di Federica Gregoratto

Sono già passati circa dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una delle trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che sta segnando la fase attuale (e terminale?)[1] della società capitalista è la presa di coscienza dei limiti, intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o quantomeno sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”, godere delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.

A destra, si cercano nuove ricette appellandosi a rozzi demagoghi o a nuove ladies di ferro. L’obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che appare sopraggiunto solo di recente: nuove forme di vita e religione arrivate con gli ultimi copiosi flussi migratori, nuove preoccupazioni, per esempio sul futuro del pianeta, cui la scienza ci mette ora di fronte, o nuovi generi sessuali, fluidi, aperti, negoziabili. A sinistra, invece, gli abbozzi di soluzione più interessanti – gli esperimenti di cooperazione di Occupy Wall Street o dei recenti movimenti di lotta contro le nuove destre neoliberali, da Washington a Budapest, da Istanbul a Londra, le forme di solidarietà mediterranea nei confronti di profughi e profughe, le prove con il reddito di base e con la riduzione della giornata lavorativa – non possono fare a meno che appigliarsi teoricamente a certi concetti base formulati molto tempo fa nel solco delle tradizioni socialiste e comuniste. Marx è un, o meglio il riferimento obbligato.

Le jeune Karl Marx (o, in tedesco, Der Junge Karl Marx), diretto dal regista haitiano Raoul Peck e mostrato per la prima volta all’ultima Berlinale, narra la formazione del pensiero marxista negli anni cruciali dal 1842 al 1848 in un modo che, sullo sfondo del contesto appena tratteggiato, acquista una particolare rilevanza. Due scritti sono associati a queste due date, uno sconosciuto ai più, l’altro conosciuto da tutti. Il primo, che il regista sceglie di trasporre nelle immagini dell’ouverture del film, è l’articolo “Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz”, pubblicato nella Reinische Zeitung: in queste pagine, il giovane Marx critica la legge, emanata solo pochi anni prima dal governo prussiano, che condanna la raccolta di legna nelle foreste “private”. Ben cinque sesti delle accuse penali in Prussia interessavano “furti” di questo genere, commessi dai poveri contadini alla disperata ricerca di materiale per riscaldarsi. Il secondo testo, ovviamente, è il Manifesto del Partito comunista, redatto da Marx e Engels con l’intento di mettere nero su bianco le basi del neonato movimento.

Le jeune Karl Marx è un film filosofico e letterario, perché mette in primo piano la produzione teorica dei due padri fondatori del comunismo. Altri sono i testi non semplicemente citati, ma la cui stesura diventa parte integrante del plot: per esempio La Sacra Famiglia (1845), che Marx e Engels avrebbero scritto per sancire la loro nuova amicizia al termine di una notte di eccessi alcolici (e cui Jenny Marx avrebbe dato un titolo molto più ironico e sibillino), o Miseria della filosofia (1947). Proprio la scelta dello scritto iniziale e di quello finale, tuttavia, mostrano che la strategia di Peck non è semplicemente storica, ma piuttosto sistematica. Il primo riferimento pone l’accento sulla tematica della cosiddetta accumulazione primitiva, formulata ancora acerbamente negli anni ’40, facendone una chiave di lettura per l’intero pensiero marxiano. Peck sembra qui raccogliere la tesi di quei critici marxisti, come Rosa Luxembourg, o più recentemente Silvia Federici o David Harvey, secondo i quali la violenta espropriazione da parte del capitale delle risorse condivise collettivamente, come i rami caduti dagli alberi, non stia semplicemente all’origine del capitalismo, ma ne rappresenti la condizione fondamentale e costante di riproduzione. Per quanto riguarda la divulgazione delle idee portanti del comunismo, affidata alle pagine del Manifesto più famoso della storia, è evidente che il regista vuole stabilire una continuità tra il momento storico delle sue origini europee e le lotte più recenti che possono dirsi, in qualche modo, ispirate da questa tradizione.

 La prova più evidente di una tale continuità la si trova nei titoli di coda, in cui le note di Bob Dylan accompagnano una carrellata gioiosa di scene che ritraggono alcuni degli eventi o personaggi simbolo dell’emancipazione socio-politica nel ventesimo secolo: Che Guevara, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, #Occupy. Ma non è tutto. Nel corso del film, altri temi vengono toccati il cui potenziale riflessivo non ha perso affatto di attualità. Due in particolare mi pare importante rilevare: la natura agonistica del movimento, o del partito, e il ruolo della teoria in relazione alla prassi rivoluzionaria.

Il primo punto è probabilmente, se letto in chiave di attualità, il più problematico. Le scene centrali del film sono dedicate alla sofferta mossa politica di Marx e Engels di trasformare la Lega dei Giusti in una decisamente più combattiva, la Lega dei Comunisti. Nel suo discorso durante il congresso di Londra nel giugno 1847, Engels espone gli argomenti in favore della nuova Lega criticando soprattutto il punto di vista astrattamente morale e l’ideologia orientata alla conciliazione universale, all’amore e alla fratellanza che avevano caratterizzato il movimento fino a quel momento. Alla luce di quello che oggi sappiamo sui cosiddetti “socialismi reali”, queste critiche possono apparire problematiche se interpretate semplicemente come rifiuto della morale tout court e giustificazione della violenza. Ma Peck sembra qui piuttosto presentare i propositi di Engels e Marx come il tentativo di fondare la prassi trasformatrice non su astratti punti di vista morali, sull’ideale cristiano della fratellanza o dell’agape, o sulla volontà di raggiungere un’intesa con l’umanità intera. I principi troppo generali e gli ideali non sono infatti in grado di afferrare le condizioni materiali esistenti; le emozioni positive generalizzate, d’altra parte, non possono che tradire un’inefficace ingenuità di fronte alle brutture, nefandezze e sofferenze dell’ordine sociale dato. La conoscenza, innanzitutto empirica, della complessità in cui ci si trova ad agire, l’attenzione strategica per le conseguenze possibili delle azioni, la capacità di sopportare dissenso e incomprensione, la comprensione delle differenze costitutive di un “soggetto” rivoluzionario in trasformazione: queste le caratteristiche necessarie, secondo Peck, per una prassi socio-politica che potremmo anche chiamare, con Dewey, un “comunismo dell’intelligenza.”[2]

