di Claudia Crocco

[È appena uscito l’ultimo numero della rivista «Enthymema», intitolato Effetto canone. La forma antologia nella letteratura italiana, a cura di Carmen Van den Bergh e Paolo Giovannetti. Pubblichiamo una versione modificata dell’intervento di Claudia Crocco. L’intero numero si può leggere qui].

  1. Nuove antologie.

Questo percorso inizia nel 2005: è l’anno in cui escono tre antologie importanti, che rinnovano l’antologia d’autore: Parola plurale, Dopo la lirica, La poesia italiana dal 1960 a oggi. Hanno punti di partenza simili, ma non identici: il 1960 per Piccini e Testa; il 1975 per gli otto curatori di Parola plurale. Le differenze nella scelta di un terminus post quem indicano una diversa periodizzazione del Novecento, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo quarto di secolo.
Nell’organizzazione della sua antologia, Piccini prende a modello Poeti italiani del Novecento. I testi sono raggruppati per autore, dunque divisi in diciannove sezioni; ognuna è preceduta da un ampio profilo critico e bibliografico. L’ordine in cui sono presentati i poeti segue la data di pubblicazione del loro primo libro importante: la scelta di Mengaldo, che a fine anni Settanta alimentava molte critiche, è ormai diventata una prassi antologica comune.
Il punto di partenza dell’antologia è il 1960, che viene ritenuto un discrimine per due motivi: la rottura creata dalla Neoavanguardia, a partire dai Novissimi; le opere decisive della generazione dei poeti nati tra anni Venti e Trenta (Giudici, Zanzotto, Raboni). Il punto d’arrivo è il 2000, anche se la bibliografia critica è aggiornata fino al 2004. Piccini vorrebbe riproporre l’impianto d’autore dell’antologia di Mengaldo. Per questo ritiene fondamentale compiere scelte critiche «a-ideologiche», ossia non imperniate sulla centralità di tendenze e correnti, ma piuttosto sull’analisi delle forme testuali, delle singole personalità poetiche, del loro rapporto con la tradizione. Un valido strumento è considerato commento: commentare i testi è considerato un modo per misurarne la storicizzabilità. Piccini chiarisce i propri obiettivi nell’introduzione:

Nonostante tutto ciò, e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico descritto, verificatosi ora per contrazione ora e casualità, ora per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze[…]. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori rappresentanti, con tutto il cumulo della loro irriducibilità a un sistema, a una poetica predefinita è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia (Piccini 2005, p. 15).

Se osserviamo l’antologia con attenzione, però, notiamo che il curatore non mantiene del tutto quanto annunciato. La ricostruzione degli anni Sessanta come momento di rottura e di cambiamento decisivo per il secondo Novecento non comprende autori fondamentali per giustificare questa rottura: Sereni, Fortini, Pasolini, Zanzotto. L’esclusione dei primi due può essere motivata da dati cronologici: Sereni e Fortini appartengono a una generazione diversa, quella dei poeti nati negli anni Dieci; ma lo stesso non si può dire per Zanzotto e Pasolini, contemporanei per esempio di Erba (che viene incluso). Anche per la generazione postsessantottesca si ripropone un problema di mancato pluralismo nella selezione. Piccini vuole reagire all’esplosione antologica degli ultimi anni proponendo un’antologia «a maglie strette», con poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro»(Piccini 2007, p. 36). Coerentemente con questo presupposto, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Tuttavia la selezione non è altrettanto accurata per l’ultima parte dell’antologia: guardando agli ultimi anni, si nota una rappresentazione ipertrofica di autori vicini alle riviste o ai gruppi per i quali il curatore lavora (ad esempio Rondoni, Ceni, Mussapi).
La seconda importante antologia del 2005 è Dopo la lirica, curata da Enrico Testa per la collana bianca di Einaudi. Il periodo considerato ha gli stessi estremi cronologici dell’antologia di Piccini: dal 1960 al 2000. In questo caso, però, la selezione comprende quarantatré poeti. Anche Testa fa precedere l’antologia da una lunga Introduzione, all’interno della quale ricostruisce le linee storiche della poesia degli ultimi trent’anni. L’ordine in cui sono presentati i poeti non viene esplicitato, ma è di tipo cronologico.

Testa reagisce alla diminuzione del prestigio sociale della poesia, che a suo dire ha influenzato anche la forma stessa dell’antologia, in due modi. Innanzitutto recupera l’aspetto principale dell’antologia d’autore, ovvero l’architettura saggistica: il saggio introduttivo, infatti, è funzionale al funzionamento complessivo del macrotesto, fornisce la chiave interpretativa delle poesie. La seconda strategia consiste nel partire sempre da una analisi linguistica dei testi. Sono i dati grammaticali, quando superindividuali, a costituire le basi per interpretare la poesia del secondo Novecento:

Essi, in sintesi, sono: la messa in rilievo di aspetti linguistici e, in particolare, testuali della poesia che forse potrà consentire di guardare a fenomeni più ampi dei singoli comportamenti stilistici […]; il rapporto tra il lirismo tradizionale con i suoi tratti essenziali (il soggetto poetante come, secondo la nota definizione hegeliana, «centro e contenuto della poesia», la coincidenza tra voce dell’autore e voce del testo e il conseguente codice fonologico della dizione) e altre soluzioni che contemplano la sua critica, espansione, riduzione o escussione; la questione del soggetto e i modi del suo definirsi come simulacro vocale nello scritto […] e come origine o termine di relazioni con il mondo rappresentato; il rapporto con le “grandi questioni” del pensiero e, in particolare, con il nichilismo […]; la presenza, infine, di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e “magica” degli oggetti (Testa 2005, p. XXXII).

La tesi di fondo, sulla quale si regge tutta l’antologia, è già anticipata dal titolo: la poesia italiana degli ultimi anni è caratterizzata da un senso di posterità rispetto a quella precedente, poiché c’è stata una frattura radicale nell’evoluzione della lirica italiana durante gli anni Sessanta. Questa cesura è ricondotta a mutamenti filosofici, linguistici e sociali più generali (la crisi della dicibilità del soggetto, la perdita di contenuti alti, universali e trascendenti del genere lirico, l’avvicinamento fra lingua letteraria e lingua comune, nonché quello fra prosa e poesia; infine il progresso tecnologico), che vengono dedotti a partire da fenomeni particolari decisivi di tipo linguistico.
La letteratura successiva è esaminata attraverso il filtro di questa tesi: gli anni Settanta sono riscattati soltanto dalle opere degli autori di svolta della terza generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni). Un certo rilievo viene attribuito alla poesia dialettale, soprattutto ai primi libri di Loi e Baldini, mentre i due decenni successivi sono descritti con toni più cupi. Guardando agli ultimi vent’anni, il curatore di Dopo la lirica ritiene che l’assenza di poetiche forti, l’alto numero di autori e la loro mobilità o evoluzione stilistica rendano difficile tracciare un quadro d’insieme: tutta la poesia contemporanea viene considerata «postuma». Anche Testa, dunque, fa proprio il topos critico dell’impossibilità di una mappatura del contemporaneo, e scrive che «ad una cartografia imperfetta è allora preferibile uno scorcio o veduta parziale» (Testa 2005, p. XXVI), che consiste nell’identificare una linea, un atteggiamento d’esposizione, impressivo e centrifugo complessivo, al quale ricondurre la poesia dal 1985 al 2005.
Apparentemente Testa è il più rigoroso fra i tre curatori (considerando qui come un una sola personalità critica, per comodità, anche i curatori di Parola plurale): l’esperienza più importante del secondo Novecento è considerata la sperimentazione in senso «post-lirico», e, di conseguenza, passa attraverso i libri di Sereni, Giudici, Caproni. I punti di debolezza più evidenti riguardano la seconda parte dell’antologia. Nonostante il giudizio critico sugli autori più recenti non sia mai del tutto positivo, vengono antologizzati numerosi autori esordienti a partire dagli anni Settanta. Viene il sospetto, però, che alcuni poeti siano stati inseriti puramente per il ricorrere di caratteristiche stilistiche conciliabili con la teoria generale di Testa. Al contrario, vengono sottovalutate alcune voci che avrebbero rappresentato in modo più esaustivo il panorama della poesia più recente: ad esempio Benedetti, Buffoni, Dal Bianco.
A dieci anni dalla sua pubblicazione, mi pare che le questioni lasciate aperte da Dopo la lirica siano essenzialmente due: la prima è se davvero l’esperienza di autori postmontaliani abbia rappresentato non solo un momento importante, ma il punto di rottura e di interruzione di un genere, quello della lirica moderna; la seconda è se sia possibile realizzare una storiografia letteraria a partire da categorie stilistiche. La parte finale dell’antologia di Testa, infatti, diventa meno rigorosa proprio per una miopia derivante dalla ricerca di autori che rispecchino o aderiscano a fenomeni stilistici individuati preliminarmente.
Come nelle altre due crestomazie importanti di quest’annata, Parola plurale è preceduta da una lunga introduzione saggistica, divisa in otto punti: ognuno è curato da uno dei critici che hanno collaborato al volume. Seguono quattro parti antologiche. La prima, Deriva di effetti, comprende autori più o meno afferenti al Pubblico della poesia e, in parte, alla Parola innamorata; il secondo capitolo è intitolato Ritorno alle forme; segue la parte che ospita i nuovi movimenti d’avanguardia; infine, Apertura plurale è il nome dell’ultimo capitolo.
In apertura di ogni sezione o capitolo ci sono due saggi tematici, per un totale di otto, ognuno realizzato da uno dei curatori. Anche i cappelli introduttivi ai poeti, che comprendono note biografiche e bibliografiche, non sono collettivi, bensì divisi fra i curatori. In chiusura è presente una lunga e dettagliata Bibliografia delle poesia italiana contemporanea.
Se per Piccini (e per Testa) l’evidente modello è Poeti italiani del Novecento di Mengaldo, per Alfano, Baldacci, Bello Minciacchi, Cortellessa, Manganelli, Scarpa, Zinelli e Zublena è certamente molto importante il Pubblico della poesia. C’è una prima coincidenza numerica: gli autori confluiti nella Parola plurale sono sessantaquattro, esattamente come quelli inclusi nello Schedario dell’antologia di Berardinelli e Cordelli. Il primo capitolo, inoltre, non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, ma già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, cioè il saggio di Berardinelli, è qui diventato Deriva di effetti. I curatori di questa antologia danno molto rilievo alla frattura posta al centro della riflessione e dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dei quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si è conclusa l’esperienza della Neoavanguardia, considerata «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano et al. , p. 20). Il 1971 ha chiuso un periodo della storia della lirica, con le pubblicazioni di Montale e Pasolini, e ne ha aperto un altro, con Invettive e licenze di Bellezza. L’ultima data importante è il 1975, quando si verificano tre eventi: la vittoria del Nobel da parte di Montale, ed il Discorso Tenuto a Stoccolma in quell’occasione; la morte di Pasolini; la pubblicazione del Pubblico della poesia.
L’obiettivo di Parola plurale, per quanto non dichiarato esplicitamente, è quello di completare il lavoro iniziato da Berardinelli e Cordelli trent’anni prima, e da questi ultimi abbandonato nei decenni successivi. I curatori rifiutano il topos della non tracciabilità di una mappa della poesia contemporanea, criticano la conseguente abdicazione della critica letteraria, condannano apertamente tutti i casi di antologie copoetiche. Parola plurale va oltre le precedenti antologie «multiple»: assumendo una postura di militanza critica, si propone di selezionare e trasmettere un codice, da un lato, e di rinnovare il genere antologico, dall’altro, soprattutto attraverso l’introduzione dell’elemento di collegialità. Nell’introduzione vengono ripresi alcuni principi guida dell’antologia d’autore, esemplificata su Mengaldo: l’intenzione di presentare un canone; l’organizzazione «policentrica»; la struttura saggistica che fa da cornice ai testi. Queste caratteristiche sono rielaborate tenendo conto della collegialità del lavoro, che per questo risulta molto diverso da quello di qualsiasi precedente:

