Costituenti hanno sbagliato a pensare che la scuola serva a permettere ai “capaci e meritevoli” di “raggiungere i gradi più alti degli studi” (Cost., art. 34): “Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani!” (96). La sfera dell’azione collettiva, politica, è il fine più alto a cui deve tendere la persona, perché solo in essa si realizza il fine più alto da realizzare per l’uomo, cioè il bene degli altri.

Questa visione generale fonda e spiega i caratteri della “scuola giusta” proposta da Don Milani e dalla Lettera.

È una scuola guidata da questa utopia: il “sogno di una lingua che possa essere letta da tutti, fatta di parole di ogni giorno” (p. 133). La disciplina più importante quindi è l’apprendimento, pratico, vivo, della lingua. Della lingua italiana (quella della vita reale, però, non quella della tradizione letteraria) e delle lingue straniere. Apprese senza soffermarsi troppo sulle regole di grammatica, che si possono assimilare in seguito, dopo la pratica. La disciplina che deve avere più spazio, e che invece non ne trova nella scuola selettiva, è “l’arte dello scrivere” (pp. 20-23, 124-127). Un’arte fondata su poche regole semplici: prendere appunti su quello che si vuole dire, riordinarli per argomenti, unificare, semplificare, creare dei paragrafi; si cercano le parole da levare (“aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola”: p. 126), si sottopone il testo a un estraneo per renderlo chiaro. Un lavoro collettivo (pp. 126-127).

Rispetto alla centralità della lingua, le altre discipline hanno un ruolo secondario: le scienze, come abbiamo visto, non sono fondamentali; persino la matematica viene ridotta notevolmente, quanto basta per la vita pratica di una persona adulta. Della letteratura si parla quasi sempre male, certo in riferimento ai classici antichi letti in traduzioni incomprensibili o alla lingua morta dell’italiano letterario (ne fa le spese Foscolo), ma in ogni caso non è chiaro quale può essere il suo ruolo positivo, se non quello di facilitare l’apprendimento della lingua italiana, più che altro per contrasto (per evitare di diventare come i “vostri signorini esperti nel frigger aria e nel rifriggere luoghi comuni”: p. 21). Il latino, ovviamente, è uno strumento del dominio di classe, non solo alle medie, ma anche in quelle scuole superiori in cui non serve, come per esempio le magistrali (pp. 117-118).

Molta più importanza viene data alla storia, ma non quella degli antichi che ossessiona gli insegnanti, né, soprattutto, la sequela di re e potenti: “un raccontino provinciale e interessato fatto dal vincitore al contadino” (p. 123). La storia da fare è quella viva, vicina a noi (l’ultima guerra, la resistenza, le lotte dei lavoratori e dei popoli colonizzati), e soprattutto va fatta insieme all’attualità e all’educazione civica, rispondendo alle curiosità e alle richieste dei ragazzi, coinvolgendoli nella discussione. Una storia fatta per educare alla partecipazione politica. Per questo bisogna leggere il giornale, ogni giorno: “politica e cronaca cioè le sofferenze degli altri valgono più di voi e di noi stessi” (p. 27).

Il metodo di lavoro. La scuola di Barbiana è una scuola senza vacanze né ricreazione, in cui tutto il tempo è dedicato allo studio, all’insegnamento e all’apprendimento. Non ci sono cattedra né lavagna, ma solo grandi tavoli intorno a cui ci si riunisce per leggere e discutere. Non ci sono voti, né interrogazioni, né registro. I ragazzi studiano perché vengono coinvolti (chi pensa di copiare viene guardato con scherno); devono “fare delle cose”, cioè realizzare qualcosa a partire dal proprio studio. E tutti sono insegnanti, oltre che allievi: fin dall’inizio i più grandi insegnano ai più piccoli, e imparano così molto di più. Si riprende all’infinito il discorso, ciò che si fa fatica a imparare viene ripreso, ripetuto, rifatto, approfondito: “chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito” (p. 12).

Questi tratti della “scuola egualitaria”, cioè della scuola di Barbiana, difficilmente possono essere riportati tutti in un intero sistema scolastico. Certo, però, due o tre cose che ci sembrano ovvie ci sono invece ancora lontane, nella pratica quotidiana: l’inutilità e il danno delle interrogazioni, per esempio (e anche sui voti ci sarebbe da ridire); il bisogno di far realizzare dei progetti ai ragazzi a partire dallo studio; e l’insegnamento tra pari, relegato solo a situazioni marginali. Anche la strutturazione degli spazi di apprendimento, senza cattedra, ma con grandi tavoli condivisi, va presa in considerazione.

Certo, riprendere all’infinito il discorso in parte l’abbiamo imparato, ma ossessionati dai programmi, e rassicurati, in un certo senso, dalla possibilità di escludere chi non ce la fa, forse non lo facciamo fino in fondo. Perché alla fine il punto fondamentale è sempre quello: le bocciature.

La parte più importante della proposta di Don Milani infatti è quella che rivolge all’intero sistema scolastico, non il modello, difficilmente imitabile, di Barbiana. E questa proposta è molto semplice, molto nota:

Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme.

I – Non bocciare

II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno.

III – Agli svogliati basta dargli uno scopo (p. 80).

