di Giorgiomaria Cornelio

Così debbo scegliere le mie parole: forse questo mi terrà distante dallo scrivere capolavori, ma vi sarà più di una possibilità che ciò che batterò a macchina mi sfamerà pubblicandolo piuttosto che bruciandolo. Per quanto riguarda il linguaggio dell’innocente, lo invidio, ma in pochi lo leggerebbero*.

È l’agosto del 2008 quando viene ritrovato il corpo in decomposizione di Tony Duvert, da anni inchiodato all’isolamento della sua abitazione di Thoré-la-Rochette in uno stato di solitudine irreparabile e recidiva, come da superstite della propria letteratura, lui che aveva scritto o forse rivoltato nel suo doppio ‘innocente’: “ho bruciato i miei scritti sulle mattonelle del pavimento di una stanza ben ventilata: sarò ovviamente il primo autore ad essere sfamato dai testi che non pubblica”.

La produzione di Duvert è composta perlopiù di saggi (tra cui Le bon sexe illustré, assalto ai manuali educativi che bandivano l’espressione della sessualità tra minori e celebrazione del carattere infecondo del sesso contro il sacramento biologico e l’impalcatura morale) e di romanzi: dei nove pubblicati Paysage de Fantaisie (1973) gli valse il Prix Médicis, grazie anche all’intervento di Roland Barthes. Poi, alla fine degli anni Ottanta, Duvert si era ritirano in un silenzio inamovibile, quando oramai la nomea di pornografo e pedofilo, di scrittore di chiassosa perversione lo aveva costretto a progettare la propria minuta invisibilità.

L’abiezione che ostinatamente viene imputata a Duvert è, di fatto, uno scarto di irriducibile elementarità: l’aver preteso dalla scrittura nient’altro che lo scrivere. L’aver scritto, piuttosto, senza fare ombra, senza addossare alla pagina il carico torbido di un desiderio mutilato di realtà, come invece avviene nelle opere di mercantile pudicizia (non candore) dove il desiderio si palesa solo per essere immediatamente smistato e abolito, o peggio ancora “risolto”. Duvert ha così organizzato, attraverso la sua opera e a costo della propria certa condanna, una lotta all’industria dell’indistinto, del reticente, dell’opaco.

Anche per questo nei confronti di Duvert l’editoria è inerme, perché legittimarne lo sguardo vorrebbe dire riconoscerne l’esattezza acanonica, favorire una prosa d’inclinazione intransigente (da intendersi anche come attestazione di presenza e di tumulto [risolto, credo ], come espressione di aperta sessualità) piuttosto che continuare a vigilare e a spacciare per letteratura pornografica le numerose nefandezze di furba coloritura erotica – non solo le sfumature sadomaso pubblicate in Italia da Mondadori ma tutta una seria di pallidi romanzi giovanili. Ugualmente la comunità LGBT continua a disattendere con caparbia irruenza un confronto con gli autori che hanno ridefinito la geografia plurale del discorso sulla completezza sessuale: a Duvert è rivolto il medesimo, specioso oscurantismo toccato in Italia a Mario Mieli, filosofo costretto dietro un velario editoriale che perdura dal 2002. O piuttosto ribadito, come sottolineò Èlemire Zolla in suo saggio del 1995 intitolato Incontro con l’Androgino:

L’androgino non desta più allarme. L’ironia e i fischi nei confronti delle creature ‘di sesso indeterminato’ si perdono nel ricordo di un passato che ci stiamo rapidamente lasciando alle spalle. Anzi, il maschio e la femmina totali, senza sfumature, sembreranno forse presto delle anomalie irritanti, una soffocante negazione delle potenzialità latenti. Il modello di una ben temperata androginia aleggia su entrambi i sessi, si propone come il nuovo criterio per entrambi, come l’incarnazione dell’Uomo Cosmico. Il potere che può sanare non è l’arida ragione, bensì la plastica immaginazione, che è la dimora stessa della psiche e non solo una delle sua facoltà. La guarigione non comporta una rigida, rozza scelta binaria, bensì il rilassamento in quello che Cari Gustav Jung avrebbe chiamato un ‘campo sincronico’ (…)