   Ma quale il ruolo degli intellettuali – e degli scienziati e dei filosofi – in tutto questo? La posizione di Le jeune Karl Marx rispetto a questa annosa questione è chiara. Nessuna lotta socio-politica può rinunciare all’impegno teorico. Uno dei pregi della pellicola, tra l’altro, è l’accurata ricostruzione delle tre fonti principali del pensiero marxiano: l’idealismo tedesco, la teoria economica inglese e il socialismo francese. Il lavoro teorico non è semplicemente un’emanazione, un prodotto o una funzione secondaria della lotta: una certa autonomia della teoria è necessaria affinché essa possa svolgere il suo compito di fornire indicazioni e immagini più o meno dettagliate che orientino l’azione. Allo stesso tempo, la teoria non può arrogarsi nessuna funziona di guida, non può credere di essere superiore all’azione concreta. In una delle scene chiave e centrali del film, Marx e Engels si devono recare umilmente di fronte ad un comitato di lavoratori e cercare di convincerli che sanno di che cosa stanno parlando. Tutto quello che riescono a farsi concedere, giustamente, è di essere messi alla prova: la validità di un impianto teorico può emergere solo grazie al confronto diretto con la realtà – quella realtà che la teoria stessa vuole trasformare. Anche qui si avverte un’eco del pensiero (socialista) deweyano: se vogliamo una teoria al servizio della prassi trasformatrice, essa non può che porsi come fallibile e pertanto rivedibile. Ecco perché, ci dice Raoul Peck poco prima dei titoli di coda nella schermata riassuntiva delle tappe bi(bli)ografiche successive del suo protagonista, Marx non poteva terminare la sua opera magna: l’evoluzione delle condizioni materiali, sociali, politiche e culturali sollecita allo stesso tempo un’evoluzione della teoria, e a Il Capitale si devono aggiungere sempre nuovi capitoli.

  Nel suo ultimo libro, Axel Honneth si ripromette di rivitalizzare il progetto socialista riprendendone l’idea chiave, quella di “libertà sociale”, ma anche criticando gli errori commessi dai primi socialisti.[3] Tre sono i retaggi, secondo Honneth, da cui il pensiero socialista dovrebbe prendere congedo per riguadagnare attualità, e dunque riuscire a incanalare la rabbia diffusa contro le condizioni di vita presenti: primo, l’idea che il progresso storico verso l’emancipazione, e dunque il superamento del capitalismo, sia un progresso necessario; secondo, la convinzione che l’esistenza di una classe particolare, il proletariato, sia di sé legata a certi interessi socialisti e comunisti;[4] terzo, la fissazione sull’economico e il disinteresse nei confronti di altre due sfere fondamentali per la condizione umana moderna, ovvero quella politica e quella delle relazioni intime, famigliari, di amore e amicizia. Il film di Peck sembra voler contraddire su tutti i punti l’analisi di Honneth.

  Fino ad ora ho cercato in effetti di mostrare come Le jeune Karl Marx rigetti con decisione una visione anacronistica di materialismo storico, facendo della dimensione politica un nodo cruciale della lotta sociale. Come notato in precedenza, il nodo centrale del film, ma anche della formazione di Marx (e Engels), è data dalla sconfitta della corrente moralista all’interno della Lega dei Giusti e la costituzione della Lega Comunista. Uno dei pregi maggiori del film, non emerso fino ad ora, risiede inoltre nell’ampio spazio dedicato alle relazioni intime tra i protagonisti, costitutive per l’attività teorica e politica: il sostegno di Jenny Marx, che va ben oltre il semplice ruolo di moglie devota,[5] la passione di Engels per Mary Burns, che lo spinge a studiare più da vicino le condizioni di lavoro e vita dei lavoratori inglesi, l’affetto, ammirazione e dipendenza reciproca, non scevra di conflitti, tra Marx e Engels, ma anche i complicati sentimenti di Marx per Proudhon, nel film descritto quale mentore che seduce e allo stesso tempo respinge, incoraggia e allo stesso tempo delude. In L’idea di socialismo, e in altre opere, Honneth pensa alla sfera delle relazioni intime come al luogo in cui la libertà sociale – quella forma di libertà di cui gli altri e le altre non sono un limite ma una condizione – si manifesta in modo più immediato e concreto, fornendo in un certo senso un modello da applicare anche altrove. In Le jeune Karl Marx, questa idea è presa sul serio. La vita privata e affettiva di Marx ed Engels non è mostrata come un semplice complemento al, o peggio, come ad un rifugio dalla pubblicità del conflitto intellettuale e politico, ma, al contrario, come al laboratorio in cui idee e strategie vedono la luce, si raffinano e in un certo senso vengono messe alla prova. Il privato non è ridotto immediatamente al politico, ma i due sono intrecciati: non solo le condizioni sociali ed economiche e l’impegno politico influenzano e limitano la sfera affettiva; allo stesso tempo, quest’ultima nutre, mantiene vive, incanala le energie e le forze, sia intellettuali che emotive, che si dispiegano nella lotta. L’accento sul ruolo costitutivo delle relazioni intime non significa però, daccapo, riabilitare un’ideale di amore/amicizia improntato all’armonia, o vincolato a certe istituzioni. In una delle ultime scene, la lavoratrice Mary spiega a Jenny von Westphalen che la libertà, anche quella individuale, è per lei la condizione per continuare a lottare. Per questo non può che rifiutare gli agi, anche economici, che una relazione ufficializzata e socialmente riconosciuta con Engels potrebbe concederle. Così facendo, non solo non si lascia ingabbiare dal ruolo di madre, ma neppure dal modello romantico tradizionale.[6] Così come Marx aveva dichiarato, in faccia al borghese che giustificava il lavoro minorile, “quello che voi chiamate profitto, io lo chiamo sfruttamento”, Mary potrebbe ora dire, prendendo a prestito le parole di Silvia Federici: “loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.”[7]

Note

[1] Secondo Wolfgang Streeck si tratta per l’appunto di una fase terminale: cfr. il suo “How Will Capitalism End?”, New Left Review 87, May-June 2014, pp. 35-64.