La scommessa ‘plurale’ è ulteriore. Quest’antologia non ha coordinatori né collaboratori. La sua immagine-guida non è dunque la bottega, bensì (semmai) l’officina. Un’officina non duramente taylorista, beninteso, ma frequentata da operatori autonomi e autosufficienti, all’interno di un organismo che non risulta semplicemente dalla loro somma. Non solo ci siamo divisi la responsabilità della scelta dei testi e dell’introduzione critica dei sessantaquattro autori antologizzati, ma ogni inclusione (e di conseguenza ogni esclusione) è stata decisa collegialmente, sulla base della lettura incrociata dei testi proposti, e di una loro discussione articolata e puntuale. Anche il disegno dell’introduzione, tradizionale ‘manifesto’ individuale di ogni “antologia d’autore”, non può che dividersi in otto prospettive indipendenti […] i cui rispettivi ‘margini’ si sono sempre, com’è a questo punto ovvio, collegialmente discussi. La scommessa è che un fenomeno così complesso come la poesia degli ultimi trent’anni trovi in questo modo adeguata risposta d’analisi e interpretazione – e che a parte subiecti, invece, ciascun partecipante abbia a sua disposizione un proprio spazio di deviazione dal vettore risultante degli sforzi congiunti (Alfano et al., p. 16).

Se il racconto a tesi «dall’alto» non è più in grado di indagare la poesia contemporanea, forse questa stessa analisi può essere portata avanti in modo nuovo, dialogico e collegiale, ma non per questo criticamente più debole o meno impegnato. La struttura «plurale» sembra adattarsi meglio al tipo di operazione ritenuta necessaria per descrivere il contemporaneo:

La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’… ); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio (Ivi, p. 9).

Ciononostante, la selezione antologica di Parola plurale presenta alcuni elementi di debolezza. Il canone proposto non è plurale e policentrico come preannunciato nell’introduzione: su sessantaquattro poeti, almeno diciannove rappresentano una tendenza neo-sperimentale (soprattutto quelli racchiusi nelle due centrali); lo spazio di approfondimento critico loro accordato è superiore rispetto a quello dedicato agli altri. All’interno di Parola plurale la scrittura sperimentale è consacrata come un valore in sé: l’idea del rinnovamento della forma come ultimo rinnovamento del moderno, in un certo senso, sembra ancora molto presente; il canone non riesce a essere realmente aperto e organizzato intorno a più nuclei, poiché uno di questi prevale non solo nella valutazione degli antologizzatori, ma nella struttura e organizzazione del macrotesto. Ne risente anche la presentazione di alcuni autori: nel caso di Benedetti, ad esempio, dalla selezione antologica emerge quasi soltanto il tratto di «regressività».
Ciononostante, la periodizzazione proposta da questa antologia risulta la più convincente; lo conferma anche il fatto che sia stata spesso ripresa dalla critica successiva. Parola plurale, inoltre, è una delle antologie più aggiornate e ricche da un punto di vista bibliografico; in definitiva, si tratta di una fra le migliori antologie degli ultimi decenni.
A questo elenco vanno aggiunte altre due raccolte. La prima è l’antologia curata da Andrea Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, la quale si distingue dalle tre di cui ho appena parlato per una caratteristica strutturale: il periodo interessato dallo studio di Afribo è più breve, copre circa vent’anni. A rigor di logica, dunque, e riprendendo la schematizzazione di Giovannetti (Giovannetti 2004,) si tratta di una crestomazia di «poeti d’oggi»[1].
Per quanto riguarda la selezione, dalla lettura di Poesia contemporanea dal 1980 a oggi emerge un aspetto apparentemente banale, ma in realtà nient’affatto scontato: la poesia sopravvive ancora, e lo fa in modo non epigonale, perché riesce a coinvolgere diversi livelli del discorso (la fiction, l’inclusione di inserti narrativi), includendo la prosa (Benedetti, Dal Bianco), ma soprattutto mostrando un io più sfrangiato, in sospeso fra l’anonimia (Dal Bianco, Fiori, l’opera più recente di Anedda) e lo sperimentalismo. Da un punto di vista metodologico, presenta una storicizzazione su base stilistica e una impostazione di tono saggistico, resa evidente dall’introduzione autoriale e dai commenti ai testi. Per questi motivi costituisce un interessante esempio di antologia d’autore, ottenuta lavorando in modo rigoroso sul close reading dei testi.
La seconda raccolta è Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni. 1971-2001, a cura di Alberto Bertoni. La struttura dell’antologia è annalistica, sul modello di Poesia degli anni Settanta di Antonio Porta: in ogni capitolo vengono antologizzati i libri ritenuti più importanti fra quelli pubblicati durante una annata. Il punto di partenza è il 1971, con Satura, mentre l’ultimo anno considerato è il 2001.
Mettere in primo piano i libri anziché gli autori appare al curatore un mezzo per orientarsi nell’intricato panorama della poesia contemporanea, nel quale «non esistono un canone, una poetica dominanti», come si legge nell’Introduzione. La poesia contemporanea si trova al di fuori delle logiche di mercato, ma è ormai priva anche dei propri tradizionali organi di garanzia[2]; da qui deriva il suo status di lateralità. Da un lato, il fatto che la poesia sia poco sfruttata economicamente ha innescato un circolo virtuoso: dal momento che l’atto della scrittura non è finalizzato a quello della vendita, il suo livello qualitativo è molto più alto rispetto a quello della narrativa. Dall’altro, però, il panorama poetico è più confuso e indecifrabile, rispetto al passato, e la critica di poesia è ormai simile a una «batracomiomachia».
Nel paragrafo finale dell’Introduzione, nel tentativo di delineare le tendenze più recenti, Bertoni spiega di riscontrare «una sincera propensione al dialogo» nelle opere degli ultimi autori, accompagnata da un forte calo della «passione combattiva» e dal conseguente prolificare di libri di livello medio, in un modo che è definito «orizzontale». Queste opere sono sintomatiche di una fase nuova e fertile per la poesia, per quanto non ancora del tutto visualizzabile:

e […] la ricchezza del quadro sta proprio nella sua provvisorietà costitutiva, ora nel marché aux puces ora nella fantasmagoria di stili, lingue, aggregazioni generazionali o simpatetiche, avventure esistenziali, transfert psichici, visioni del mondo, ideologie, accenti, credenze… E dunque, per quanto dichiaratamente parziale e di comodo, a pensarci bene nella segnalazione di un unico libro a persona […] vige un principio democratico non troppo – poi- trascurabile (Bertoni 2005, p. 6).