Nel 1976 Duvert pubblica Diario di un innocente, romanzo ambientato in un’immaginaria città (che si presume collocata nel Nord Africa) tutta fatta di di strettoie e limbi urbani dove le famiglie delle classi più indigenti si raggruppano: rabeschi, sottili radiografie di baldoria e di ragioni del corpo attraversati come riverberi di una vicenda autobiografica. Il narratore vi gioca la vita a capofitto, a sussulti: scrittore omosessuale e pedofilo allontanatosi dalla Francia e dal suo felice intontimento capitalistico, ora straniero in una città di cui intuisce il marchio arcaico, trascorre il giorno inseguendo i fanciulli e gli adolescenti della città: con questa gioventù perlopiù disancorata dall’educazione e tutta fatta di picchi e di sgomenti, di umori e di spensierata umidità il narratore gioca, fa l’amore, mangia e dorme nel suo rifugio inesausto di ospiti: qui l’opacità diventa trasparenza, e quasi spariscono le norme consumate che regolano i rapporti di fuori e che concepiscono i figli solo come precedenze spente dei padri che saranno. Per il narratore i ragazzi sono, piuttosto, la misura inversa, quasi stupore e quasi schianto, insomma il piacere fissato nella sua liturgia più sregolata e gioiosa. Ugualmente, per i ragazzi il corpo del narratore diviene un territorio da vigilare e da violentare festosamente, da confrontare col il proprio, lembo per lembo, solco per solco, pur consapevoli della distanza tra l’indigeno e lo straniero, tra il normale e l’invertito, tra colui che fotte e colui che viene fottuto. Il narratore non tollera le sofisticazioni e nel suo vasto, metodologico censimento pornografico (atto di piccoli arresti vitali, di pause dove, sigillato nell’appartamento “come un eremita”, egli progetta il suo romanzo) produce un diario che somiglia talvolta ad un’agiografia e talvolta ad uno schedario o ad un trattato:

Sto pensando all’unico fatto serio. Eserciti di fotografi senza cultura hanno creato ciò che non era mai stato visto su questo pianeta: una gigantesca accademia di tutte le forme delle bellezza e anche della bruttezza, di ogni essere umano di qualunque generazione […]. Troverei divertente se, in pochi secoli, l’unica cosa che i nostri discendenti si degnassero di conservare della nostra produzione artistica, l’unica cosa nella quale loro vedrebbero mondi da ammirare, da penetrare, l’unica cosa da mostrare come preziosa del nostro immenso museo dopo aver tirato lo sciacquone del gabinetto dei nostri capolavori riconosciuti, l’unica cosa che farebbe provare loro nostalgia e amore per noi fosse la nostra pornografia.

A Duvert non è stato perdonato il moto inconclusivo, la continuità di sezioni e di segmenti, cioè il pieno, univoco rifiuto a prendere parte ad una certa letteratura necrotica e puritana, la letteratura della conversione, dell’ammissione di colpa, dell’impegno sacrificale, quindi la letteratura della miglioria, dell’atletica dell’operatore svelto sui propri impulsi: non c’è luogo in questo romanzo dove dirottare lo scandaglio allegorico. C’è, semmai, un testo d’isolata, generosa franchezza, non dissimile dalle figure che il narratore chiede ai suoi ospiti di disegnare: (auto)ritratti come elettrizzata belligeranza alla divisione in parti, alle tavole anatomiche delle scuole dove questo e quell’altro organo seguono e servono la trappola della riproduzione.