[2] Cfr. J. Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), a cura di F. Gregoratto, trad. di C. Piroddi, Rosenberg & Sellier, Torino 2017.

[3] A. Honneth, L’idea di socialismo, trad. di M. Solinas, Feltrinelli, Milano 2016.

[4] La premessa di un legame intimo e necessario tra classe proletaria – che designa quel gruppo di persone che dipendono dal loro lavoro per vivere, e che dunque sono estremamente vulnerabili al potere di coloro che controllano le condizioni di lavoro – e interesse al superamento del sistema capitalistico viene messa efficacemente in discussione anche nel libro di Didier Eribon Ritorno a Reims, in uscita per Bompiani nel 2017.

[5] Il coinvolgimento in prima persona delle donne nella prassi politica in quegli anni era già qualcosa di rivoluzionario, anche tra i socialisti. Sul ruolo di Jenny Marx si veda il bel libro di Mary Gabriel, Love and Capital. Karl and Jenny Marx and the Birth of a Revolution, Back Bay Books, New York/London 2011.

[6] Nel film la posizione di Mary circa questa questione non è posta come necessariamente superiore ad altre alternative. Se la sua scelta di non diventare madre e l’accenno al modello poliamoroso sono esplicitamente presentati come forme di libertà, altrettanto libero è lo stile di vita di Jenny von Westphalen, il cui matrimonio con Marx le ha permesso di rompere con le convenzioni dell’aristocrazia tedesca.

[7] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, a cura di A. Curcio, Ombre Corte, 2014.

 

[Immagine: Raoul Peck, Le jeune Karl Marx].

34 thoughts on “Il giovane Marx: un film

  1. “ Martedì 10 ottobre 2006 – Poi, dopo un po’ accendo di nuovo la tv e c’è « Jenifer Marx ». « É la moglie di Marx? » No, è una scrittrice americana non meglio identificata « E poi ci mancava una “ n”… » Fosse solo per quello… “.

  2. D’accordo sulla testarda impotenza, pure un po’ patetica, delle liberal-social-democrazie davanti al capitalismo. Ma ci andrei giù più cauto a parlare anche solo in forma interrogativa di fase terminale del capitalismo. Mio nipote di cinque anni impazzisce per “Andiamo a comandare” e fa pure la mossetta del video con le braccia e le spalle. Il capitalismo è un perverso polimorfo. Per questo è perfetto per i bambini ed è invincibile.

  3. Proprio più per questo – per il fatto che il capitalismo è un perverso polimorfo – è importante sottilineare un punto dell’articolo: nessuna lotta socio-politica può rinunciare all’impegno teorico. E’ un cosa che evidentemente non si è fatta nella giusta misura in questi ultimi quarant’anni di stradominio incontrastato del più bieco e rapace capitalismo, un po’ per aprioristica rinuncia – specie dopo ’89 – un po’ perché si arrivava da un periodo in cui il marxismo si era ingessato in una sorta di vangelo. E dire che i fondatori parlavano di socialismo scientifico, in cui teoria e prassi vanno a braccetto!
    Ripartire da un impegno teorico con il fine del superamento del capitalismo, verificando l’idea con la realtà, ma avendo ben in mente che la storia la fanno gli uomini e che non esistono “leggi eterne”, né di mercato né di istituzioni politiche: questo va fatto.

  4. “Sono già passati circa dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una delle trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che sta segnando la fase attuale (e terminale?)[1] della società capitalista è la presa di coscienza dei limiti, intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o quantomeno sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”, godere delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.”

    Io vorrei capire perché da queste parti si facciano sempre gli stessi discorsi apocalittici. Tra l’altro è dai tempi di Marx che ciclicamente siamo sempre alla fase terminale del capitalismo.

    1. L’economia mondiale non è in ginocchio, e certamente non l’ha messa in ginocchio la crisi finanziaria di dieci anni fa.
    2. La democrazia social-liberale non è un progetto, né una soluzione a un problema, o alla brama e alla violenza delle classi dominanti, né certamente alla mediazione con il “diverso”, qualunque cosa significhi.
    3. Il capitalismo non è un problema, certamente non è un soggetto con derive autodistruttive, che mi pare un concetto freudiano tirato in ballo senza senso. Se avete letto Jared Diamond, Collasso, avrete visto che ci sono state civiltà che hanno consumato più di quel che il loro territorio consentiva, problema tra l’altro centrale in tutta la storia umana, e guardacaso non erano società capitaliste.

  5. @ Alberto Ferrero

    A parte la difficoltà di una teoria per il superamento del capitalismo, non pensi che il piccolo particolare trascurato da tutti sia cosa ne pensano gli altri?

  6. @ FF vs PPP
    No.
    Tra l’altro sono un po’ di secoli che il capitalismo non si cura molto di “cosa ne pensano gli altri”.

  7. @ FF VS PPP. Solo un’osservazione di metodo. Tu vedi apocalittici semplicemente
    perché alzi sempre la posta del contesto fino a portarla alla generalità più universale. Se io mi lamento di essere mortale, arrivi e dici che sono lagnoso perché è dalla preistoria che l’uomo lo è. Se dico che la modernità ha prodotto un disagio antropologico, tu ricordi che è dall’inizio della modernità che se ne parla. Capisci bene che discutere così è difficile, perché è castrante.