Dopo tutto quello che si è visto, il primo punto ormai si giustifica da sé. Ma ricordiamo ancora questo: “Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare” (p. 82). La bocciatura diventa un alibi per rinunciare a insistere nel riprendere e chiarire per i più deboli; il totem del programma da svolgere ci autorizzerà a sacrificare qualcuno. Invece, anche oggi, la sfida è portare tutti in fondo nella scuola dell’obbligo. È una sfida molto più alta, dal momento che l’obbligo è stato portato a sedici anni. Ma è qui che si gioca il carattere veramente inclusivo della nostra scuola. E solo su questo terreno si può contrastare veramente la dispersione scolastica: con una didattica che abbandoni quanto resta di un impianto da “processo penale” (p. 127) e con l’abolizione totale delle bocciature nella scuola dell’obbligo.

Sul secondo punto anche abbiamo detto: il tempo scuola va allungato, ancora. Il tempo pieno va esteso dove adesso non arriva. E anche nella secondaria le attività didattiche devono occupare più tempo. La stessa durata e scansione dell’anno scolastico andrebbe ripensata.

Quanto agli scopi dell’insegnamento, l’ultimo punto. Abbiamo visto che Don Milani ha una visione etica molto forte: l’unico fine onesto e grande della vita umana è “servire il prossimo”, con la politica, o con il sindacato, o con la scuola (p. 94). Altri fini – la realizzazione personale, la carriera, i diritti individuali ecc. – non sono contemplati. Questo però è il fine ultimo. Il fine immediato è “intendere gli altri e farsi intendere” (p. 94). Quindi, come abbiamo visto, apprendere l’italiano e le lingue. Nelle lingue entrano le parole delle discipline: “Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare” (p. 95). Questo è lo scopo che dobbiamo dare agli svogliati.

Questa visione così alta e così unilaterale dei fini della propria formazione non può essere importata in un intero sistema scolastico di una società altamente differenziata e pluralista. Non è questo il terreno su cui Don Milani può essere seguito, a meno di proporre una forte eticizzazione dell’insegnamento, che dovrebbe mirare a formare solo coscienze morali altruiste, dedite al bene degli altri. La scuola deve comprendere in sé diversi fini: la formazione culturale della persona, la consapevolezza dei diritti di cittadinanza, lo sviluppo di una coscienza politica partecipativa, ma anche lo sviluppo di competenze che possano garantire una realizzazione professionale, una collocazione adeguata nel mondo del lavoro. La contrapposizione tra queste esigenze economiche e di equità sociale, da una parte, e le esigenze di sviluppo della persona e della coscienza civica, dall’altra, è un errore. Non si può pensare che lo sviluppo del lato più “etico” e “culturale” della persona basti poi a dargli la sua collocazione sociale dignitosa, perché questa dipende anche da competenze specifiche, che a un certo momento del processo formativo vanno sviluppate. Ecco perché è inaccettabile il rifiuto delle scienze e la riduzione della matematica, operate da Don Milani. Inoltre, anche lo sviluppo di una attitudine culturale per se stessa, cioè la ricerca della formazione culturale (in ogni ambito: non solo umanistico, ma anche scientifico) per il suo proprio valore, non può cadere sotto la tagliola del moralismo, come accade in Don Milani. Le ragioni sono tante, ma mi limito a questa famosa citazione da Wilhelm von Humboldt messa da John Stuart Mill a epigrafe del suo On Liberty: “Il più grande principio guida verso cui convergono tutte le argomentazioni presentate in queste pagine è l’importanza assoluta, fondamentale, dello sviluppo umano nella sua più ricca varietà”.

Resta la validità dell’intuizione: per motivare gli “svogliati” bisogna dargli un fine. La didattica non deve essere una rappresentazione (le lezioni del professore), più o meno noiosa, seguita da un processo (interrogazioni e verifiche). Deve essere un progetto di cui l’allievo stesso è responsabile: qualcosa che gli si chiede di fare, di portare in fondo, perché in qualche modo ci crede. E ci crederà se è qualcosa che muove i suoi interessi, e se fa parte di un suo progetto più generale di realizzazione personale. Quindi, nella scuola secondaria, il terreno su cui intervenire è quello della opzionalità del curriculum, che superi la rigida omogeneità di un percorso uguale per tutti.

Firenze, 25 giugno 2017

 

[Immagine: Don Milani].

 

16 thoughts on “Ciò che è vivo e ciò che è morto della scuola di Don Milani

  1. DON LORENZO MILANI E IL BUNGA-BUNGA PEDAGOGICO. UN OMAGGIO A GIORGIO PECORINI ….. *

    Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?

    di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)

    «Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.

    Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella “Lettera” di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».

    Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».

    L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».

    Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».

    E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?

    Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».

    Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola – spiega Milani nella “Lettera ai giudici” – siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».

    E Rodari, recensendo “Lettera a una professoressa” quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».

    Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!