Il curatore, quindi, rivendica la propria fiducia nell’eticità dell’operazione critica come strumento di salvaguardia della poesia. «Se le grandi strade sono interrotte, restano infatti da tracciare i sentieri»: così si conclude l’Introduzione. Trent’anni di Novecento evidenzia un problema con il quale le raccolte del futuro saranno costrette a confrontarsi. Se definire un canone e identificare tendenze nella poesia degli ultimi trent’anni è impossibile, non ha più senso neanche sottolineare la presenza di una tradizione, poiché «la tradizione può venire a questo punto considerata un catalogo testuale da sfogliare o da ricombinare senza che sia in grado di offrire alcuna resistenza problematica, strenua, ai tentativi di citazione strumentale o di manipolazione ‘debole’» (Ivi, p. 16). Questa prospettiva presenta due conseguenze di rilievo sul piano generale. La prima ha a che fare con la mancanza di gerarchie nella selezione: Satura, ad esempio, in Trent’anni di Novecento ha lo stesso peso, per quantità di pagine ed attenzione critica complessiva, di Macchina naturale di Mario Ramous, Seinà di Paolo Bertolani, Nóstoi. Il sentiero dei ritorni di Venanzio Agostino Reali. Montale «si rivela alla fine solo un poeta tra gli altri, modello destinato a emergere ma anche a frantumarsi nelle decine di sue trasformazioni o negazioni secolarizzate che hanno abitato gli ultimi trent’anni di un secolo come il Novecento». In secondo luogo, la riflessione di Bertoni comporta anche l’inclusione nell’antologia di canzoni d’autore. Nell’antologia di Bertoni poesie di Valerio Magrelli, Milo De Angelis, Andrea Zanzotto, Stefano Dal Bianco si ritrovano affiancate a testi di cantautori come Fabrizio De André, Paolo Conte, e addirittura Vasco Rossi. I rapporti fra testi letterari e testi performativi, soprattutto nella forma della canzone, sono oggi al centro del dibattito culturale;[3] da questo punto di vista, Trent’anni di Novecento intuisce un cambiamento molto importante, e rappresenterà un punto di confronto e un precedente per le raccolte future. Tuttavia presenta un limite non trascurabile: per Bertoni il panorama poetico contemporaneo è, nella sua provvisorietà costitutiva, una «fantasmagoria di lingue, stili, aggregazioni generazionali», e solo per questo possono rientrarvi anche testi musicali. Si tratta di una argomentazione che non tiene conto dei rapporti complessi fra i due generi letterari né della loro evoluzione nel Novecento.

 

  1. Le antologie militanti

Per completare il quadro delle innovazioni antologiche dell’ultimo quindicennio, vanno considerate due antologie programmatiche o militanti. Si tratta di Prosa in prosa e Poeti degli anni Zero: per il dibattito che hanno suscitato e per l’interpretazione del presente che propongono, questi due libri hanno plasmato il campo nel quale un futuro antologista si troverà a lavorare.
Prosa in prosa esce nel 2009, (Firenze, Le Lettere). Gli autori antologizzati sono sei: Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Michele Zaffarano, Andrea Raos. Prosa in prosa è un’antologia di tendenza: più manifesto che museo, ricorrendo a una distinzione di Sanguineti.[4] Si nota, innanzitutto, un cambiamento nella figura del curatore. Nel testo non ci sono indicazioni esplicite riguardo alla curatela, tuttavia l’interpretazione critica dell’antologia è affidata a Paolo Giovannetti, autore del saggio introduttivo, e ad Antonio Loreto, che firma le note di lettura finali. Prosa in prosa è scritto a partire da una idea di superamento: da entrambi i testi critici emerge l’idea che la poesia come espressione della propria soggettività, formalizzata attraverso il ricorso a convenzioni metriche, sia un fenomeno superato. Un momento di rottura viene considerato proprio il primo decennio degli anni Zero: in questo periodo si sarebbe sviluppata una scrittura «di ricerca», considerata parte di un nuovo genere letterario – se non di una nuova fase estetica – che si serve della prosa piuttosto che del verso. Ora, la poesia in prosa è un fenomeno da far risalire almeno all’inizio dell’Ottocento; la sua espressione moderna è generalmente ricondotta alle opere di Bertrand (Gaspard de la nuit, 1842) e di Baudelaire (Spleen de Paris. Petit poèmes en prose, 1864). In Italia gli studi più importanti su questa forma letteraria, fino a ora, sono quelli di Giovannetti, che hanno messo in evidenza una tradizione ancora da sondare. La poesia in prosa più recente parte da un presupposto diverso rispetto a questa tradizione semi-sommersa; nell’antologia del 2009 non si parla di poesia in prosa, ma di prosa in prosa. La costellazione teorica alla quale si appoggiano gli autori in questione è costituita da critici francesi o americani che discutono forme di post-poesia: Jean-Marie Gleize, Christophe Hanna, K. Silem Mohammad, Emanuel Hocquard. L’espressione prosa in prosa, infatti, è un calco da «prose en prose», usato da Gleize nel contesto francese. Guardando più indietro, un autore considerato archetipo sia da Gleize sia da molti italiani è Francis Ponge.
Prosa in prosa ha il merito di avere dato evidenza a una sperimentazione ancora non canonizzata della poesia italiana più recente. Le questioni generali lasciate in sospeso da questa antologia, delle quali bisognerà tener conto in futuro, sono due. La prima è se quello presentato costituisca davvero l’unico esito possibile della sperimentazione letteraria, e se davvero la poesia successiva agli anni Zero, nelle sue forme più originali, sia sempre postuma rispetto alla lirica. La seconda è come la poesia in prosa vada integrata rispetto a quella in versi e rispetto a quella che l’ha preceduta, storicamente, nel Novecento.
Non è questa la sede per approfondire il discorso sulla rilevanza della poesia in prosa in un’ottica di lungo periodo, tuttavia senz’altro non si tratta di un fenomeno marginale. A metà del secondo decennio del secolo in corso la poesia in prosa è un fenomeno che ha una posizione di avanguardia; ma proprio le antologie, da sempre sismografo del canone letterario della poesia, segnalano che la sua origine è precedente. Anche nel primo Novecento collane di poesia pubblicavano libri in prosa, e antologie prestigiose come Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi includevano poesie in prosa e poesie in verso. Rimane ancora da capire, dunque, che legame ci sia fra la poesia in prosa di un secolo fa e quella degli ultimi due decenni.
Poeti degli anni Zero di Vincenzo Ostuni, numero monografico dell’Illuminista (Ponte Sisto, Roma, 2011), ha alcuni elementi in comune con l’antologia di Giovannetti. Il punto di partenza è una definizione della «poesia di ricerca»: questa consiste, innanzitutto, nella rinuncia al tradizionale suicentrismo della lirica (Ostuni 2011, p. 18). Volendo definire gli aspetti caratterizzanti la poesia di ricerca italiana, Ostuni cita dei criteri distintivi elaborati da Paolo Zublena, all’interno di un’altra antologia, intitolata Nuovi poeti italiani (numero monografico di Nuova Corrente, Genova, 2005). Zublena, a sua volta, riprende una precedente definizione di Enrico Testa. La nuova «poesia fuori del sé», seguendo Poeti italiani degli anni Zero, presenterebbe le seguenti caratteristiche:

In primo luogo, una maggioranza qualificata di poeti qui antologizzati pratica attivamente altre arti, portando queste loro dimensioni espressive a interagire fittamente con la testualità. […] Questo aspetto merita di essere studiato a fondo e qui non ci limitiamo che ad annotarlo […]. Esiste un altro senso in cui la poesia è uscita fuori di sé. Si tratta della risorgenza della poesia in prosa, o meglio (i coinvolti tengono molto alla distinzione) della «prosa in prosa», titolo dell’altro “fuoriformato” che ha avuto il merito di portare il fenomeno alla piena attenzione degli addetti. Non solo scrivono in prosa Bortolotti, Giovenale, Inglese e Zaffarano, ovvero i quattro dei sei autori di Prosa in prosa inclusi in questa antologia: ma lo fanno o lo hanno fatto anche Calandrone, autrice di interessantissimi prosimetri, Marzaioli, Riviello, Sannelli e in qualche misura Ventroni. Fra gli esperti del sottogenere, o del non-genere, ci si divide sull’appartenenza di questo alla prosa o alla poesia, ma a noi pare che, al di là di questioni nominalistiche, queste prose siano poeticamente apparentabili alla poesia (Ostuni 2011, p. 21).

Ostuni, dunque, prende atto del lavoro di Giovannetti e di un cambiamento che riguarda la percezione dei generi e di ciò che li identifica: la poesia di ricerca, all’opposto di un secolo fa, è quella che mette da parte l’io. Questo scenario è senz’altro interessante, e una periodizzazione sul lungo periodo dovrà tenerne conto. Una visione di questo tipo, tuttavia, presenta due limiti. Il primo è un difetto di prospettiva. In altre parole, se oggi è molto diffusa l’opinione che la prosa non narrativa sia, di per sé, più innovativa di quella che si dichiara poetica o della poesia in versi, è perché in questa fase alcuni degli autori che praticano il primo tipo di scrittura ambiscono a una posizione egemonica nel campo letterario,[5] e la costruiscono attraverso una autorappresentazione molto visibile (anche perché sfrutta i mezzi attualmente più efficaci, cioè quelli digitali).
Il secondo rischio è assolutizzare una definizione di ricerca letteraria che presuppone il rinnovamento formale come unico rinnovamento possibile. Ciò non permette di cogliere la sperimentazione di poeti più tradizionali, dal punto di vista delle scelte formali, ma altrettanto impegnati nella rappresentazione di un soggetto lirico non monocorde, ma scisso e poliforme.