L’innocente a cui il titolo del romanzo fa riferimento compare come uno degli ultimi ospiti del narratore, l’unico interessato a scrivere battendo a macchina, tasto per tasto, da sinistra a destra, da un capo all’altro della propria severa, caparbia indisciplina, del proprio disciplinatissimo scompiglio alfabetico, della giungla semantica che mortifica ogni ordine rappreso. E proprio ad un certo punto della narrazione Duvert immagina una società governata dagli invertiti, dove il potere costituito punisce l’eterosessualità piuttosto che l’omosessualità e la pedofilia:

Noi metteremo in guardia i bambini contro l’assurdità del divenire virili e del divenire femminili. Noi diremo quale tipo di degradazione incombe su di loro qualora diventassero etero, che tipo di inferiorità e isolamento. Gli insegneremo come riconoscere i pervertiti e come bloccare le loro avances. A partire dalla prima parola che udiranno fino a quando non saranno divenuti adulti, tutte le conversazioni, i libri, i giocattoli, i film e i cartoni animati, le riviste, i fumetti, i programmi televisivi e le pubblicità incoraggeranno i giovani a divenire omosessuali e a respingere e a detestare l’opposto.
Per quanto riguarda gli adulti, certe volte essi affrontano lo scioccante argomento delle “minoranze sessuali”. Tu devi sapere come parlare di loro. Alcuni con orgoglio ostentano di avere amici etero, ma questa esibizione di tolleranza serve spesso a mascherare la propria perversione. (…) Come risultato, i membri di questa società troveranno difficile scoprire nelle loro menti e nei loro corpi la più minuta traccia del desiderio per il sesso opposto, e saranno all’unanimità convinti che l’omosessualità sia dettata dalla Natura, la Natura dell’umanità. 

Ma in questo caso Duvert confida che, come scrive Bruce Benderson nell’introduzione alla versione inglese del libro, “nessun omosessuale potrebbe mai opprimere un altro gruppo sino al livello d’isolamento e d’esclusione nel quale gli stessi omosessuali sono stati spinti.”

Eppure lui isolato ed escluso lo è stato, e perdura ad esserlo anche dopo morto in quest’epoca d’orgoglio, di familismo e di diritti, l’epoca balorda ed impreparata all’autorevolezza con la quale Duvert, nel proprio paziente, diciamo svelato nascondimento, nella propria limpidissima nudità ha saputo legittimare la presenza del suo sguardo.

* Diario di un innocente. Tutte le citazioni dall’opera sono tradotte dall’autore dell’articolo, prendendo come riferimento l’edizione inglese del testo curata da Bruce Benderson.

 

[Immagine: David Hockney, Swimming Pool]

14 thoughts on “Scrivere senza fare ombra. Pedofilia e innocenza nell’opera di Tony Duvert

  1. “ 17 novembre 1994 – « Disteso nudo come al solito, e preso dalla lettura di un buon libro, mi gratto distrattamente l’ano con un grosso coltello da cucina che gira per il letto. Scorgo sulla punta della lama un filo bianco. L’asciugo e, pungendomi un po’, ne raccolgo altri due che dondolano il capo. Capisco perché mi prudeva il culo, e butto giù un vermifugo. Comprare questa medicina mi dà per un istante l’impressione di essere padre, perché mi chiedono l’età del bambino: mi rattristai al confessare che era solo per me. » (Tony Duvert, Diario di un innocente, 1976) “.

  2. Evidentemente la signora Elena Grammann era qui per il consueto tè di Firbank.

  3. @ Giorgiomaria Cornelio

    So cos’è il tè e so chi è Firbank, ma l’allusione al tè di Firbank mi rimane oscura. Potrei avere una delucidazione? Grazie.

  4. @Elena Grammann

    Io sono ospite regolare ai tè di Firbank, signora, pertanto non si preoccupi. Lascio una postila, a titolo di spensieratezza.

    “(…) quelle signore di Ronald Firbank che arrivate per la prima volta in gita turistica al Partenone vi trovano da ridire perché è privo di tetto, perché è più lungo che largo, perché non ha gabinetto, perché è rotto, perché alcuni marmi sono retti da travi arrugginite, perché in Grecia si mangia male, perché non ci sono alberi intorno e via dicendo (…); con quella infinita grazia, naturalmente.