    * http://www.lavocedifiore.org/SPIP//forum.php3?id_article=3300&id_forum=563657

    Federico La Sala

  2. Trovo nel tuo discorso, Piras, molte cose giuste, seppure a partire da quello che credo essere un difetto di fondo. Il difetto di fondo compiuto da Milani è quello di volere, e di credere, che la scuola possa essere egualitaria, e che l’uguaglianza sia un fine (quasi un rimedio alle differenze di classe). L’uguaglianza è impossibile, sia perché sono diverse le persone, e sia perché nel momento in cui scegli di insegnare qualcosa, qualsiasi cosa, ci sarà sempre una differenza di apprendimento, così come una differenza di insegnamento, dato che differenti sono pure gli insegnanti. Se può avere senso il criterio di “persi alla scuola”, non lo ha certamenti il “persi alla classe”. Da ciò se ne dovrebbe dedurne che il problema sono anzitutto le classi, e a seguire le bocciature. Come ho già scritto da queste parti le bocciature sono inutili, non ingiuste. Ma è insensata pure la scansione per anni per tutte le materie. Per quanto riguarda le bocciature bisogna chiarire un punto: non è la bocciatura che determina il risultato del percorso scolastico, perché tu puoi benissimo non bocciare nessuno, senza che questo determini un effettivo migliore apprendimento dei ragazzi. Da questo punto di vista che il ragazzo abbia trascorso più o meno tempo a scuola cambia poco. E di questo bisogna prenderne atto. Ma se la scuola è un servizio allora è giusto e sensato che ognuno ne possa godere a pieno. Quello che può fare la scuola è migliorare la sua offerta. Da questo punto di vista la cosa migliore è una scuola aperta fino alla sera, con corsi di base al mattino sui fondamentali, e corsi vari al pomeriggio. Niente alternanza scuola-lavoro, questa è una vera sciocchezza. La formazione la devono fare le aziende (ci sono aziende che preferiscono prendere un ragazzo dopo il diploma e fare la loro formazione scientifica al posto dell’università) finita la scuola dell’obbligo, dopo i 18 anni, con un anno di corsi finanziato dallo Stato in qualsiasi azienda. Il conseguimento del diploma per tutti sarebbe anche utile al fine di valutare la scuola. Avremmo un diploma fatto dalla valutazione di tutti gli insegnati che hanno avuto a che fare con lo studente, e dei certificati di valutazione per le materie scelte dallo studente basati, questi sì, su dei test standard effettuati ogni anno. Non devono essere gli insegnanti a valutare il ragazzo, deve esserci un metodo obiettivo e scientifico. Esempio: test di inglese. Il ragazzo entra in una stanza e gli viene sottoposto un telegiornale. In questo modo il voto diviene la testimonianza di quello che lo studente sa effettivamente fare, da solo, e non un fine per togliersi il problema. Così si può tracciare il livello medio di ogni scuola e dopo tot anni di tempo capire se è il caso di continuare con questo sistema oppure no.

  3. Ottimo articolo, Mauro, che raggiunge in pieno il bisogno di non demonizzare né divinizzare un educatore legato alla storia della nostra scuola che ha ancora qualcosa da dirci per farci domande e dare risposte e soluzioni (non necessariamente le stesse di Don Milani) per la scuola di oggi. La scuola media in effetti è il vero punto più debole del sistema, a mio parere non solo perché non possiede il tempo pieno e ha una rigida divisione in discipline ma per il fatto che la preparazione dei docenti è inadeguata, dato che nelle loro lauree e corsi di abilitazione gran parte del tempo è dedicato a temi in pratica inesistenti nelle scuole medie come filologia provenzale o chimica dei metamateriali mentre pochissimo tempo è dedicato a pedagogia, didattica e psicologia degli adolescenti e soprattutto a un tirocinio già durante l’università e non dopo.

    Una cosa che si nota ancora oggi nella scuola media è anche un insegnamento delle materie slegato troppo dalla realtà che viene per questo trovato difficile dagli studenti, che porta ad esempio ad alcuni in matematica a non capire la differenza tra 3 elevato alla 2 e 2 elevato alla 3. Ricordo a un corso di pedagogia che ragazzi del Sud America che avevano abbandonato la scuola sapevano benissimo fare calcoli matematici complicati relativi alla loro situazione economica o al loro lavoro di commercianti mentre fallivano nel fare gli stessi calcoli se presentati in formule astratte slegate da possibili significati e applicazioni nella vita reale. Una buona cosa sarebbe anche permettere che l’obbligo dei 16 anni venga assolto anche con un contratto di apprendistato o con un “sistema duale” in cui in parte fai ore di lezione a scuola e in parte fai ore in azienda, si impara non solo sui banchi e sui libri ma anche interagendo con persone e cose.