Non nominerò, in questo provvisorio bilancio, altre raccolte copoetiche (sulle quali pure ci sarebbe da dire), tematiche, generazionali, ecc. Vorrei considerare un altro tipo di antologia, quella di genere.
Le parole tra gli uomini. Antologia di poesia gay italiana dal Novecento al presente, a cura di Luca Baldoni, è una raccolta pubblicata a dicembre 2012 a Roma per Robin Edizioni (439 pagine); Nuovi poeti italiani 6 è un’antologia curata da Giovanna Rosadini, uscita a luglio 2012 a Torino per Einaudi (301 pagine).
I due libri hanno alcuni punti in comune: il primo è che la selezione si basa su un criterio vincolante di tipo non letterario, il gender. In Nuovi poeti italiani 6 sono antologizzate soltanto donne, e ci sono testi di dodici poetesse; Le parole tra gli uomini comprende poesie di quarantanove poeti omosessuali. Dai saggi introduttivi dei curatori emerge che le due raccolte condividono un altro aspetto, cioè l’aspirazione a colmare una lacuna critica. Baldoni lamenta la marginalizzazione degli studi sulla letteratura omosessuale italiana, e la loro non integrazione nella critica ufficiale; Rosadini ha come punto di partenza la «storica precarietà della poesia femminile nel canone letterario italiano» (Rosadini 2012, p.VI), alla quale vuole contrapporre una tradizione ancora sommersa e una notevole vivacità attuale. Le parole tra gli uomini e Nuovi poeti italiani 6 vivono la contraddizione fra la dimensione del museo e quella del manifesto che è tipica del genere antologico: da un lato propongono (Baldoni) o suggeriscono (Rosadini) una tradizione nuova o non ancora sufficientemente studiata; dall’altro descrivono una realtà in divenire, che riguarda autori viventi, sulla quale il dibattito è ancora aperto. Le caratteristiche dell’antologia militante si scontrano con l’intenzione di proporre un canone, come spesso è avvenuto nelle crestomazie di poesia italiana del Novecento.
La critica che si è occupata di queste due raccolte, perlopiù, si è preoccupata di smentire o sostenere la legittimità di una distinzione basata sul gender. In realtà Nuovi poeti italiani 6 e Le parole tra gli uomini rappresentano due proposte di integrazione al canone contemporaneo, e vanno analizzate come tali. Il parametro alla base della scelta antologica è senz’altro importante, le scelte metodologiche e i testi presentati meritano altrettanta attenzione. Da questi punti di vista, i due libri sono molto diversi fra loro.
«Essere personalmente convinti della mancanza di differenza sostanziale tra amore eterosessuale e amore omosessuale è irrilevante rispetto allo stato dell’arte» (Baldoni 2012, p. 12): Le parole tra gli uomini non è un’antologia ghettizzante, perché non ha come primo movente la rivendicazione di specificità della poesia gay rispetto a quella d’amore eterosessuale. Piuttosto, i suoi punti di partenza sono due: la constatazione di una censura che riguarda testi significativi di alcuni poeti del Novecento (ad esempio Penna, Saba, Pasolini) nell’analisi critica ufficiale e nelle antologie non di genere, a causa del loro contenuto esplicitamente omosessuale; la necessità di considerare l’identità gay per integrare l’analisi critica di alcuni poeti il cui esordio è avvenuto dopo il 1971, come Buffoni, Bellezza o Simonelli. Quella allestita da Baldoni è, a tutti gli effetti, un’antologia d’autore, e infatti comprende una ricchissima introduzione. Baldoni non si limita a ricostruire la storia della poesia omoerotica italiana e del suo riconoscimento critico, ma fa continui paralleli con la storia della poesia del Novecento in generale, nella quale vuole inserire elementi mancanti. Più che la questione delle origini, a questo proposito, è interessante che gli anni Settanta e gli anni Zero siano considerati momenti di svolta.
Il lavoro di Baldoni si rivela utile per descrivere i cambiamenti che avvengono nella generazione del Pubblico della poesia, nonché per spiegare e delineare il profilo di poeti esordienti negli ultimi anni (ad esempio, Marco Simonelli).
Le parole tra gli uomini risponde a una necessità di analisi critica del panorama poetico degli ultimi trent’anni, all’interno del quale, per definire la poetica di alcuni autori, l’identità di genere è diventata più o altrettanto importante rispetto alla tradizionale bipartizione fra neoavanguardia e poesia neo-orfica. La scelta migliore si rivela quella «inclusiva», che integra la nuova categoria alle altre di cui ci si serve per descrivere un testo poetico. Qualcosa di simile, d’altronde, è accaduto alla poesia dialettale nel corso del Novecento: dopo gli studi e le antologie militanti degli anni Cinquanta e Sessanta, l’assimilazione nel canone della poesia in dialetto accanto a quella in lingua italiana è avvenuta con Poeti italiani del Novecento (1978).
Nuovi poeti italiani 6 parte da un’ ipotesi di fondo, e da una conseguente rivendicazione: esiste una specificità femminile nella scrittura di versi; nella poesia del Novecento la scrittura femminile è stata marginalizzata. Già in questo presupposto è evidente un primo punto di debolezza dell’antologia: la curatrice lamenta scarsa attenzione e rappresentanza della «poesia delle donne» nella storiografia letteraria ufficiale, senza però preoccuparsi di documentarla. A differenza di Baldoni, Rosadini non introduce ricostruzioni a sostegno della propria tesi. In una nota introduttiva di ventidue pagine, soltanto due paragrafi sono dedicati all’evoluzione della poesia femminile nell’ultimo secolo e alla sua storicizzazione: vi si ripropone l’ormai canonica critica all’antologia di Mengaldo, cioè di avere incluso soltanto una donna nella propria selezione (Amelia Rosselli). Rosadini accenna brevemente al periodo in cui la scrittura femminile diventa più importante in Italia, gli anni Settanta, ma non propone un’analisi né ricorre a teorie critiche di qualsiasi tipo (storico-sociologiche, psicologiche, linguistiche) per interpretare questo cambiamento.
Da un punto di vista metodologico, l’antologia presenta diversi elementi di debolezza: le categorie critiche delle quali Rosadini si serve sono molto generiche. Ad esempio, l’attenzione alla rappresentazione del corpo e, in generale, la componente viscerale della scrittura rappresentano l’aspetto più ripreso dalle autrici che scrivono sulla scia di Amelia Rosselli: Rosadini riprende in modo acritico questa vulgata, parcellizzandola e distribuendone alcune parti fra le varie autrici antologizzate (ricerca di identità nel linguaggio per Bukovaz, Attanasio, Fantato, Mancinelli; valore sciamanico della lingua per Calandrone, ecc). Molto spesso il lessico usato per descrivere la poesia delle autrici antologizzate è retorico e, da un punto di vista critico, inconsistente. Un esempio, fra i molti possibile: «una poesia che ha bisogno di corpo, natura. Che si fa corpo e natura… Una scrittura che ha, sempre, una temperatura maggiore rispetto a quella maschile. Anche in virtù del grado di empaticità di cui è portatrice…» (Rosadini 2012, p. XII).
Cosa si intende, esattamente, per «poesia che si fa corpo»? E in cosa l’empaticità di questi versi è diversa da quella di analoghi esempi di autori maschili? La poesia femminile, leggendo questa introduzione, appare caratterizzata da una generica percezione del corpo, del dolore, della matericità. Nuovi poeti italiani 6 è un buon esempio di quel «gergo critico», tanto presente nell’analisi critica di poesia femminile degli ultimi anni (cfr. Marchesini 2012), nel quale si intrecciano tecnicismi inutili, non sempre usati in modo corretto, e parole che sembrano mimare un’idea di lirismo all’interno della scrittura saggistica. Studi di questo tipo non descrivono il modo in cui i soggetti delle poesie si confrontano con la realtà, né mettono a fuoco particolari stilistici rilevanti.
Alcune contraddizioni riguardano anche i contenuti dell’antologia, ossia la selezione dei testi. Nuovi poeti italiani 6 aspira a non venire classificata come antologia di tendenza, in quanto la curatrice spiega di non voler sostenere una poetica precisa: «Il punto di partenza sono i dati dell’esistente, piuttosto che un’indagine finalizzata allo scouting, alla ricerca di nuovi talenti» (Rosadini 2012, p.VII). Per questo motivo sono escluse le autrici sotto i trent’anni. Le dodici poetesse selezionate sono accomunate «da un criterio qualitativo più che di gusto personale». Di fatto, però, vengono tralasciate poetesse che realmente hanno rielaborato l’eredità di Rosselli, ma senza partire dalla rivendicazione di una differenza, come Anedda (1958) o Valduga (1953). Ha forse influito la questione anagrafica, dal momento che Rosadini scrive di volersi concentrare sulla generazione nata a partire dal 1960; eppure Candiani e Airaghi, incluse nell’antologia, sono nate rispettivamente nel 1952 e nel 1953.
Nelle pagine conclusive del saggio di Rosadini viene ribadita l’intenzione di non procedere suggerendo correnti, gruppi, poetiche; tuttavia è riconosciuta la presenza di una «comunità di poetesse» in Italia, fra le quali si riscontrerebbero influenze reciproche. La sensibilità viene spiegata in questo modo: «Diverse fra loro si conoscono e frequentano, a titolo personale… Il mondo della poesia italiana è un piccolo mondo, e, per quanto allo stato attuale, come si è detto, non si possa parlare di gruppi o scuole letterarie, certamente esistono influenze reciproche, dovute ad amicizie, simpatie umane e stimoli intellettuali» (p. XVII). Da queste frasi emerge una possibile spiegazione dell’esclusione di autrici come Valduga, Anedda, Gualtieri: nessuna di loro partecipa della «sensibilità comune» che Nuovi poeti italiani 6 considera il fondamento di una «poesia delle donne», e che guida la selezione di Rosadini. Questa, in conclusione, non si basa su questioni di poetica né su nuove categorie interpretative, ma su frequentazioni sociali e su «amicizie e simpatie umane».
Mentre Le parole tra gli uomini si predispone esplicitamente ad una integrazione del canone, e non alla rivendicazione di un’alterità, il rischio di Nuovi poeti italiani 6 è quello di promuovere una selezione basata esclusivamente su elementi extraletterari (sui rapporti sociali fra le sue esponenti) oppure su un’idea di femminilità intesa come intimismo e attenzione al microcosmo privato, che appare piuttosto debole.
L’ultima antologia da considerare è La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, pubblicata da Ladolfi nel 2012. Fantuzzi parla di una «generazione in ombra»; lo stesso concetto è ribadito nella postfazione, dove si fa riferimento a una «generazione senza padri». Sia Fantuzzi sia Ladolfi ritengono importante sostenere non un movimento, quanto dei testi e delle personalità. Entrambi si riferiscono a una idea di poesia come edificazione: evidenziano l’importanza della vocazione civile, da un lato, e della dimensione comunicativa, che riguarda il rapporto con il fruitore, dall’altro:

La risposta insomma a questo profondo intorbidimento deve essere compiuta altrove e ne danno prova proprio alcuni degli autori qui presentati […], in grado con la propria attività quotidiana, fatta di produzione di festival e lavoro nelle riviste e nei quotidiani di uscire dai luoghi riconosciuti e secolarizzati per affrontare tutto quel vasto mondo di potenziali fruitori, di potenziali lettori di cui la nostra poesia ha estremo bisogno per sopravvivere a logiche sempre più legate al mercato nelle quali quello che viene reputato di nicchia o che quanto meno non si comporta da best seller deve inevitabilmente scomparire per fare posto a prodotti magari di minore qualità ma di sicura performance (Fantuzzi 2012, p. 7).
[…]Ritornano invece altrettante tematiche […], ritorna appunto una poesia sociale (piuttosto che civile) che per vivere deve necessariamente stare in mezzo alle persone, e non in qualche luogo polveroso abitato solamente da pochi addetti. Non per niente questa è una generazione che ha visto (lo ribadisco) proprio nei festival da una parte e nelle nuove piazze mediatiche dall’altra la propria maggiore valvola di sfogo [….] (Ivi, p. 9).

Questo ultimo punto, e questa ultima antologia analizzata, mi permettono di introdurre una sintesi e delle conclusioni generali, per quanto precarie.

 

  1. Questioni aperte

Le raccolte dell’ultimo quindicennio hanno rilanciato il genere dell’antologia come luogo di discussione e di formazione del canone, e hanno contribuito a rinnovarlo. Le questioni da affrontare, per un futuro antologista, sono molte; cercherò di riepilogare quelle che mi sembrano più rilevanti.
Un primo problema riguarda la cronologia: quali dovrebbero essere gli estremi di una nuova crestomazia poetica? Per quanto le date non vadano mai considerate in modo rigido, in alcuni casi possono avere un valore simbolico; la scelta di un anno o di un altro, come punto d’avvio di una antologia, indicherà una diversa interpretazione della storia letteraria. La poesia del Novecento, ad esempio, inizia ad apparire autonoma rispetto a quella del secolo precedente anche grazie alla precoce antologizzazione separata (cfr. Scaffai 2006, p. 90) e all’infittirsi delle antologie d’autore fra gli anni Quaranta e l’inizio degli anni Ottanta (cfr. Giusti 2004). Da questo punto di vista, l’antologia di Contini del 1968 (che vede la poesia contemporanea in continuità con quella tardo-ottocentesca) rappresenta un fenomeno in controtendenza.
Guardando al contesto poetico attuale, è chiaro che individuare una cesura negli anni Sessanta, sulla scia di Testa e Piccini, vuol dire attribuire agli autori post-montaliani e alla Neoavanguardia il merito di avere apportato l’ultima forma di rinnovamento alla poesia italiana; considerare un momento di svolta la metà degli anni Settanta, invece, significa riconoscere l’importanza di un mutamento che è innanzitutto sociologico. Nell’ipotesi in cui questa ultima cesura venga assunta come la più importante, si pone un altro interrogativo, che coinvolge il termine ante quem: la poesia degli ultimi anni è da considerarsi in continuità rispetto a ciò che l’ha preceduta? Un tentativo di canonizzazione della tradizione successiva al 1975 dovrebbe arrivare ai primi venti anni del nuovo secolo, oppure avrebbe più senso isolare ed evidenziare gli elementi di novità di una ipotetica nuova fase?
Anche le scelte da compiere dal punto di vista metodologico sono più di una. I criteri con i quali si possono classificare le antologie sono riconducibili a due gruppi principali: di tipo intrinseco, riguardanti contenuto e struttura dell’opera; di tipo estrinseco, cioè «non direttamente connessi con i testi o con la forma del macrotesto antologico, come editore e curatore» (cfr. Scaffai 2006, p. 90). Dal punto di vista della struttura e del contenuto, le antologie di genere, tematiche e generazionali degli ultimi quindici anni hanno arricchito il panorama critico e storiografico; inoltre il dibattito critico intorno alla fine della tradizione e del canone ha ormai superato la sua fase più apocalittica (collocabile tra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Zero): sembra giunto il momento, dunque, di una nuova antologia d’autore, che abbia il coraggio di proporre una tradizione adottando un ordinamento diacronico[6] e policentrico.
Per quanto riguarda la figura del curatore, negli ultimi anni non si è imposta una tendenza dominante: se la maggior parte delle antologie sono state allestite da poeti (fra quelle nominate: La generazione entrante di Fantuzzi, Dopo la lirica di Testa, Trent’anni di Novecento di Bertoni, Nuovi poeti italiani 6 di Rosadini, Poeti degli anni Zero di Ostuni), è anche vero che una delle più autorevoli, Parola plurale, si è schierata esplicitamente contro l’antologia copoetica. Come abbiamo visto, gli otto curatori dell’antologia Sossella (nessuno dei quali è autore di poesie) considerano la sovrapposizione fra il ruolo di chi allestisce l’antologia e quello del poeta una contraddizione insolubile, corresponsabile del decadimento del genere antologico: i poeti che selezionano altri poeti vivono un conflitto di interesse, che li porterebbe a cercare di valorizzare la propria poetica attraverso le scelte antologiche. Ciò è senz’altro possibile, ma non si tratta di un fenomeno tipico degli ultimi anni: anche l’antologia di Sanguineti, ad esempio, presenta come esito naturale della poesia contemporanea la Neoavanguardia; tutta la selezione di Poesia italiana del Novecento risente della poetica del curatore. La parzialità non rende storicamente meno importante questa antologia; né d’altronde è inevitabile, come si evince dallo studio di altre antologie copoetiche, ad esempio quelle di Fortini e di Porta.
Il rischio che un autore sfrutti l’antologia come luogo per siglare un’alleanza basata soltanto sul mutuo supporto, e non sulla condivisione di idee o valori poetici – questa costituisce la principale argomentazione di chi condanna le antologie copoetiche – è senz’altro presente. Al tempo stesso, si tratta di un rischio che riguarda anche le antologie curate da saggisti o studiosi che non scrivono versi. Il problema che Parola plurale ed altri critici evidenziano rispetto all’antologia copoetica, allora, è di tipo più generale, e ha a che fare con il cambiamento del campo letterario.
A metà anni Settanta, con Effetti di deriva, Berardinelli teorizzava l’inizio di una fase del campo letterario alla quale la storiografia critica (e antologica) avrebbe dovuto adeguarsi attraverso una parziale rinuncia sia alle proprie categorie tradizionali, sia all’intenzione di formare un canone. Qualche anno dopo, Cordelli è fra gli organizzatori del primo Festival internazionale dei poeti, che si tiene nell’agosto 1979 sulla spiaggia di Castelporziano: qui esplode la dimensione teatrale e performativa della poesia; ma «il vero evento fu la caduta di un’altra parete, fino a quel momento invisibile: quella fra la poesia e il suo pubblico» (Cortellessa 2015). Quarant’anni dopo, nell’introduzione a un’altra antologia di giovani poeti, si fa riferimento ai festival come valvola di sfogo naturale per la generazione dei poeti esordienti negli anni Zero, perché la poesia «deve stare necessariamente in mezzo alle persone» (Fantuzzi, cfr. supra).
Stare in mezzo alle persone, d’altronde, oggi vuol dire soprattutto essere online: internet è diventato il palcoscenico principale della poesia contemporanea. Nonostante i blog di critica letteraria non esistessero a metà anni Settanta, sembrano rispecchiare molto bene gli elementi di novità individuati da Berardinelli e Cordelli. «Non vogliamo canonizzare il contemporaneo», si legge, ad esempio, in un editoriale pubblicato su un blog di poesia qualche anno fa (Bosco-Castiglione-Mari 2013), «ci piace pensare a questo progetto come a una serie di sguardi e sensibilità diverse, in grado di recepire la poesia come strumento privilegiato e alternativo ai paradigmi e al discorso dominanti». La fase in cui ci troviamo a metà del secondo decennio del secolo, a ben guardare, appare in continuità con la stagione del pubblico della poesia, apertasi nel 1975 – tra il Nobel a Montale, la morte di Pasolini, l’antologia di Berardinelli, i primi festival poetici di massa. La rivendicazione dell’esclusione dal mercato editoriale come giustificazione della necessità di una alleanza fra poeti è uno degli elementi che contraddistinguono questa fase; un secondo consiste nella crisi delle poetiche «in senso forte»[7]; un terzo nella rilevanza sempre maggiore che fenomeni di tipo extraletterario: la presenza nei festival (Fantuzzi, Rosadini), quella online o su altri media (Fantuzzi, Ostuni).
La combinazione di questi fenomeni può comportare una debolezza delle selezioni antologiche, in quanto sono in contraddizione con la logica del saggio letterario, che è alla base di una antologia d’autore. Altri aspetti di novità, tuttavia, conducono in direzione opposta, cioè ad un rafforzamento dell’impegno critico. In uno studio del 2011, il web viene annoverato tra i cambiamenti esterni che favoriscono una rinegoziazione dei rapporti di forza nel campo letterario contemporaneo. La rete offre ai «nuovi entranti» dei tardi anni ’90 ciò di cui hanno maggiormente bisogno, «un mezzo per scavalcare mediazioni che in quel momento sono in mano ad altri» (Guglieri-Sisto 2011, p. 156). In questo contesto, la poesia e la storiografia critica hanno trovato nuovi strumenti di espressione sia per saldare alleanze «di convenienza» (l’esempio più evidente fra quelli citati è Nuovi poeti italiani 6), sia per costruire riflessioni poetiche. I siti letterari e i blog sono diventati un veicolo importante di testi inediti e di libri del passato; le riviste letterarie attuali catalizzano il dibattito online molto più e spesso molto prima che su carta.[8] I nuovi rapporti di forza presenti nella critica letteraria online hanno determinato un arricchimento del dibattito critico e un rinfocolarsi della critica militante, che fa da contraltare alla perdita delle poetiche «in senso forte».
Secondo un’analisi di Febbraro, proprio le antologie sono fra i luoghi tradizionalmente deputati alla critica di tipo militante:

La critica militante esiste se esiste un’idea del nuovo.. […]perché l’orizzonte della critica militante non è tanto l’oggi, come potrebbe apparire, o l’immediato ieri: è sempre una dimensione potenziale, ancora da percorrere, in grado di sorreggere proiezioni (più che “previsioni”) vastissime, spesso onnicomprensive, rivoluzionarie, che infine si realizzano grazie e malgrado l’opera di ognuno. Chi è stato un letterato militante lo è stato perché sapeva che i libri cambiano il mondo, cambiano chi legge e anche chi li scrive; oppure perché sperava che così fosse. […] Così la critica militante è pienamente attiva anche quando è reazionaria, poiché si fonda su un terreno che deve essere ancora costituito in possesso, o che magari si deve recuperare avendolo perduto: dunque la sua essenza è il movimento, la trazione a sé, il lancio o il rilancio, l’impacificata soddisfazione di ciò che già esiste. Il nuovo non vuol dire allora in assoluto il progressivo […].

La sfida principale per le prossime antologie, dunque, è quella di tenere conto dei mutamenti del campo letterario, per proporne una mappatura che sia policentrica, ma fondata su categorie critiche solide. La presenza di uno o più curatori, così come il loro essere o meno poeti, è una variabile indipendente rispetto a questo obiettivo. Sembra fondamentale, invece, recuperare lo spirito della critica militante.

Gli studi di Verdino, Testa, Scaffai, Giusti e Giovannetti propongono svariate possibili classificazioni delle antologie, che si sono rivelate molto utili in questa analisi. Tuttavia mi pare che una bipartizione più generale abbia attraversato le crestomazie degli ultimi cento anni. Nel Novecento le antologie poetiche (quando antologie d’autore) sono state di due tipi: alcune guidate da un criterio tematico o ideologico, altre di tipo filologico o stilistico. I due orientamenti hanno dato vita a panorami molto diversi: si pensi solo a Fortini e a Sanguineti, da una parte, e a Contini e a Segre-Ossola, dall’altra. Il discorso appena concluso riguardo ai mutamenti del campo letterario rende evidente come le antologie militanti, di solito guidate da principi che potremmo definire ideologici, siano più vulnerabili in un contesto di crisi della «letteratura in senso forte». Le antologie allestite su base stilistica, d’altronde, nell’ultimo secolo hanno rischiato meno sul piano dell’interpretazione, tuttavia non si sono rivelate più resistenti sul lungo periodo. Persino quella di Contini, se riletta oggi, mostra molti limiti: l’analisi, volta a rintracciare la permanenza di alcune caratteristiche linguistiche nel tempo (riconducibili, nel caso di Letteratura dell’Italia unita, alla categoria di espressionismo) non ha permesso di cogliere le tradizioni in grado di incidere sulle generazioni successive. Il tentativo di ancorare la storia delle forme a cambiamenti di portata più ampia su un piano storico e sociale, inoltre, si rivela forzato e non convincente. Infine, l’attenzione all’evoluzione degli stili generalmente induce a vedere più continuità che rottura, dunque si rivela fallace per la periodizzazione su un lungo periodo. Questi limiti, in modi diversi, riguardano anche l’antologia di Testa, quella di Ossola-Segre e quella di Afribo-Soldani. In un unico caso le due istanze – critica filosofica e filologica – hanno convissuto in modo virtuoso, generando l’antologia d’autore più importante del secolo: mi riferisco a Poeti italiani del Novecento di Mengaldo. Vorrei concludere, dunque, rimandando a un passo dell’introduzione all’antologia del ’78:

Tornando alla dicotomia storia/ antologia, ci si può chiedere, più in generale: è veramente possibile fare storia della poesia (del Novecento come di altre epoche) in quanto tale? Devo dire che ne dubito alquanto. Non si tratta solo, per esempio, del pericolo di trasformare la storia letteraria, come è stato detto una volta spiritosamente, in storia dei «generali»: tanto più forte se a tentare il panorama storico sia l’antologista che procede (giustamente) su base selettiva, alla ricerca di canoni ristretti. Di fatto si osserva che le storie della poesia del Novecento in quanto tale tendono generalmente a risolversi, in modo più esplicito (Anceschi) o meno esplicito (Sanguineti, Ramat), in storia delle poetiche novecentesche: assunto lecito, forse anche utile, ma evidentemente altra cosa. Le stesse bellissime Lezioni di Debenedetti finiscono per privilegiare nettamente, e sia pure a scopo didattico, la definizione delle poetiche, a queste riportando l’analisi dei testi quasi come exempla dimostrativi. È ovvio che si può e si deve fare storia di singoli problemi e fenomeni, cominciando da quelli formali e linguistici: ma senza illudersi neppure per un momento che ciò rappresenti per sineddoche tutta la storia della poesia e dei poeti, e sia qualcosa di più, volta a volta, di un capitolo di una grammatica storica degli stili, che sta pur sempre all’analisi delle strutture sincroniche di testi, o intertesti, come la grammatica storica delle lingue alla descrizione di uno stato di lingua.

Se si può esprimere un auspicio per l’antologia del futuro, è che nasca dal confronto con questa riflessione, e che sappia adeguarla allo spirito dei tempi.

 

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[1] Per la definizione delle «antologie di poeti d’oggi» si rimanda a Verdino 2004, p. 68: «quelle che vogliono rubricare l’attività poetica a loro contemporanea, allestendo testi di autori di una o più generazioni, e fornendo mappatura al massimo dell’ultimo cinquantennio di poesia». Come nella tradizione greca dell’Antologia Palatina, dunque, queste raccolte propongono una selezione della migliore produzione poetica loro coeva. Le poesie incluse sono state scritte di norma in un periodo di tempo piuttosto limitato, al massimo un trentennio. Possono essere ordinate secondo un criterio fortemente indirizzato a favore di un’ ideologia, e dunque assumendo che vi sia una linea da privilegiare nella poesia contemporanea (è il caso della Parola innamorata, dove la linea romantico-orfica è ritenuta la migliore degli anni Settanta); oppure con un taglio interpretativo, ma meno esplicitamente valutativo, e dunque cercando di delineare una mappatura più o meno obiettiva degli autori e delle esperienze poetiche più importanti del periodo considerato Scaffai, invece, definisce le antologie di questo tipo «generazionali» e «cronologiche», e le distingue da quelle «canoniche» vere e proprie. Cfr. Scaffai 2006, pp. 75-99.