  8. @ Lo Vetere

    Accolgo l’osservazione di metodo, se lo faccio e se rende difficile discutere, oltre al fatto che resto dubbioso su me stesso come contestatore. Però qui, e anche altre volte constesto proprio la mancanza di precisione. Io posso capire che Stephen King descriva così una situazione in un romanzo, ma mi spieghi come si fa a parlare di limiti intrascendibili e di fallimenti irreversibili – di cosa poi? – del progetto social liberale, o della democrazia attuale? E mi spieghi che caspita vuole dire che abbiamo fallito nelle mediazioni col diverso? Perché anche questo è un po’ castrante per discutere.

  9. ” Senza data [1980] – Il capitalismo, un Proteo, dice il comunista. Si è appena tagliato i baffi, la terza volta in un mese. ” [*]
    [*] Io avevo capito che si stava parlando di un film, ma, evidentemente, avevo capito male.

  10. @FF Dovrebbe dirlo l’autrice. Anche io invitavo andarci cauti con i giudizi sovrastorici. Ma comunque che siamo di fronte a una crisi drammatica dentro il mondo occidentale pare difficile da negare.

  11. Paradiso in terra – Lasch

    “Toennies riconosce l’influenza di Marx: con il socialismo, il comunismo, passando per il capitalismo, raggiungerà la forma più alta di interdipendenza funzionale: quella dipendenza di tutti da tutti inerente al processo stesso della specializzazione e della differenziazione, che ha spezzato i legami patriarcali della parentela, e creerà nuove modalità di integrazione, superando le “limitazioni temporali” del nazionalismo”

    Seguono svariate antitesi elencate prima da Toennies e poi da Simmel, in una continua analisi ambivalente secondo Lasch un po’ fiacca circa i pro e i contro del progresso…

    “è meglio soffrire nella moderna società borghese, che con le sue industrie crea gli strumenti materiali per la fondazione di una nuova società che vi renderà liberi, che ritornare a una forma sociale sorpassata che, col pretesto di salvare le classi cui appartenete, getterebbe l’intera nazione nella barbarie del medioevo”

    Scrive Marx nel 1849. Dunque, tutto secondo i piani. Adesso capisco l’avversione dei socialisti per i democratico liberali, o liberal-socialisti, o riformisti, o eccetera. Tutta gente che vuole temperare il capitalismo, fossilizzandolo. Quindi, visto che è del giovane Marx che si parla, non avete capito una mazza, e dovreste gioire del fallimento del progetto liberal-socialista, e abbracciare, per i più ansiosi accelerare (come va di moda adesso) l’attimo capitalista.

  12. @ FF. Lasch però critica Marx. La sua tesi (semplifico in modo osceno, quel libro che citi è molto complesso e sfuggente) è che l’idea di progresso non sarebbe una forma immanente di redenzione cristiana ma sarebbe connessa all’idea di un’espansione infinita. Da questo punto di vista, Marx sta dalla stessa parte dei teorici del capitalismo. Infatti Lasch critica entrambi. Marx sta dentro la modernità. Lasch e molti altri con lui cercano di criticarla relativizzandola. Leggi anche la Arendt, Vita activa. Ci troverai cose interessanti proprio su questi problemi.
    Io penso che chi detesta il progetto liberal-socialista in effetti stia gioendo, proprio come dici tu e proprio per il “tanto meglio tanto peggio” di cui parli tu.

  13. Sotto il sole di Riccione – Zizek

    Non è forse anche l’idea del comunismo una bugia simile che ci permette di vedere la verità del sistema capitalista esistente e dei suoi antagonisti? Sì, ma in modo molto particolare… Così i critici del comunismo avevano ragione quando dicevano che il comunismo marxista è una fantasia irrealizzabile; quello che non capivano è che il CMX era una fantasia che riguardava il capitalismo stesso, la fantasia del conservare la forza produttiva senza gli ostacoli e la triste esperienza del capitalismo reale. Questo, tuttavia, non dovrebbe indurci ad abbandonare la vera idea di comunismo; al contrario, questa idea dovrebbe essere concepita in senso strettamente hegeliano, come un concetto che trasforma sé stesso nel corso della sua realizzazione.

    @ Lo Vetere, sì io sono arrivato al punto postato, ma poi avendo letto le cose di Giunta su Lasch (la sua “avversione” al femminismo) un po’ ho intuito. Colgo l’invito per conoscere Arendt, allora. Certo nell’ottica di chi gioisce i capitalisti sono un po’ come Giuda, quindi alla fine si beccheranno un grazie

  14. Grazie a tutti per i commenti! Il primo paragrafo dell’articoletto è certamente molto vago e impreciso: del resto, non era mia intenzione qui affrontare il problema dei limiti attuali e/o contraddizioni del capitalismo, o del fallimento (o meno) della social-democrazia. É solo una recensione a un film. I punti interessanti in cui Marx viene reinterpretato o semplicemente ricordato sono, nel film, altri (e meno complessi).
    Comunque, i riferimenti che avevo in mente per il paragrafo introduttivo sono i dibattiti attuali tra Wolfgang Streeck (cf. sua raccolta di saggi “How Will Capitalism End?”), Habermas (che difende ancora democrazia, progetto europeo e capitalismo addomesticato), Paul Mason (cf. suo libro “Postcapitalism”), David Harvey (che in effetti pensa che il capitalismo sia ancora vivo e vegeto..), etc.
    Con “mediare le relazioni con il diverso” mi riferivo al fatto che le social-democrazie attuali non sembrano avere soluzioni strutturali e istituzionali convincenti per la questione della cosiddetta “crisi” migratoria.