    Concordo infine anche con la “contrapposizione tra queste esigenze economiche e di equità sociale, da una parte, e le esigenze di sviluppo della persona e della coscienza civica” che è un mantra ripetuto da fin troppi intellettuali, di solito dicendo che “La formazione da dare ad ogni studente deve essere finalizzata a dare a loro una cultura da cittadini consapevoli e non a farli diventare esperti lavoratori specializzati in attività pratiche legate al mondo del mercato”, dove quest’ultimo è visto come demoniaco e disumanizzante.
    Penso che siano ormai evidenti a chiunque abbia esperienza della vita quotidiana i molti ed enormi punti deboli in questa tesi dell’opposizione “cultura – mercato” in quanto se lo scopo della scuola è “formare cittadini consapevoli” occorre comunque notare che 1) L’aspetto del “mercato” e dell’ “economia”, a prescindere se buono o cattivo, è uno dei principali della nostra società e dunque da mettere al centro negli studi se si vuole capire la società e poi migliorarla 2) La nostra repubblica è “fondata sul lavoro” inteso non solo come mezzo per trovare da mangiare e arricchirsi ma anche per accrescere attivamente lo sviluppo sia materiale (senza energia e tecnologia gran parte di noi zapperebbe e sarebbe analfabeta, dunque non è vero che valorizzare questi aspetti “economici” minaccia i saperi umanistici) che morale di tutti noi 3) Una scuola che fa conoscere il mercato e il lavoro non vuol dire che deve prima di tutto insegnare a saper fare la pizza ma vuol dire che prima di tutto fa imparare abilità necessarie per ogni lavoro (leggere, scrivere, far di conto, usare il computer, conoscere le lingue, la società e l’economia…) e solo poi a far imparare lavori specifici. 4) La cultura umanistica oggi, per non diventare dogmatica e fuori dal mondo deve essere non solo teorica ma anche sperimentale, che non coincide con “pratica” e “utilitaristica” ma che vuol dire che si capisce l’uomo e la società interagendo con le persone e non stando soltanto sui libri. Ad esempio il grande successo di McDonald, azienda criticabilissima ma indiscutibilmente protagonista della nostra società, è indiscutibilmente legato a molte abilità in campi umanistici come il saper comunicare con colleghi e clienti, comprendere come ideare pubblicità con messaggi efficaci, conoscere come è la società e come cambiano le loro idee, cose che magari ci sono anche su Dante e Tacito ma se le si conosce solo sui libri non si fa esperienza di esse in prima persona. Dunque perfino chi mira prima di tutto a massimizzare il profitto è costretto a non assolutizzarlo e a dare una notevole importanza alle tematiche umanistiche. Bisognerebbe davvero aprire un discorso a parte sull’incapacità di molti intellettuali italiani di porre correttamente questo tema cruciale del legame tra formazione umana e lavoro.

  4. “ Giovedì 8 marzo 2007 – « Non mi sono mai annoiato così tanto come a scuola », dice Oliviero Toscani. Si vede, dico io. (All’Infedele parlavano della scuola, di don Milani etc.) (Dice che i ragazzi di Barbiana impararono la lingua italiana. Peccato, dico io, che la lingua italiana già allora non c’era più) (Dice che don Milani una volta disse che era andato al varietà, ma poi si scoprì che era andato al Duomo. Dice che diceva: « Vedessi che colori… i rossi… i viola… ». Dice che voleva fare il pittore) “.

  5. Ho saputo che Valentina Oldano, 35 anni, maestra e ricercatrice, curatrice dell’edizione critica della “Lettera” nei Meridiani, è morta ieri all’improvviso. Non la conoscevo, ma la voglio ricordare qui.

  6. Ottimo articolo che mi trovo a leggere al termine di una giornata di correzioni dell’Esame di Stato che mi ha sfinito. Alla fine, sul piatto rimangono una serie di questioni che vanno ben oltre Don Milani.

    Sul tempo della scuola: è vero che la mancanza di tempo pieno a elementari e medie, al Sud, è un problema. E’ lo specchio di una società, quella meridionale, che ancora vede come del tutto occasionale, o quasi, l’occupazione femminile, anche in ragione della cura dei figli. E’ bensì vero che al Sud è difficile trovare lavoro, per cui per molte famiglie quella della moglie/madre casalinga finisce per non essere una scelta…però questo non impedirebbe di iscrivere i figli al tempo prolungato.

    Detto questo, mi sembra di ricordare, ma in questo momento non ho davvero la forza di cercare dati, che la scuola italiana, almeno alle superiori, viva lo strano paradosso di essere piuttosto in basso nelle rilevazioni OCSE-PISA, ma in posizione altissima per monte ore annuale e quantità di compiti a casa. Il che è davvero disarmante. Però ribadisco: vado a memoria, e in molti Paesi (sicuramente UK) l’idea che il pomeriggio si stia a scuola è un fatto naturale e normale.

    La docimologia nella scuola è davvero ancora primitiva. Nonostante tutto, siamo ancora ad interrogazioni e compitini. Il paradosso qui è che in teoria i docenti potrebbero fare davvero quel che vogliono, perché la legislazione non pone limiti a quel che un docente può valutare (prove pratiche, scritte, orali, autentiche, mix di tutte le precedenti e anche i compiti a casa e qualsiasi altra cosa si possa far venire in mente, solo che tutta la sovrastruttura fatta di medie, crediti e scansioni tri-quadri-pentamestrali ammazza ogni progettualità di largo respiro. Un carrozzone di regole e burocrazia il cui senso è costringere gli studenti a studiare, ma che ottiene soltanto di generare negli studenti comportamenti opportunistici. Un esempio? Se uno studente, agli orali, ha preso due 8, eviterà come la peste ulteriori verifiche, per la paura di prendere meno e rovinarsi la media. E sfido chiunque a dire che gli studenti non ragionano così, anche i migliori. Ragionano così e hanno pure ragione.