[2] Bertoni nomina, a questo proposito: il declino delle tre grandi collane di poesia italiana (la «bianca» di Einaudi, lo «Specchio» Mondadori, la «Verde» di Guanda); l’irrilevanza della poesia nel mercato editoriale; la dimensione di nicchia di premi e festival letterari ai quali è affidata la diffusione e la promozione della poesia.

[3] Cfr. al riguardo i capitoli (in entrambi i casi conclusivi) di Mazzoni 2005 e di Giovannetti 2009; ma anche, in tempi più recenti, le discussioni sorte intorno all’attribuzione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Al riguardo, in ambito italiano, cfr. Sarno 2016.

[4] Cfr. Sanguineti 1969, p. XXVII, ma anche le dichiarazioni successive di Sanguineti riguardo all’antologia, raccolte in un’intervista rilasciata a Stefano Verdino (Verdino 2004, p. 96).

[5] Mi riferisco alla definizione di autonomia dell’arte e del campo letterario data da Pierre Bourdieu, cfr. Bourdieu 2013,soprattutto pp. 103-173.

[6] L’andamento diacronico è quello in cui gli autori sono selezionati e disposti in ordine cronologico, in base alla data di pubblicazione delle loro opere principali, piuttosto che seguendo le date di nascita. Si tratta del criterio che Mengaldo definisce «del floruit», diventato ormai canonico a partire da Poeti italiani del Novecento, come si è già ricordato a proposito dell’antologia di Piccini. L’ordinamento diacronico attribuisce più importanza all’opera che non all’autore, e permette di mettere in rilievo come le opere pubblicate nello stesso periodo abbiano dialogato fra loro, talvolta influenzandosi, anche quando appartenenti ad autori nati in generazioni diverse.

[7] Parlo di «poetica in senso forte» per riferirmi a un’idea della letteratura basata su convinzioni ideologiche. Questa definizione si basa, da un lato, sulla definizione di poetica data da Luciano Anceschi: «riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali» (Anceschi 1962, p. 46); dall’altro, sulle osservazioni riguardo alla «letteratura in senso forte» di Gianluigi Simonetti (Simonetti 2015). Simonetti si riferisce, più in generale, alla letteratura, ma lo stesso discorso può essere fatto per la poesia, e in particolar modo per la concezione tradizionale di poetica.

[8] Il dibattito intorno a Poeti degli anni Zero, ad esempio, è stato innescato dalla pubblicazione dell’introduzione di Ostuni sul blog Nazione Indiana, ben prima che il volume fosse letto e recensito su riviste e quotidiani cartacei. Anche buona parte della discussione intorno a Prosa in prosa si è svolta soprattutto online.

 

[Immagine: Cy Twombly, Roses (gm)]

19 thoughts on “Le antologie di poesia italiana del XXI secolo

  1. Una ricostruzione storico-letteraria per essere condivisibile deve considerare gli elementi di continuità e le esperienze fuori dagli schemi delle poetiche e dei gruppi. Prima del 1960 c’era forse il nulla? I tempi sono maturi per una presa delle distanze dalla distinzione tra cultura “ufficiale” e “sottobosco letterario”. Da segnalare assolutamente è l’impegno della Forum /quinta generazione, per la sua ricerca centrata sulle regioni italiane e per l’antologia “Care Donne”, curata da Elia Malagò (1980). Un’altra antologia che è stata rimossa dell’immaginario culturale è quella di Newton Compton “La poesia erotica italiana del novecento” , curatore Carlo Villa (1981). Che dire poi della troppa noncuranza e delle omissioni? Si sentirebbe il bisogno di un’idea più trasparente di ricostruzione storica, senza la quale perde di efficacia ogni tentativo ulteriore di tracciare itinerari e disvelare esperienze. Dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione tutto quanto è dato per acquisito e misurarci con gli “outsider” della letteratura, gli autori scomodi che non sono stati riconosciuti appieno in vita. Marzia Alunni (figlia di Maria Grazia Lenisa)

  2. Le antologie di poesia italiana del XXI secolo… ecco qualcosa di cui si sentiva veramente la mancanza….

  3. Premettendo i miei complimenti a Claudia Crocco almeno per l’impegno profuso, vorrei altresì far notare la mancanza, nella Bibliografia, di riferimenti agli interventi critici di Gilda Policastro. Tale mancanza rende il lavoro di Claudia Crocco alquanto deficitario perché non si può trattare un tema fondamentale come quello delle antologie di poesia italiana del XXI secolo, senza prendere spunti dall’opera del critico più importante del XXI secolo.

  4. DA EXTRAUNIVERSITARIO, DA MAI ANTOLOGIZZATO, DA VECCHIO CRITICO CHE HA ACCETTATO DI ASCOLTARE ANCHE QUELLO CHE SCRIVONO I GIOVANI AVVIATI A BALDANZOSE CARRIERE, RIPUBBLICO LA MIA OPINIONE (IN BREVE) SU “PAROLA PLURALE”, L’UNICA ANTOLOGIA CHE LESSI QUANDO USCÌ. (QUELLA LUNGA ME LA TENGO PER ME):

    Ennio Abate: Una parola quasi plurale. Sull’antologia di Sossella editore (giugno 2007)

    Parola plurale è un’antologia. Presenta testi di 64 poeti italiani contemporanei e il lavoro critico su di essi compiuto in modo collegiale e in cinque anni da otto giovani critici. Il titolo, ripetuto nella variopinta copertina in molte lingue, oltre a sintetizzare questa molteplicità di voci, rimanda al criterio che ha guidato la preparazione dell’opera: la poesia non è più un linguaggio unitario e ampiamente condiviso ma solo una parola plurale, a comunicazione più precaria e limitata.L’introduzione, 1975-2005. Odissea di Forme, motiva la scelta di esplorare «empiricamente», senza pretese di «canonizzare e storicizzare il presente» la produzione poetica italiana dell’ultimo trentennio: attorno al 1975 – anno per gli autori fortemente simbolico (Montale ottenne il Nobel, fu ucciso Pasolini e uscì Il pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli, antologia cult da cui questa prende le mosse) – s’è aperta una «faglia epocale» (causa più lontana e profonda il ’68) che ha separato la Poesia Moderna, dotata di una «Idea della Forma», da quella d’oggi. Questa – novella Ulisse – vive altre peripezie, una «Odissea di Forme» appunto – trattate qui in 4 capitoli (deriva di effetti, ritorno alle forme, rimessa in moto, apertura plurale) dove i poeti selezionati – noti, meno noti, sconosciuti – vengono distribuiti. Un occhio sociologico (alla Bourdieu) nota tra loro una cresta di docenti universitari, una corona di dottorandi e collaboratori dell’editoria, uno spruzzo d’insegnanti di scuole medie e una rara avis “proletaria” (la Grisoni). Uno geografico (alla Dionisotti) s’accorge di preferenze e competizioni tra personalità, dipartimenti e case editrici delle ex-patrie lettere. Lealmente dichiarata, ad esempio, è l’avversione al canone «aziendale» dei “mondadoriani” (Cucchi-Giovanardi) e ai poeti-antologizzatori (Loi-Rondoni, ecc.), che nella «latitanza della critica» ne hanno preso malamente il posto. L’inventario dei testi poetici, presenti in proporzioni diverse per ciascun poeta ma abbondante (il volume è di oltre 1100 pagine a caratteri tipografici spesso minimi e con una sterminata bibliografia), va da quelli tendenti alla prosa o ai «romanzi poetanti» a quelli che recuperano le forme metriche tradizionali o i dialetti, dal taglia e cuci neoavanguardistico allo scandaglio del corporeo post-human. Deriva, corpo, quotidiano, forme, tragico, deformazione, plurale, homo massmediale sono le nozioni ricorrenti nei saggi generali o dedicati ai singoli poeti. L’antologia non smentisce, dunque, il proprio titolo, pur ragionando su una sezione della produzione poetica contemporanea comunque ristretta: quella monitorata da alcune cattedre universitarie (Roma in primis) e da alcuni editori “minori”. La matrice “para-elitaria” è evidente nei tic e vezzi linguistici di molti saggi, nelle preferenze filosofiche heideggeriane e nicciane d’area soprattutto francese (ricorrono i nomi di Deleuze, Nancy, Artaud, ecc.), in certe vischiose complicità generazionali. Si tratta però di un’opera seria, colta e agguerrita e che ha il coraggio di misurarsi con l’odierna nebulosa poetante invece di ignorarla come fa gran parte della critica accademica. Due le obiezioni da muoverle. La prima. Imboccata la via del plurale, del molteplice (di Deleuze insomma e sullo sfondo – pare – della «democrazia assoluta» di Spinoza), non si capisce bene perché i curatori insistano ancora a fare un’antologia, anche se più plurale di altre. In altri termini (politici), sembrano contraddire le loro premesse e adattarsi ad allargare (relativamente) la sfatta «democrazia reale» del Parnaso italiano. E forse per questo nel limaccioso mare magnum della poesia o similpoesia (Raboni) odierna essi gettano, senza un drastico e indispensabile riesame, le medesime reti dello specialismo universitario forgiate sul culto dei Grandi Autori, rischiando di prendere i soliti pesci. Si potrebbe pensare di loro quello che diceva Tocqueville di sé: «Sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla». Aristocratici non sembrano. Ma impressiona la mole di materiale critico e poetico, a volte più che complesso, offerto (o scaricato addosso?) a lettori con tutta probabilità distanti da queste problematiche e che dovranno arrangiarsi ad esplorarlo (anch’essi «empiricamente»?) come potranno. La loro è sì una parola plurale ma senza note. E mancano soprattutto quelle che aiutino a distinguere il plurale che libera da quello che opprime (in lingua mortua pre 1975: del Capitale). La seconda. La poesia – dicono troppo ottimisticamente gli autori dell’antologia – «serve, eccome, serve a tutti appunto senza servire nessuno». L’affermazione è generosa e simpaticamente paradossale. Ma siamo proprio sicuri? Le inquiete interrogazioni di alcuni dimenticati maestri del passato, qua e là omaggiati ma in realtà evitati – ad esempio di un Fortini sui confini della poesia (arte e poesia non saranno «fiori sulle catene»?) – sono bellamente saltate. Si ha insomma l’impressione che gli autori abbiano troppa fretta di celebrare il nòstos della poesia. Ma in quale Itaca essa torna in tempi di globalizzazione (e di guerra globale)? Sarà un nòstos di resistenza o di accomodamento?