  15. @ Gregoratto

    Grazie per la risposta. Però, ecco, questa non è solo la recensione a un film, e non ce l’ho con lei (tu?) in particolare, perché il preambolo lo leggo ovunque; tante vale scrivere “c’era una volta” e ci siamo capiti. Che “mediare le relazioni con il diverso” si riferisse alla “crisi” migratoria c’ero arrivato, il punto è come viene in mente di scrivere una cosa del genere. A parte la scelta lessicale, gli stranieri sono stranieri, non il “diverso” (categoria concettuale fuffosa che porta al tranello dell’integrazione, per arrivare al mostro finale del Grande Altro…), non c’è nessuna relazione tra la democrazia liberale, le procedure democratiche, i diritti e i migranti. è sbagliata l’ottica di giudicare la democrazia liberale con la sua capacità di gestione della migrazione, poiché l’obiettivo della DL non è gestire l’arrivo degli stranieri. Quindi non ha senso parlarne in termini di fallimento in relazione a ciò. Sei, siete d’accordo con questo? E in ogni caso vorrei capire come si fa a stabilire che sta fallendo. Con quale criterio? Sembrano… ma sembrano a chi? E questo più in grande si ritrova con il capitalismo e la modernità. L’unica soluzione strutturale è la morte, l’estinzione della specie. Neanche il nazismo risolve, per dire. Io vorrei capire cosa vi aspettate o se qualcuno ha mai pensato che la democrazia liberale dovesse garantire il paradiso in terra (fighe bianche e wi-fi), quando è solo il modo meno peggio che abbiamo trovato. Per parlare di fallimento bisogna avere in mente quali sono gli obiettivi. Poi se uno pensa che è il capitalismo il problema è un altro discorso, e ci può stare, ma in ogni caso la DL si valuta attraverso criteri appropriati per quello che riesce a dare, non per quello che non riesce a fare non essendone fra le sue possibilità.

  16. @ FF vs PPP

    Ha ragione Lo Vetere: siamo di fronte a una crisi drammatica dentro il mondo occidentale. Negarlo in nome di una presunta immobilità storica significa non vedere la specificità di questo tempo.

  17. @ Matteo F

    io non nego la crisi in nome di una presunta immobilità storica, non mi pare di aver scritto questo. Ho chiesto, senza avere risposta, quali sono i criteri per parlare di crisi e di fallimento. Perché a parte che di crisi di mondo occidentale si parla da un pezzo (c’è ormai la letteratura della crisi), cosa che mi fa pensare che non si sappia bene di cosa si parli, nessuno dice mai chiaramente qual è la specificità del proprio tempo. Ogni volta un intellettuale dice che le volte passate si erano viste fratture ingannevoli, ma questa volta è diverso, e parte con la sua spiegazione, che puntualmente non regge in confronto alla realtà. Per me. Per questo chiedo, e mai nessuno mi risponde. Tra l’altro parlo con tutte persone che se la passano bene eppure parlano di crisi drammatica. Non è colpa mia se l’umanità ha sempre migrato e sempre migrerà.

  18. Crisi e fallimento si hanno quando le istituzioni esistenti non riescono a risolvere i problemi sociali, politici ed economici che si trovano di fronte. Il caso dell’immigrazione è un esempio. A parte la questione dei doveri morali, i flussi migratori di questi anni (da Africa e Medio Oriente) è certamente un problema: mancano le strutture e i fondi per accoglierli, quelli stanziati dall’UE, come si è visto anche dall’ultimo dibattito, sono irrisori, e i cittadini di molti paesi europei reagiscono male, con paura, odio (si veda PEGIDA in Germania, i roghi nelle case di accoglienza, le ridicole polemiche sui 35 euro al giorno e hotel di lusso). I barconi continuano ad affondare, e sempre di più si parla di “chiudere i porti”. A me sembra un problema, e mi sembra non ci sia la volontà o i modi di trovare una soluzione (che sarebbe, secondo me, per farla breve e facile, quella di investire di più nell’accoglienza, nell’ integrazione e nel cambio di prospettiva: migranti non come problema ma come risorsa, non solo economico-demografica ma anche culturale e etica). Parlare di “altro” in effetti era vago, ma in una parola volevo racchiudere il senso (ingiustificato) di ansia di coloro che non vedono i migranti di buon occhio.
    Va beh, se avessi voluto commentare su questo tema avrei scritto un articolo sull’ultimo film bellissimo di Aki Kaurismaki (The Other Side of Hope) o l’eccezionale Fuocoammare di Rosi!
    Comunque, più di tanto in questa sede non si può argomentare e sviluppare. Sulla crisi attuale del capitalismo rimando ai testi che ho citato sopra, soprattutto l’articolo di Streeck “How Will Capitalism End” (che si trova in PDF in internet, se non sbaglio) e il libro di Paul Mason “Postcapitalism” sono illuminanti.

  19. “Una volta che escludiamo queste due non-alternative (repressione di destra vs terzomondismo di sinistra), l’unica strada che rimane percorribile, e che mi sentirei di consigliare, è quella che in Italia viene guardata tradizionalmente con malcelato disprezzo: cercare di fare il possibile, il meglio possibile. Evitare che le aperture siano insostenibili, evitare che le chiusure siano irrazionali. Gestire il fenomeno, senza troppe illusioni, ma senza proclami roboanti…” G.Sciortino – rebus immigrazione

    Mi sa che ho un commento in spam

  20. ” Sulla crisi attuale del capitalismo rimando ai testi che ho citato sopra, soprattutto l’articolo di Streeck “How Will Capitalism End” (che si trova in PDF in internet, se non sbaglio) e il libro di Paul Mason “Postcapitalism” sono illuminanti. “.
    Già.

  21. @ Gregoratto

    Sono d’accordo solo sul fatto che la gestione attuale degli sbarchi è sbagliata e che si potrebbero evitari i morti. Lo si può fare sia concedendo i visti, con i corridoi umanitari, ma anche intercettando e rimandando indietro la gente. Per il resto i migranti sono sia una risorsa che un problema. Più accoglienza non risolve nulla, gli aventi diritto sono una minoranza. Gli altri concorrono tanto al lavoro quanto alla concorrenza e alla criminalità. Detto questo il tuo criterio è sbagliato alla base. Sarebbe come dire che siccome la medicina non cura tutto allora è in crisi o è fallita. La sanità può essere migliorata, ma non può risolvere il problema del fatto che viviamo di più, invecchiamo di più e quindi ci ammaliamo di più. Infine, considerare l’ansia ingiustificata significa non aver ben compreso la natura umana, grosso problema della classe intellettuale marxista. Persino i turisti quando sono troppi non sono visti di buon occhio. Grazie per i consigli di lettura e per la risposta.