    Infine: il Consiglio di Classe e i suoi scrutini sono un altro buco nero metodologico, sia in chiave docimologica, sia educativa, ed è una cosa che dovremmo cominciare a “contestare” di più (anche se non è nulla di nuovo nemmeno questo). La nostra scuola deprime l’individualità nel branco della classe. In primo luogo, sono ancora molto comuni le “punizioni di classe”, che sono l’equivalente scolastico di una barbarie giuridica. In secondo, i docenti, e i consigli di classe, considerano la classe come la loro controparte, e la considerano come un’entità realmente esistente: la classe ha un andamento, può essere buona o cattiva, si comporta in un certo modo, mostra maturità oppure no, ecc. E ovviamente i voti sono “tarati” sulla classe, in una sorta di curiosa valutazione più o meno consapevolmente relativa. Il fatto che la classe sia un raggruppamento puramente pratico e burocratico non sembra colpire più di tanto noi professori, eppure a fare prove di ammissioni all’università, a presentarsi ai concorsi e ai colloqui di lavoro ci andranno gli individui, non le classi.

    Ancora peggio, quando si tratta alla fine di elaborare medie e crediti, la confusione arriva al massimo. Se si è tolto qualcosa in italiano, si controbilancerà con qualcosa in matematica, tanto per fare un esempio. Peggio ancora, se la valutazione di un docente non piace al consiglio, il voto viene messo “a maggioranza”, il che viene a significare che la valutazione del lavoro svolto, che so, in chimica, viene messo “ex-imperio” dai professori di italiano, storia, filosofia ed educazione fisica. Che senso ha? Nessuno, si tratta semplicemente di incrostazioni burocratiche cui siamo troppo assuefatti per vederne l’assurdità.

    Questo sembra portarci lontano da Don Milani, ma nemmeno troppo: la nostra pigrizia burocratica si scarica tutta sugli studenti, oggi come al tempo di Don Milani, ed è questa la parte più importante della sua denuncia. E in questo, in senso generale, è ancora attuale.

  7. Mi scuso con Piras e con tutti se – senza aggiunte per mancanza di tempo – invado la zona dei commenti con il rinvio a un mio pezzo: una parte riguarda Don Milani, Mastrocola e Rodari, e quindi penso possa contribuire alla discussione.
    http://www.leparoleelecose.it/?p=21905

  8. Caro FF vs PPP,
    essere egualitari non vuol dire “rendere le persone eguali”, né “trattare egualmente” le persone, ma trattarle “da eguali”. Non è un fine, ma un imperativo normativo: il dovere di rispettare in tutti la stessa dignità di persona. Se si fa questo, si rispettano le diversità, proprio per trattare da eguali. Una scuola egualitaria, quindi, non è una scuola in cui tutti fanno le stesse cose (quella è invece la scuola selettiva), ma è una scuola in cui non si discriminano in più deboli.
    “Persi alla classe” è un concetto creato da Don Milani sulla simulazione della classe, che però riproduce in piccolo la situazione di TUTTA la scuola. Quindi in realtà vuol dire: tutti quelli che non concludono regolarmente il ciclo. E’ un concetto più ampio di dispersione, lo stesso che usano Checchi e Tuttoscuola. Secondo me è più utile dell’altro.
    Le bocciature sono inutili, perché non migliorano la formazione dei ragazzi, e dannose, perché sono un costo per le famiglie e la società; ma sono anche ingiuste, perché colpiscono prevalentemente le classi sociali più deboli (anche adesso) e perché generano mancanza di autostima e discriminazione.
    Sulle idee generali che proponi sono d’accordo, nel fondo sono le stesse proposte fatte nel testo.

    Caro Michele,
    grazie, concordo con le tue osservazioni.
    Solo una precisazione: già ora l’obbligo può essere assolto sia con l’apprendistato che con i corsi (regionali) di Istruzione e Formazione Professionale (la vecchia Formazione professionale). Però attualmente questa è una forma di supplenza a un biennio delle superiori che non è capace di portare tutti alla fine dell’obbligo. Io invece vorrei che fosse capace.

    Caro Francesco,
    grazie.
    Sul tempo scuola: il problema è che il nostro tempo scuola è suddiviso in modo irrazionale (ci sono lunghi mesi di lavoro e lunghe interruzioni); inoltre, almeno in una parte della secondaria, non sarebbe male un tempo scuola in cui si lavora a scuola, bene, anche il pomeriggio, e non si danno tutti questi compiti a casa: la differenza con gli altri paesi, anche nei risultati, è qui.
    Sulla valutazione concordo del tutto: in teoria possiamo sperimentare, in pratica siamo inchiodati da ciò che la burocrazia ammette come voto finale. Però si può fare molto valutando il lavoro che i ragazzi fanno in classe, sistematicamente.
    D’accordo su consiglio di classe e gruppo classe: questo andrebbe abolito, credo.
    Idem sul “mercato delle vacche” che spesso si fa in scrutinio. In fondo, il problema è proprio uscire da questa valutazione tutta burocratica.
    E non si esce da Don Milani, parlando di queste cose.

    Cara Clotilde Bertoni,
    grazie per il contributo, l’avevo apprezzato a suo tempo. In effetti mentre scrivevo questo intervento su Don Milani pensavo spesso a Calogero, dicendomi: da cinquanta-sessant’anni, su alcuni fondamentali, non cambia niente. E pensavo soprattutto all’interrogazione.
    Chi condanna il “lassismo” della nostra scuola (Mastrocola ecc.) e chi rimpiange l’epoca in cui nella scuola autoritaria si diventava maturi più in fretta (Canfora ecc.) continua a dimenticare che la grande differenza tra oggi e ieri è la scuola di massa, che adesso è realtà. In questa scuola, quella struttura rimane selettiva e anti-egualitaria.