  5. @Giorgiomaria Cornelio

    Gentile signor Cornelio,

    la sua postilla ha l’aria di una citazione, ma non mi si dice da chi. Continuo a non capire. Dipende dal fatto che effettivamente bevo tè e non caffè? Il tè instupidisce? Sono afflitta da stupidità congenita? Le è sembrato che il mio primo commento fosse offensivo nei confronti di qualcuno o di qualcosa?
    Ho fatto una discreta fatica a leggere il suo articolo vuoi per stupidità indotta da consumo di tè, vuoi perché il suo stile creativo-suggestivo non facilita le cose. L’ho letto perché l’argomento mi interessava. Mi sono informata su Tony Duvert, che non conoscevo affatto, su fonti neutrali o solidali, ritengo che Mario Mieli sia stato (sia) vittima di ingiustizia (per usare un’espressione blanda, ma al momento non me ne viene un’altra).
    Detto questo mi pare che sia buona cosa chiamare le cose con il loro nome, e il diritto dei bambini all’esercizio della sessualità con adulti teorizzato da Duvert (e non solo da lui), nonché questa pratica stessa, in italiano si chiama pedofilia. Se il termine è connotato negativamente non è colpa mia, anzi mi pare il punto (critico) della questione.
    Se ho capito male sia così gentile da spiegarmelo, possibilmente senza ricorrere al Partenone.
    La ringrazio comunque dell’attenzione.

    Elena Grammann

  6. @ Elena Grammann

    Mi pare che la questione della nominazione sia, qui, questione “sentita”. Eppure non mi pare di non essere stato reticente: nell’articolo e nell’opera di Duvert (come da lei indicato) si parla chiaramente di pedofilia.

    Ne “Il buon sesso illustrato”, Duvert è ancora più trasparente, e scrive:

    “La libertà sessuale dei minorenni mi sembra il primo dei problemi politici da porre: qui, e solo qui ,possono essere bloccati e annullati i processi di riproduzione del potere. In materia di sessualità dei minorenni tutti i paesi sfruttatori, capitalisti o comunisti, socialisti o fascisti, hanno la stessa ideologia, che implica il sacrificio familiare dei bambini al soddisfacimento degli sfruttati.”

  7. Caro Cornelio,
    ci sono le signore in gita al Partenone che trovano da ridire per la cornice un po’ deludente, e ci sono gli scrittori in gita letteraria e/o personale nella pedofilia che trovano da ridire, “con quella infinita grazia”, perchè la pedofilia è un reato penale, e perchè i non pedofili – specie se genitori di minori in età appetibile per i pedofili – alla pedofilia letteraria reagiscono con il disagio, alla pedofilia anagrafica con denunce e/o vie di fatto.
    I pedofili (solo i pedofili eterosessuali, purtroppo) possono però fare una gita, ad esempio, in Arabia Saudita, dove nel 2008 è stata respinta una richiesta di annullamento di un matrimonio tra un uomo di 58 anni e una bambina di 8. Attenzione: bisogna convertirsi all’Islam e sposarsi.
    I pedofili etero e omosessuali che si contentano di un limite di consenso legale a 13 anni possono dirigersi in Giappone (attenzione: in alcune prefetture giapponesi l’età legale del consenso è di 18 anni) e in Cambogia.
    I pedofili più avventurosi che non si curano dei codici penali possono andare dove vogliono, e dove li indirizzano le loro disponibilità finanziarie e la loro propensione al rischio. Attenzione che in alcuni paesi è prevista la pena di morte.

  8. Gentile Roberto Buffagni,
    la ringrazio per l’attento excursus geografico sulla (nefanda) attività del turismo sessuale, argomento il quale sembra conoscere più di me.

    Le consiglio però di muoversi altrove, e di leggere Duvert: ne scoprirà, magari, un mondo altro rispetto alle legislazioni del profitto e dello sfruttamento.

    Un saluto

  9. Caro Cornelio,
    le sono riconoscente per il suggerimento di lettura, meno per l’allusione poco simpatica a mie attività turistico-sessuali; un’allusione che depone a favore della sua immaginazione, anche se non della sua buona educazione.
    Comunque, un cordiale saluto anche a lei.

  10. Gentile Roberto Buffagni,

    La mia non voleva essere un’allusione ironica, e mi dispiace se il tono è stato così inteso. Piuttosto, prendevo nota del suo intervento rispetto al quale conosco poco, e che comunque è molto distante dall’opera di Duvert, come certo avrà modo di vedere.

    Ancora cordiali saluti, e grazie per la breve discussione.

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