  22. Terza volta che tento di intervenire, i primi due saranno finiti nello spam, ma credo che dovreste dotarvi di un sistema più efficiente, vedo che ormai sia diventato un problema troppo frequente.

    @FF vs PPP

    Il problema è che viviamo in una società in cui trionfa l’ideologia liberale, quindi la filosofia illuministica che è una ideologia progressista.

    Il fatto che le cose non vadano così bene, ma anzi che vadano sempre peggio (il punto cruciale è cioè il confronto temporale, il criterio cronologico) potrebbe certamente essere tollerato, e nel medioevo se c’era carestia non è che si smettesse di credere in Dio, che la volontà imprescrutabile di Dio potesse mandare flagelli stava nelle cose, era del tutto compatibile con quella ideologia.

    Il punto è proprio che le cose non vanno come l’ideologia ci suggerirebbe, e quindi in modo più o meno consapevole, la gente si rende conto che gli stanno raccontando frottole, che qualcosa non quadra proprio.

    Per l’illuminismo, perdere sulla questione del modo in cui il futuro si presenta, è perdere non una battaglia ma l’intera guerra.

    Tuttavia, un’ideologia non si abbandona come ci si cambia d’abito, è un’operazione dolorosa e quindi un vero e proprio travaglio, e non avviene di colpo, anche per carenza di offerte alternative, non tanto in sede teorica, quanto a livello di grande opinione pubblica, mai come oggi condizionata dall’occupazione militare dei media.

    Solo poche parole sulle migrazioni. Se non capiamo come ormai è ampiamente dimostrato che non si tratta di un fenomeno spontaneo ma indotto dai comportamenti dei poteri ufficiali e non del nostro occidente, rimaniamo in una visione fantastica e del tutto irrealsitica di cosa stia avvenendo.

    Se avessimo davvero rispetto di questi nostri simili, li considereremmo intelligenti come noi e quindi reattivi e adattati alle risposte che ricevono, cioè allo sfruttamento operato dalle nostre elite sulle loro terre, alle offerte che qualcuno gli porta fino al loro villaggio, e alle iniziatve nostre in tema di accoglienza.

    Mandare una nave fino alle coste libiche significa farli partire, con conseguenti naufragi e morti, con conseguenti sbarchi numerosissimi sulle nostre coste.

    Sarebbe poi interessante indagare come mai la solidarietà si fermi ai migranti, ma non si estenda a chi rimane che mi sembra siano migliaia di volte di più, tacendo del tutto sulle numerosissime morti di bambini in Congo, sacrificati per garantirci l’ultimo modello di smart phone.

    Un paese sovrano non può farsi dettare l’accoglienza dall’ultima delle ong e che ci sia bisogno di ribadirlo, significa che il livello di condizionamento ideologico operato dai media è così profondo e totale da avere reso le persone completamente incapaci di intendere e di volere.

  23. @ Cucinotta
    trionfa l’ideologia liberale perché è la migliore finora espressa. Trovatene di migliori se ce la fate.
    Il problema semmai è di coloro che o non hanno capito cosa sia la democrazia liberale o ne parlano in maniera errata come in questo articolo, non so se per incapacità o per ideologia. Tutti gli indicatori biometrici più importanti sono positivi mediamente nel mondo intero: aspettativa di vita, mortalità infantile in calo, povertà assoluta in calo (aumento delle disuguaglianze nei paesi, ma diminuzione fra i paesi, cosa molto più importante), livello di istruzione, tassi di occupazione femminile, eccetera. Se questo è il fallimento… L’unica cosa su cui posso concordare è che nella percezione comune le prospettive future paiono funeste e che il momento economico non è dei migliori, ma questo non vuol dire che sia una percezione corretta.

    Sulle migrazioni non riesco a capire perché si stia diffondendo questa idea dell’operazione dall’alto. Per me state un po’ fuori di testa, Bagnai e compagnia cantante, e mi pare un peccato. O più che altro non me ne frega niente, pensatela come vi pare. Io ultimamente ho conosciuto un paio di questi ragazzi, tramite due miei amici che lavorano nell’accoglienza. L’unica cosa che si può dire è che pensavano che sarebbe stato più facile: arrivi, ti dànno i documenti, trovi lavoro. Adesso se ne rendono conto. Ma sono partiti come parte chiunque, non c’è bisogno di immaginare spinte nell’ombra. Uno di loro prima di arrivare in Italia ha lavorato qualche mese in Marocco, ma era troppo pericoloso perché là girano bande di ragazzini poveri che ti accoltellano per un portafoglio e uno smartphone.

  24. Dice Vincenzo: “i poteri ufficiali e non del nostro occidente” – quindi Bilderberg? Rettiliani? Oppure i buoni vecchi Anziani di Sion?