    Caro Ennio Abate,
    grazie per il contributo. Non mi trovo in queste analisi così complicate, non ci arrivo. Ma dico solo che va presa molto sul serio, secondo me, la decisione morale di Don Milani: la rinuncia al privilegio della sua classe sociale, per condividerne la ricchezza con i più poveri. Non limitandosi a essere povero, ma dedicando tutto il proprio tempo ai poveri. Questa è la differenza tra chi questa cosa la vive e chi la considera il presupposto di una posizione intellettuale di critica radicale. Giusta, necessaria, ma solo intellettuale.

  9. “ Lunedì 1 dicembre 1997 – Naturalmente non ho ancora visto il film televisivo in due puntate su Don Milani, ma, dalle poche scene di anticipazione – per esempio quella in cui Don Milani dice alla maestra: « “ Riposo “… “ Attenti “… mi tolga una curiosità: ma lei è un sergente maggiore o una maestra? », – ho già capito che il film tv ha fin dall’inizio, come tutti i film, qualcosa – di « pre-concetto », « pre-meditato », « pre-cotto » – da dimostrare. « Che il parroco di Barbiana era antiautoritario? » No, che faceva ridere. (Naturalmente è un « ridere » nel senso cinematografico, scenico, drammaturgico del termine) “.

  10. Caro Mauro, grazie della risposta,

    in effetti è vero che l’obbligo può essere assolto sia con l’apprendistato che con la Formazione Professionale solo che appunto quest’obbligo viene pensato come “ospedale” per chi non riesce a fare i tecnici e i professionali, che effettivamente, oltre al fatto che ad essi vengono indirizzati non i ragazzi più inclinati a materie tecniche ma i ragazzi genericamente “meno bravi in tutto”, sono scuole che hanno un orario estremamente penalizzante: gran parte degli istituti professionali ha al biennio ben 32 ore e ben 13 materie, di cui solo 3 di indirizzo, il liceo classico al biennio invece ha 27 ore e 9 materie, di cui 6 umanistiche, si capisce chiaramente perché tanti ragazzi degli istituti professionali non li finiscono…

    Poi secondo me si dovrebbe aprire il lungo discorso del valore legale del titolo di studio, sempre più una “scatola vuota”, oggi l’esame di maturità non misura nulla, come dimostra il fatto che al mondo del lavoro e alle università con numero chiuso non importa nulla da quale scuola vieni e con che punteggio… A questo punto, se non si vuole rendere l’esame di maturità davvero serio (del tipo soli commissari esterni, già all’inizio dell’anno si anticipano rose di tre o quattro argomenti dalle quali verranno scelti quelli degli scritti di prima e seconda prova, terza prova scritta decisa dal ministero e uguale per tutte le scuole dello stesso tipo e infine orale limitato alle sole materie linguistiche e a chiarimenti delle prove scritte) lo si abolisca e si lasci alle università e alle aziende di avere il compito di accertare se i ragazzi hanno le competenze e conoscenze che prima dovevano essere dimostrate con il diploma…

    A Francesco Rocchi:

    penso che tu ti riferivi alla seguente indagine:

    http://www.corriere.it/scuola/secondaria/cards/ocse-pisa-2015-italia-palo-scienze-lettura-ma-migliora-matematica/singapore-top-scienze-italia-penultima-alla-grecia_principale_preview.shtml?reason=unauthenticated&cat=1&cid=0yWpyWTQ&pids=FR&origin=http%3A%2F%2Fwww.corriere.it%2Fscuola%2Fsecondaria%2Fcards%2Focse-pisa-2015-italia-palo-scienze-lettura-ma-migliora-matematica%2Fsingapore-top-scienze-italia-penultima-alla-grecia_principale.shtml

    “Gli studenti italiani di seconda superiore sono staccati di parecchie leghe da inglesi, tedeschi e francesi, sorpassati da spagnoli e portoghesi: solo la Grecia ci salva dall’umiliazione della maglia nera. E le beffa è che studiamo molto più degli altri: 50 ore in media (fra scuola e soprattutto compiti a casa quando non ripetizioni private) contro le 36 ore dei finlandesi dei miracoli e le 41 degli sgobboni giapponesi. E nonostante ciò andiamo molto peggio degli altri.”

    La conferma che la scuola media è l’anello debole del sistema scuola si può leggere qui:

    http://www.corriere.it/scuola/speciali/2013/scuola-media/notizie/anello-debole-scuola-italiana-5702aef8-4791-11e3-b84c-522fdc351fd5.shtml

    “E dire che alle elementari partiamo alla grande. Basta guardare i risultati dell’indagine PIRLS 2011 sulle capacità di lettura dei bambini di 10 anni. In base a questa rilevazione, gli alunni italiani raggiungono un punteggio medio di 541, staccando nettamente i coetanei spagnoli (513) e francesi (520), a parimerito con i tedeschi . Se si confrontano questi risultati con quelli dell’ultimo test Pisa sulle competenze dei quindicenni nei Paesi Ocse si vede come, sul fronte della cosiddetta «literacy» (ovvero le competenze linguistiche), i nostri ragazzi nel giro di pochi anni perdano molte posizioni, finendo sotto la media Ocse (486 contro 493 punti), facendosi largamente sorpassare dai colleghi inglesi (494), francesi (496), tedeschi (497): indietro restano solo gli spagnoli (481), mentre a distanze siderali svettano i «soliti primi della classe»: asiatici e Paesi del Nord Europa (sul podio, Cina, Corea e Finlandia, rispettivamente a quota 556, 539 e 536).”

