di Corrado Stajano

[Eredità, il nuovo libro di Corrado Stajano appena uscito per Il Saggiatore, rievoca il fascismo, la guerra e la liberazione, in parte attraverso ricordi d’infanzia, usando la terza persona. Le pagine che seguono sono tratte dal capitolo 25. Rigraziamo l’autore e l’editore per averci concesso di pubblicarle]

La Croce Rossa trasmette alla radio la notizia che il padre del ragazzo è vivo. Non si sapeva nulla di lui da mesi e mesi. Un festoso colonnello dell’Aeronautica, Costante Lazzarini, inviato dallo Stato Maggiore, bussa alla porta di casa per dirlo di persona alla mamma che impallidisce trepida. È salvo.
Catturato dai tedeschi al Brennero dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, internato in una catena di lager, liberato a Berlino dall’Armata Rossa nel maggio 1945, portato in Ucraina da dove ora sta tornando. Un’odissea. L’indomani sarebbe arrivato a Pescantina, un nodo ferroviario vicino a Verona.
Il treno va a singhiozzi, la madre e il ragazzo temono di non arrivare in tempo. I viaggiatori pigiati negli scompartimenti urlano, cantano, parlano in dialetti spesso incomprensibili. Tornano a casa anche loro da chissà dove con grossi fagotti e con valigie di fibra tenute insieme con lo spago. I bambini strillano, le madri li azzittiscono carezzevoli o irate.
Il viaggio è immensamente lungo più per l’ansia che per i chilometri da percorrere. I nomi dei paesi e delle città dove il treno passa sembrano il tran tran di una cantilena, Melzo, Treviglio, Chiari, Ospitaletto, Brescia, in un paesaggio di case e di fabbriche distrutte, tra continue fermate del treno in mezzo alla campagna. E poi il Lago di Garda, Peschiera, Sommacampagna, Lugagnano, Verona, la gioia mescolata alla pena e al timore che nulla sia vero. E di lì, su un altro treno ancora più scassato, Pescantina. Ormai è notte, sotto la pensilina della stazione non c’è nessuno, anche il piazzale lì fuori è vuoto. Il paese dal nome odoroso di pesche appare sinistro. Il ragazzo e sua madre camminano su e giù inquieti lungo i binari. Prende a sonare la campanella che annuncia gli arrivi. Un sussulto quei trilli dal ritmo metallico. Speranza e tremore. Il treno spunta finalmente sul fondo, nero come un’anguilla nera. Sbuffante, le luci accese, vuoto, qualche porta che sbatte. Non c’è neppure un ferroviere. Il ragazzo e la madre si guardano smarriti. Fin quando dall’ultimo vagone che s’intravede appena, unico viaggiatore, scende il padre, in uniforme, irriconoscibile, ischeletrito. L’abbraccio tante volte immaginato. Compare una pattuglia di carabinieri. In macchina a Milano, finzione e realtà si incastrano in quel che dovrebbe essere un normale ritorno a casa.
Il padre parla ininterrottamente per tutta la notte. I lager, il filo spinato della morte, la fame, il freddo, le umiliazioni, la durezza, l’arroganza dei carcerieri nazisti, la loro disumanità, il dolore della lontananza, il non saper nulla, l’impiccagione, per dare un esempio, del padrino di battesimo del ragazzo, un ufficiale sardo, davanti ai prigionieri allineati sul piazzale del campo. Le lusinghe ricattatorie degli emissari fascisti di continuo in visita o, meglio, in ispezione, suadenti, bastava una firma di adesione alla Repubblica di Salò per ritornare subito in patria. I più dissero no. Cavoli e patate e desiderio di vita. La baracca, la dignità perduta, la vergogna, la pietà e il tormento, la paura, i conflitti coi compagni, il naturale egoismo della lotta per la sopravvivenza. Quelli che non ce la fecero, l’urlo ossessivo che rompeva ogni alba, «Wstawać», lugubre sveglia. La liberazione, finalmente, stremati, senza festa. La durezza dei russi nei confronti degli ufficiali italiani due anni prima nemici, invasori.
Poi il viaggio di ritorno su vecchie tradotte, la paura liberata e il pudore, le ferite dell’anima non rimarginate, il corpo ridotto a un telaio di ossa, nel disordine, nella sporcizia, nell’insicurezza del dopo.
Lo stesso itinerario di Primo Levi, lui da Auschwitz, il padre del ragazzo dall’Ucraina, un rosario infinito di nomi, Ovruč, Žmerynka, Iaşi, Ploieşti, Curtici – tra la Moldavia, la Romania, l’Ungheria, l’Austria-Szob, Bratislava, Vienna, Monaco, l’Italia.

[…]

Dopo quella notte d’autunno il padre del ragazzo non parlò mai più del lager. Neppure una parola. Raccontava Primo Levi nella casa di corso Re Umberto a Torino, il luogo della sua morte, indimenticata per chi gli fu amico, che i prigionieri dei lager, soprattutto quelli che si erano salvati dai campi di sterminio, ma anche gli altri, si comportarono nello stesso modo. Lo diceva uno che per fortuna aveva parlato e sfogliava lieto le lettere dei giovani tedeschi, conservate in cartellette colorate, ricevute dopo che in Germania, nel 1961, era stato pubblicato Se questo è un uomo. Da quel libro del grande scrittore italiano molti di loro avevano forse capito che cos’era stato il nazismo.
Pareva che il padre del ragazzo avesse cancellato dalla memoria quegli anni. Anche per sé? Gli altri, pensava forse, non potevano capire neppure alla lontana quel che era accaduto, credere che fosse vero il racconto dei sopravvissuti. Dopo lo sfogo il silenzio, non sereno, sordo. Sarebbe stato giusto far domande? Chiedere? Pungere la memoria riluttante? Forse l’avrebbe desiderato. La guerra, la ritirata di Russia, i lager. Lo impedì nel ragazzo anche la soggezione delle vecchie generazioni nei confronti del padre. Quel vuoto è rimasto nel cuore.
Nei suoi ultimi anni passava le giornate a una finestra sul corso, curioso, come se riscoprisse il mondo. Lo divertiva anche andare a far la spesa al mercato. Tornava con la sporta colma di frutta, di verdura, di carne, di pesce, in gran quantità. Una grazia di Dio da nutrire anche la mensa di un plotone di reclute. L’antica fame doveva fargli brillare gli occhi, nel vociare allegro dei venditori, davanti a quel ghiotto presepio colorato delle bancarelle.

La mamma sorrideva comprensiva.

 

 

[Immagine: Anselm Kiefer, Winterland]

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