  25. SOLO POCHE PAROLE SULLE MIGRAZIONI.

    @ Cucinotta
    A me pare che ai discorsi ipocriti dei buonisti si risponda di solito con discorsi altrettanto ipocriti ( e cinici) dei cattivisti. Ma vedo purtroppo affiorare sprazzi d’ipocrisia anche in persone che finora ho stimato (e non parlo solo di te, Vincenzo) perché si sottraevano ai discorsi di mera propaganda.
    Siccome il fenomeno delle migrazioni non è del tutto spontaneo (vorrei capire quale fenomeno lo sia in questa società) ma « indotto dai comportamenti dei poteri ufficiali e non del nostro occidente », vedo molti ripiegare sul predicozzo agli “accoglienti” e arruolarsi nelle file dei “respingenti”. Per stanchezza? Per non confondersi con chi avrebbe « una visione fantastica e del tutto irrealisitica di cosa stia avvenendo »? Per resipiscenza alla Renzi?
    Ci sono poteri ufficiali che strumentalizzano i bisogni dei migranti? O che – al contempo e da decenni – adottano politiche che impoveriscono i “nostri” lavoratori e il “nostro” ceto medio?
    E allora perché non denunciare e contrastare *innanzitutto* tali poteri? E, anche se non lo si potesse costruire subito, rafforzare un progetto/partito capace di non contrapporre *nazionalisticamente* i bisogni di uomini e donne costretti a migrare (per vivere) e quelli di noi residenti o indigeni in via d’impoverimento (sotto tutti gli aspetti e già prima delle attuali migrazioni)?
    Perché, se più lavoro – per loro e per noi- non ce ne sarà non rivendicare il reddito di cittadinanza *per tutti quelli che hanno bisogno di vivere*?
    E muoversi così sia contro i globalizzatori cosmopoliti sia contro i piccoli patrioti, che pur essi usano, come massa di manovra e sempre a loro esclusivo vantaggio, vuoi gli immigrati che noi indigeni?
    È difficile?
    Ma diventare huntingontiani mi pare penoso. E usare l’argomento dei migranti “privilegiati”contrapposti ai « numerosissime morti di bambini in Congo, sacrificati per garantirci l’ultimo modello di smart phone» (e perché no alla situazione in Yemen, e che so in Venezuela o a Gaza, etc) o appellarsi alla sovranità contro le Ong mi pare subdolo.

    P.s.
    I discorsi sull’immigrazione sono anche la cartina di tornasole per misurare quanto siano consistenti i discorsi su “né di destra né di sinista” o quelli “oltre la destra e la sinistra”. Rimando alle interessanti puntualizzazioni «Né destra né sinistra, semmai peggio» dello storico Claudio Vercelli su DOPPIO ZERO:
    http://www.doppiozero.com/materiali/ne-destra-ne-sinistra-semmai-peggio
    http://www.doppiozero.com/materiali/ne-destra-ne-sinistra-semmai-peggio-ii

    Su POLISCRITTURE abbiamo discusso animatamente di immigrazioni in vari post tra cui:
    http://www.poliscritture.it/2016/12/28/noi-e-loro-nello-specchio-di-facebook-verso-la-fine-del-2016/

  26. Ma perchè è diventato così difficile farsi capire? Non sarebbe necessario leggere con tutta l’attenzione richiesta?
    Dove avrei parlato di un complotto?

    Io dicevo poteri ufficiali, cioè istituzionali quali governi nazionali, e non ufficiali, quindi in primis economici.
    Ma se dico che un potere economico determina le migrazioni, non dico che lo faccia necessariamente secondo un piano preordinato, anche se anche questa è una possibilità.
    Ad esempio, le emittenti che operano sul satellite, influenzano le aspettative e i desideri di quei nostri fratelli.
    Se io invece compro latifondi e li destino a monocoltura, determino uno stato di dipendenza degli indigeni che perdono la loro autosufficienza alimentare.
    Il concetto che evidentemente non è stato compreso, è che non possiamo considerare le migrazioni come fosse un evento naturale, come un terremoto, ma che è un evento scatenato da comportamenti più o meno consapevoli poi non è che conta così tanto, da soggetti istituzionali e non istituzionali.
    I potenti del mondo hanno interessi robustissimi in Africa, e quindi la soluzione passa necessariamente nel battere i detentori del potere, non si risolve con l’accoglienza indiscriminata.

    Smettetela quindi di pensare come vi detta “La Repubblica”, utilizzate la vostra privatissima testa, ne ricaverete un sicuro vantaggio.

  27. “I potenti del mondo hanno interessi robustissimi in Africa, e quindi la soluzione passa necessariamente nel battere i detentori del potere, non si risolve con l’accoglienza indiscriminata.” (Cucinotta)

    Ma neppure con i respingimenti altrettanto e più indiscriminati o le guerricciole coloniali gestite in appalto. E, comunque, nessuno qui credo pensi alle migrazioni come eventi naturali. Ma l’ora e tardi. A domani.

  28. Politica è dare risposte efficaci, raggiungere gli obiettivi che ci si propone, in politica le buone intenzioni contano zero.
    Analizzando allora le cose come stanno e non come vorremmo che fossero, vedremmo e spero che almeno sui dati possiamo convenire, che da quando è partita l’operazione “mare nostrum”, poi integrata nella UE come operazione Poseidon, i migranti sono aumentati in modo vertiginoso, ma, per chi fosse più distratto, proporzionalmente sono aumentati anche i morti per annegamento.
    Ciò significa che le migrazioni comportano un costo in vite umane, almeno storicamente in questi anni l’hanno comportato. Forse questo aiuta a distinguere tra migranti e migrazioni. Essere contro le migrazioni non significa essere contro i migranti, anzi è tutto il contrario, nei fatti considerare le migrazioni come un evento inevitabile significa ammettere che una parte di nostri fratelli africani morti sia un costo accettabile. Il punto è che l’aspettativa di salvataggio da parte di navi ben equipaggiate, suscita ulteriori partenze. E’ la logica del gettare monetine su una folla di mendicanti, quando per la zuffa che si crea si hanno ferimenti, non si potrà dire che si voleva fare l’elemosina.