    Ciao.

  11. Morti: la borghesia, la professoressa borghese, gli studenti che hanno il dialetto come prima lingua, il fanatismo grammaticale, Annibal Caro, le bocciature, la selezione, l’Italia, il fine ultimo (quale che sia)

    Vivi: il cattocomunismo, il buonismo, il pasolinismo, gli ultimi (stavolta stranieri) che devono essere i primi, i ricchi col lieto fine, i poveri col fine mesto, la polemica per gli insegnanti che lavorano poco.

    Dispersi: la scuola

  12. Ottimo articolo Piras. Condivido soprattutto la costruzione di senso, che il nostro sistema educativo dovrebbe dare: costruire Sovranità. Credo che questo sia il valore del patto di compartecipazione tra cittadini e istrituzioni/cittadini e potere, il senso democratico del vivere sociale. Sono un’insegnante di diritto e mi rendo conto che la “cenerentola” delle discipline è proprio la conoscenza scentifica del sistema giuridico.
    Credo che il principio di eguaglianza che tanto preoccupa gli amanti della distinzione è il principio che ci valorizza nelle differenze. E’ vero che esiste una distanza troppo ampia tra visione, lettura e partecipazione al reale rispetto alle tematiche scolastiche. Vivo sulla mia pelle tale distanza e sento con infinita tristezza ripetersi il meccanismo della noia che per i ricchi, è metabolizzato dai tanti rinforzi che il sistema famiglia a loro concede e per i poveri è semplicemente necessità di fuggire.Purtroppo Noi docenti siamo strettamente concentrati e proiettati ai programmi, alle veriferifiche di questi e al perpetuarsi dell’astrazione della conoscenza.E’ vero che la distanza sociale dei ragazzi di Barbiana con l’ attuale quadro storico è evidente e ci poniamo in contesti molto diversi. Da un mondo industriale che iniziava la propria ascesa all’attuale scenario postindustriale dove i valori formativi dettati dal Preambolo della nostra Costituzione come: il lavoro, la solidarietà, uguaglianza sembrano distanti perchè non elaborati ma molto presenti nelle contraddizioni attuali appannati dalla voluttà materiale delle cose. Credo che la riflessione sul- come fare scuola- e- a chi dare questo diritto- non possa esimersi dal contesto dei principi Universali del diritto come protezione e riconoscimento delle persone anche in un contesto di massa. Anzi, la democrazia è un contesto di massa ma partecipato quindi ragionato capace di scegliere, selezionare, capire. Quindi credo che molte cose che Don Milani e la sua scuola ci hanno lasciato debbano essere considerate perchè, se sono state applicate in alcuni contesti come quelli professionali non è mai stato fatto nelle modalità profondamente innovative che la scuola di Barbiana indica. Alla scuola è sempre stato tolto e quasi mai dato.

  13. Caro prof. Piras,

    Commento questo articolo con una luce forse un po’ diversa dai precedenti, avendo io sperimentato direttamente le sue idee sull’insegnamento.
    Mi lasci dire, innanzitutto, che in questo articolo rivedo alcune peculiarità della sua metodologia didattica, evidenti al tempo del Liceo: poche lezioni frontali (spesso solo per presentare l’argomento), molte presentazioni svolte dagli studenti, pochissime interrogazioni orali “vecchio stampo”, se mi si concede l’espressione. In generale, quindi, rispetto ad altre materie, si dava molto meno peso al voto finale e, in qualche modo, alla verifica diretta di quanto lo studente ricordasse: infatti si toccavano moltissimi argomenti e solo alcuni erano oggetto di valutazione.
    Come le ho già ripetuto più volte, e mi sembra il caso di rimarcarlo in questa sede, serbo un ottimo ricordo di quelle attività, soprattutto di quelle complementari: cito, per esempio, le lezioni dedicate al commento dei giornali (forse le più vicine a “Educazione civica” che io ricordi) o i seminari di Filosofia Politica, che mi fecero davvero tentennare riguardo la mia scelta universitaria e che realmente mi dispiace siano terminati.
    Tuttavia, nutro qualche perplessità sul passaggio a questo modello (o ad altri molto più estremi, come quello di Barbiana):

    1) In primo luogo, a mio parere, non richiederebbe un cambiamento solo della mentalità degli insegnanti, bensì uno stravolgimento della struttura stessa, a partire dalle elementari; altrimenti ci sarebbe il rischio che gli studenti, affetti dalla paranoia (che condivido, peraltro) dei voti fin dai primi anni di scuola, non riescano a passare a un metodo diverso, pensando a tali materie solo come “più facili”, perché con meno verifiche e meno pressione, con conseguente calo dell’impegno.
    2) Personalmente, trovo che la scuola attuale insegni un valore fondamentale: a volte è necessario fare delle cose controvoglia, anche se si pensa non abbiano utilità. Lo trovo un insegnamento essenziale, nel lavoro/università come nella vita. Un modello diverso, slegato dall’obbligatorietà, lo porterebbe allo stesso modo?
    3) Parlando del passaggio all’università, in cui naturalmente la verifica dell’apprendimento è essenziale, non crede che sarebbe un cambiamento troppo deciso?
    4) Alla fine lei parla di opzionalità del curriculum. Non crede che 14 anni siano pochi per capire cosa si vuol fare realmente? Se io avessi dovuto scegliere a quell’età, avrei preso delle decisioni del tutto diverse.