  5. In merito alle due antologie di “genere”, mi preme sottolineare che gender e orientamento sessuale non sono la stessa cosa. L’identità di genere, il sesso biologico e la sessualità non sono sinonimi, esprimo tre concetti ben diversi. Nuovi poeti italiani 6, ad esempio, potrebbe proporre una sfida a questa tricotomia.

  6. Grazie a tutti quelli che sono intervenuti.

    @Gian Pietro Leonardi.
    Non ho mai detto che gender e orientamento sessuale sono la stessa cosa.
    Non vedo in che modo Nuovi poeti italiani 6 potrebbe «proporre una sfida a questa tricotomia»; inoltre non credo che la storia della letteratura debba occuparsi di porre sfide politiche.

  7. “Non credo che la storia della letteratura debba occuparsi di porre sfide politiche”.

    E tutta l’avanguardia quindi? e Sanguineti?

  8. Leggo una ricognizione critica sulle antologie del primo scorcio di XXI secolo di grande qualità (anche “accademica”, ma non nel senso deteriore del termine), e vedo poi come la discussione vada subito a derivare verso quei temi politici (includendo qui anche la riflessione sul gender) che però, come ricordava la stessa autrice, non si possono porre a priori, e per necessità, di questa stessa ricognizione (o di altre).
    Beninteso, letteratura, critica e lavoro culturale sono continuamente attraversati, quando non determinati, da costrutti ideologici, valori e posizionamenti politici, ma il punto dirimente resta, forse, capire come tale ‘politica’ si costruisca più precisamente entro le antologie di poesia, quale sia stato il loro contesto di fioritura nei primi anni Duemila e perché ciò sia avvenuto in luogo di un gesto critico singolare, magari ‘forte’ (che pare essere da tempo assente, o non riconosciuto) e in uno spazio che è venuto subito prima di quelle “mappature” che hanno dato una finta orizzontalità democratica al dibattito, mai accrescendolo.
    Come parte in causa, poi, osservo la permanenza delle linee proposte dal “Pubblico della poesia” di Berardinelli e Cordelli nell’impostazione del lavoro di “In realtà, la poesia”, riferimento per noi non così chiaro e diretto, e sul quale stiamo riflettendo. (Con una domanda, anche: “come uscirne?”).

  9. Proporre, oggi, il tema dell’antologie di poesia in Italia ha poco senso. è come rincorrere i soliti schemi di posizionamento che il web e il cambio di paradigma di lettura e fruizione hanno già ampiamente modificato e stravolto. ogni antologia era comunque un codificare dall’alto, secondo una sorta di autorevolezza data da gruppi di forza, i Nomi. non avendo altri mezzi che il cartaceo era anche facile gestire e imporre linee e scelte. oggi il web, che tutti usiamo, non si muove per rapporti gerarchici di potere e di imposizioni di linee. se questo accade ancora, almeno in Italia, è per il perdurare di quella mentalità negli addetti ai lavori. oggi chi legge, chi ha consapevolezza, ha tutti gli strumenti per potersi avvicinare agli autori di cui necessita senza bisogno di mappe calate dall’alto da ipotetici critici demiurghi. in Italia sembra che esistano ancora una e due riviste cartacee di Poesia, 5 case editrici di peso, come 40 anni fa. quando la realtà è totalmente diversa. le ultime uscite mondadoriane, i vari Ponso, Pellegatta, Bernini, testimoniano del declino di autorevolezza di una casa editrice come la Mondadori in ambito poetico. così come i Giovenale, Ostuni, Inglese ecc e i loro seguaci Menicocci, Bellomi, Teti ecc, tutti nomi che non hanno spinto il loro presunto discorso di ricerca oltre la loro cerchia. ricerca che pare datare al 1960 italiano, in una serie di poesie-cover avanguardistiche spacciate per novità. Vedere citati sempre gli stessi 20 poeti che si citano tra di loro, che si pubblicano tra di loro, che si recensiscono tra di loro, che si lodano tra di loro… quale credibilità può dare a un discorso di mappatura reale? quando un giorno, magari non lontano, vedremo un minimo accenno di critica pubblica mossa da uno del gruppo di poesia di ricerca verso il libro di un altro membro del gruppo di poesia di ricerca magari il loro lavoro potrà apparire sotto una luce diversa. per il resto, pare che in Italia si senta incessantemente il bisogno di cercare due tre voci Critiche in grado di dare finalmente vita all’antologia definitiva. il tutto in un’ansia da Canone di cui non si ha più la necessità.

  10. Ansia da canone? Quelle antologie la elaboravano in un certo modo, del quale va comunque dato conto, soprattutto ora che la forma-antologia, da qualche anno, non è così frequentata, e che la tensione verso l’antologia definitiva non è risolta (né per un verso né, a dire il vero, per l’altro). Sulla datazione di tutta la poesia di ricerca al 1960 e su certe linee di filiazione non mi trovo molto d’accordo, mentre mi sembra chiaro e convengo sul fatto che la critica “pubblica” verso i “consimili” (nonostante l’ambiguità materiale di entrambi i termini che metto fra virgolette) anziché la forma-antologia potrebbe far emergere qualche Criticità di sicuro interesse, uscendo dalle dinamiche di cerchia.

  11. Se interessa il fronte d’onda critico, come in prosa alla lettura di Michele Mari (1955) va preferita quella di Hacker News (2015), alle antologie di poesia (1960) vanno preferite le collettive di arte visiva (1990) e per chi proprio non ha radici gli hackathon a tema (2020).

  12. @Claudia Crocco: “I due libri hanno alcuni punti in comune: il primo è che la selezione si basa su un criterio vincolante di tipo non letterario, il gender” [cit.].
    Ripeto, il gender degli antologizzati dall’ottimo Luca Baldoni è di per sé un elemento extratesto, benché potrebbe essere rilevante e rivelatore. Temo che lo sia anche per Nuovi poeti italiani 6.
    Infine, secondo lei, le altre antologie non “genderizzate” non esprimono una comunque un’ideologia? Quindi una un’istanza politica?

  13. Leggo ahimè solo oggi l’articolo di Claudia Crocco, a suo tempo sfuggitomi, e devo purtroppo constatare che il senso del mio lavoro è stato completamente travisato e forzatamente stravolto (nonostante le chiarissime premesse a suo fondamento contenute nell’introduzione), sia perché la sede, ovvero la serie dei NPI interna alla collana Bianca e destinata a un largo pubblico non si prestava a disquisizioni di carattere accademico, ma aveva carattere di proposta, sia, fatto ben più grave, laddove Crocco afferma la mia selezione delle autrici essere basata su “frequentazioni sociali e amicizie e simpatie umane” e non su “questioni di poetica né su nuove categorie interpretative“, adducendo ciò come “possibile spiegazione dell’esclusione di autrici come Valduga, Anedda, Gualtieri”. Non ho mai scritto né lontanamente lasciato intendere enormità del genere, che vengono “dedotte” da frasi estrapolate surrettiziamente dal contesto, affermazione tanto più ridicola considerato che proprio Mariangela Gualtieri è stata l’ispiratrice di questo libro, e considerata la mia frequentazione amicale di vecchia data sia con Patrizia Valduga (di cui sono stata editor negli anni in cui lavoravo all’Einaudi) sia con Antonella Anedda, peraltro una delle mie poetesse preferite. Ma tutte e tre all’epoca avevano avevano pubblicato nelle più prestigiose collane di poesia (la Bianca Einaudi e Lo specchio Mondadori), e sarebbe bastato leggere con attenzione la mia introduzione fin dalle primissime righe per svelare l’arcano: “Il sesto volume dei ‘Nuovi poeti italiani’ si pone idealmente in linea con i precedenti ne proporre profili di autori non ancora compiutamente affermati all’attenzione dei lettori di poesia”. Eccetera, entrando nello specifico delle autrici, ove peraltro cito Anedda e Valduga come già edite in collocazioni di prestigio. Bastava leggere, appunto, e riportare correttamente…

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