    Secondo aspetto. Il bacino potenziale di migranti tra asiatici e africani è dell’ordine dei miliardi, diciamo due miliardi di esseri umani. Si può pensare che tutte queste persone si trasferiscano in Europa? Certamente no, è evidente che anche con tutta la buona volontà, non potremmo mai e poi mai accoglierli.
    Ecco, secondo me, il problema va affrontato con questa logica, non ha senso alcuno confrontarsi con i numeri già comunque alti di oggi. Quando un piddino come ultimamente è successo, si sveglia e si accorge che forse i 180 mila migranti del 2016 potrebbero oggi diventare il doppio visto il numero di persone giunte negli ultimi week-ends, mi viene da ingiuriarli, perchè la politica deve avere una certa capacità di prevedere l’evoluzione nel prossimo futuro.
    Mi chiedo in ogni caso se abbia senso una politica internazionale che preveda lo svuotamento dell’Africa. Senza volere immaginare chissà quale complotto, è evidente che i predatori di ricchezze ormai non soltanto occidentali, hanno messo nel mirino le risorse enormi di quel continente. Non c’è alcun bisogno che costoro organizzino materialmente le migrazioni, basta capire che i loro interessi oggettivi siano per togliere di mezzo tutti i giovani più istruiti e capaci, cioè quelli che tentano di migrare, per potere più agevolmente in assenza di potenzieli oppositori, fare i loro porci comodi nei paesi di loro provenienza.
    E’ allora chiaro a Bergoglio, al governo italiano, a voi che mi obiettate, che seppure inconsapevolmente, siete complici di questo tentativo di depredare gli africani? Ho scritto sulle miniere dove muiono ragazzini messi lì a lavorare per i nostri smart phone, e non una singola parola è stata detta, di questi argomenti non si deve parlare. Eppure, gli interessi a suscitare le migrazioni sono identici a a quelli che costringono a morti premature questi sventurati ragazzi, e stessi sono gli attori che tengono le fila degli eventi.

    Se questa è la situazione, dovremmo essere in grado di suscitare una opposizione prima di tutto in occidente rispetto a questi attori che per la loro rapacità non esitano a portare distruzione nel mondo. Bisognerebbe che fosse chiaro a tutti che il capitalismo è incompatibile con gli interessi dell’umanità ed anzi mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della nostra specie o almeno delle forme di organizzaizone civile che l’umanità faticosamente si è data nel corso della sua storia.

    Nel frattempo, non potendo certo aspettare l’esito vittorioso di questa rivoluzione che io evoco, bisogna capire che accogliere i migranti incrementa il numero di vittime, facilita i piani criminali delle elite economiche, favorisce lo sviluppo di attività e di organizzazioni criminali nel nord africa, come credo di avere finora brevemente illustrato.
    Per quanto invece riguarda i fattori interni alla nostra nazione, è evidente che questa accoglienza potenzialmente illimitata, e pertanto non programmabile, distrugge ogni possibile scelta di politica nel nostro paese. La politica può essere esercitata se si ha un potere sovrano, la politica è scelta, e la scelta si può esercitare solo su decisioni che sono di propria pertinenza. Se si subisce situazioni esogene senza potere intervenire su di queste, si abdica alla propria sovranità. Ma perdere la sovranità a sua volta implica la vanificazione del processo democratico, se non c’è potere di decisione, non serve a nulla votare, il voto come espressione della volontà del popolo, e quindi come esercizio della democrazia, ha senso solo se la nazione è titolare di poteri reali, sennò votare o non votare diventa un’attività ludica, un simulacro di democrazia, una vera e propria finzione.
    Se poi consideriamo ancora la situazione dell’occupazione nel nostro paese, i vincoli di bilancio che l’adesione alla UE ci impone, non dovrebbe essere così difficile anche per un osservatore distratto capire che non siamo in grado di dare un futuro alle persone che stiamo accogliendo. Queste rischiano come del resto abbiamo ampi esempi già in Francia ed in Gran Bretagna, paesi coloniali che per questo hanno avuto fenomeni di immigrazione da tempo, di dare luogo a sacche di disoccupazione in cui la criminalità organizzata e perfino le organizzazioni terroristiche possono facilmente pescare.
    Rimango davvero sorpreso di come non sia chiaro a tutti l’irresponsabilità di questa accoglienza indiscriminata,. come se io facessi entrare in casa tanta gente e poi condannassi la mia stessa famiglia e questi ospiti all’inedia per mancanza di alimenti. Chi potrebbe essere così irresponsabile? Eppure basta un servizio giornalistico fatto ad arte per suscitare sentimenti di solidarietà che sono parte della nostra umanità, ma che la politica dovrebbe essere in grado di controllare secondo un processo minimamente razionale e non emozionale.

  29. Fra l’altro mi pare chiaro che gli stessi ‘poteri’ che fanno arrivare i migranti hanno invece deciso, altrove, di far vincere la Brexit in Inghilterra, Trump negli Usa, appoggiano la politica estera di Putin e dell’Arabia Saudita etc. – cioè in pratica gli amici di Vincenzo.
    “le emittenti che operano sul satellite, influenzano le aspettative e i desideri di quei nostri fratelli” – ma anche nostre, no? Non per niente sotto Trump l’economia Usa è gestita da Goldman Sachs, per fare solo l’esempio più eclatante.
    A meno di non immaginare che Brexit, Trump etc siano parte di una vasta resistenza popolare al nefasto piano dei poteri forti – ma questo sarebbe caricaturale, no?

  30. Alessandro, quando si decide di interloquire con qualcuno, bisogna sapere leggere.
    Dal primo intervento, si è lanciato sull’argomento “rettiliani” come se lei fosse un robot che formula risposte automatiche fuori da ogni contesto.
    Addirittura. mi attribuisce degli amici, insomma se fosse davvero un uomo, sarebbe molto scorretto, mettere in bocca ad altri proprie ipotesi fantasiose, e in più in completo anonimato, senza neanche avere il coraggio di declinare le proprie generalità, la dice lunga su di lui, su quale gantaluomo sia quello con cui abbiamo a che fare.
    Se si hanno opinioni divergenti rispetto ad altri, non si ha tuttavia il diritto di estrapolare a proprio piacimento sulle amicizie politiche di questo interlocutore.
    Non formula una singola parola sulle cose che dico, ma pontifica su ciò che non mi sono mai sognato di dire, è un esegeta di un personaggio che si è inventato e con cui ha pensato di sostituirmi arbitrariamente.
    Per gente come costui, la verità è binaria, o si è d’accordo con lui, con la Boldrini e con Bergoglio, o si è amici di Trump e compagnia bella.
    Poi, naturalmente, costui ha le idee molto confuse sulla situazione geopolitica, ma questo sarebbe un peccato veniale.
    Figurarsi, per uno che decide per me quali siano le mie amicizie, che sia ignorante sarebbe il problema meno grave.

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