    Mi scuso per la prolissità.

    Filippo Ascolani

  14. @ Filippo Ascolani,

    io non ho assistito direttamente a lezioni in classe di Mauro Piras però quando dici che alle sue lezioni “rispetto ad altre materie, si dava molto meno peso al voto finale e, in qualche modo, alla verifica diretta di quanto lo studente ricordasse” questo si può ben giustificare per il fatto che nella scuola non di massa e pre-nuove tecnologie aveva senso una scuola enciclopedica e che privilegiasse il ricordare, (in assenza di computer, di internet, e della possibilità di avere i libri 24 ore su 24) una grande quantità di contenuti perché ad essa accedevano già gli studenti più bravi e che avevano già imparato il metodo per conto loro con le loro capacità innate o famigliari. Oggi invece per imparare il metodo bisogna insegnare alcuni contenuti da ricordare ma più in profondità e meno in estensione. Ad esempio il metodo euclideo dunque lo si imparerà senza pretendere di aver esplorato ogni aspetto della geometria ma imparando alcuni teoremi ma in modo molto più approfondito rispetto a quanto si faceva in passato. Pretendere di studiare moltissimi teoremi invece porta inevitabilmente a studiarli tutti in modo superficiale e senza aver realmente appreso capacità e conoscenze.

    Inoltre oggi è sorto un problema che non esisteva nell’epoca pre-internet e pre-smartphone: adesso si può accedere a un numero enorme di informazioni ma è molto difficile valutare l’attendibilità di ciascuna di essa. Un tempo infatti stampare una pubblicazione come un libro o una rivista era cosa da pochi e dunque quasi sempre solo professionisti seri potevano scrivere articoli lunghi e complessi sull’antica Grecia o sulla chimica, adesso invece qualsiasi persona può scrivere sui siti qualche testo su questi argomenti. Il testo dunque ha perso quel senso di “autorevolezza” “affidabilità” che veniva dato ad esso per il solo fatto di essere stato pubblicato. Da questa situazione attuale consegue il fatto che adesso è molto più importante apprendere un metodo per comprendere quanto sono attendibili certe affermazione piuttosto che apprendere passivamente un enorme numero di esse (che peraltro spesso diventano obsolete nel giro di poco tempo a causa di nuove scoperte e innovazioni tecniche).

    Sono invece in disaccordo nel pensare che sia vero o comunque un bene che “la scuola attuale insegni un valore fondamentale: a volte è necessario fare delle cose controvoglia, anche se si pensa non abbiano utilità”, in quanto compito di un docente è anche e soprattutto insegnare l’amore per la propria materia e il valore positivo che essa ha (che è certo diverso dall’ “utilità” nel senso che tale materia fa guadagnare o mangiare, si veda comunque per il discorso “cultura – mercato” il mio commento più sopra) ma il vero problema è che spesso questo discorso lo si fa per avere la scusa di insegnare con un metodo perfino dannoso per una reale formazione di un ragazzo che possa diventare un cittadino autonomo e consapevole.

    In quanto al passaggio all’università dove la “verifica dell’apprendimento è essenziale” secondo me lì non c’è nessun problema di un “cambiamento troppo deciso” perché in tal caso il ragazzo sceglie lui di sua spontanea volontà di apprendere quello specifico campo del sapere. Infine sono d’accordo anch’io che ” 14 anni siano pochi per capire cosa si vuol fare realmente” e servirebbe dunque un biennio successivo alle scuole medie che tenda ad essere più unitario e tenda ad avere più materie in comune tra i vari indirizzi permettendo più facilmente di passare da un indirizzo all’altro.

  15. @ Filippo Ascolani. Se il Prof. Piras e il sottoscritto, da liceali, avessimo potuto fruire delle “peculiarità” didattiche che Lei descrive, da serbarne persino “un ottimo ricordo “, è molto probabile che, una volta conseguita la Maturità, alla prova di ammissione alla Scuola Normale Superiore di Pisa ci avrebbero sbattuti fuori entrambi. Ma eravamo stati preparati con gli orribili vecchi metodi, ed entrambi entrammo in gloria. Ed è per questo, per esser stati costretti ad assorbire l’ignoto sui fetidi banchi secondaria superiore, di cui difficilmente serberemo “un ottimo ricordo”, che possiamo invece serbare (credo proprio anche il collega Piras) un ricordo fantastico, romanzesco, cinematografico degli anni e dei decenni che seguirono. Tanto da sentirci pronti, ora, per il ruolo di Riformatore del Mondo. Ciò detto, Что делать? Si potrebbe fare così. Col consenso di Piras, io mi sceglierei il ruolo del Weltverbesserer di Thomas Bernhard (1978), e lascerei a lui il Weltverbesserer di Hermann Hesse (1906). Ma si può fare anche l’inverso, se preferisce, oppure a serate alterne, no problem, tanto finiscono male entrambi. Faremmo comunque dono di un ottimo ricordo ai nostri spettatori.

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