di Simone Burratti
L’uscita di Ti voglio bene (Mondadori, 2017), libro di poesie di Francesco Sole (noto agli adolescenti soprattutto come autore di video e post-it motivazionali, agli youtuber come cavia del “progetto Monarch” di Selvaggia Lucarelli e Francesco Facchinetti), sembra aver suscitato più ilarità che perplessità. Questo perché non è difficile comprendere le operazioni con cui Mondadori riesce a tenere in piedi la baracca, né tantomeno il relativismo di mercato che condiziona ormai anche i premi letterari e parte della critica: ci si può ridere sopra, continuare a fare altro con la coscienza a posto. A volerla dire tutta, però, è innegabile che negli ultimi anni sia venuta a crearsi, con ritardo rispetto al romanzo, una sorta di variante “di genere” della poesia, basata sulla vulgata “espressione di sentimenti personali attraverso una lingua evocativa”, o più banalmente su un vocabolario del cuore. Nel caso in questione, per esempio, un utente di Facebook ha giustamente fatto notare come il libro di Francesco Sole non sia una raccolta di poesie, ma di #poesie: può sembrare una sfumatura ironica e niente più, ma bisogna tenere presente che se un lettore di poesia percepisce la distanza tra Sole e un qualsiasi altro autore contemporaneo a livello macroscopico, per un lettore qualunque, che non ha idea di cosa si scriva in versi dagli anni Settanta in poi, il confronto tra i due ha poco o nulla di imbarazzante.
La mancanza di prospettiva da parte del lettore qualunque non è dovuta a ignoranza o superficialità, quanto piuttosto all’assenza nelle librerie e nei mass-media della poesia cosiddetta alta, istituzionale – ma soprattutto alla diffusione della variante di genere di cui sopra.
Vorrei chiarire che si tratta di qualcosa di diverso dal successo commerciale di autori come Neruda, Merini o Symborszka: autori che, piaccia o meno, prima ancora del successo di pubblico hanno ottenuto un parziale o pieno riconoscimento critico, pubblicando su riviste, antologie e collane di poesia; e si allontana anche da eccezioni come la raccolta di poesie di Ligabue, e paradossalmente dallo stesso libro di Sole, che pur nascendo in un contesto che ne asseconda la legittimità (ne è la diretta conseguenza) rimane un’operazione editoriale con target adolescenziale. Ci sono tuttavia casi più ambigui: in tempi recenti alcuni video diffusi dal canale youtube Button Poetry sono diventati improvvisamente virali (fino a 13 milioni di visualizzazioni). Si tratta di performance nate nel contesto dei poetry slam statunitensi, in cui giovani poeti con invidiabili doti teatrali si esibiscono di fronte a un pubblico da stadio che partecipa alla lettura esultando e applaudendo. Qui due esempi, di Neil Hilborn e Sabrina Benaim.Volendo analizzare velocemente i due testi, o per meglio dire i due video, le caratteristiche in evidenza potrebbero essere più o meno queste: 1) l’impostazione da monologo teatrale, per la quale il senso e l’efficacia del testo sono veicolati quasi totalmente dalla sua interpretazione orale e dalla presenza dell’autore-attore sul palco; 2) la scelta di temi circoscritti e ben riconoscibili (il disturbo ossessivo-compulsivo, la depressione, in altri casi la condizione femminile in un determinato contesto culturale); 3) lo sviluppo superficiale, prevedibile dei suddetti temi (Clifford Geertz parlerebbe, nel suo campo, di thin description); 4) l’insistenza performativa e lessicale sul sentimentalismo e/o la comicità.
Considerando soprattutto il primo e l’ultimo punto, è difficile definire queste performance “poesie”. Anche a prescindere da un eventuale apprezzamento delle stesse, la dose di entertainment presente tende a schiacciare quell’ambivalenza e quella “profondità” (mi si perdonerà la frettolosità definitoria) che generalmente caratterizzano la poesia tradizionale. Sono però senza dubbio – e lo confermano i canali e le modalità di diffusione, con tanto di hashtag coerenti – “#poesie”: scatole surgelate di emozioni mordi-e-fuggi, barzellette da bar o ricorsività edulcorate dell’ovvio – quando va bene meri spunti di riflessione. Inoltre, per non rischiare di identificare queste #poesie con la poesia orale in toto, va sottolineato che, almeno in Italia, autori come Guido Catalano, Vincenzo Costantino o Alessandra Racca vendono bene (o comunque meglio dei colleghi) anche in libreria. Avere in mente questa differenza sostanziale tra poesia e #poesia mi sembra importante al fine di evitare il definitivo passaggio della prima da riserva indiana a club di micologia: nel momento in cui l’hashtag risulta essere la più incisiva forma di definizione del tempo presente, e messe le due forme in due gradi diversi della stessa scala di valori, non si vede per quale motivo la poesia dovrebbe essere preferita alla sua variante disimpegnata, stereotipata, che vende di più e rappresenta una fetta di pubblico maggiore.
Viene da chiedersi, a questo punto, cosa facciano i poeti dall’altra parte della barricata: oltre a scrivere libri (molti dei quali francamente dimenticabili), organizzare festival di dubbio gusto e fare gli opinionisti su Facebook con la nostalgia del Pasolini nazionale, in linea di massima i poeti se ne fregano. Perché, diciamolo, i nostri cento lettori di fiducia ce li abbiamo (quasi) tutti, quelli che ci dicono che il nostro libro è bello e poi magari ci fanno la recensione sul blog in voga (solo per noi) e qualche volta pure la presentazione. Che ce ne frega a noi se Francesco Sole può intitolare un libro Ti voglio bene e vendere migliaia di copie, se i MeP spronano chiunque a scrivere in virtù della sensibilità personale, se Guido Catalano ammazza i nazisti a forza di baci? Che ce ne frega a noi se Frasca non passa il concorso da ordinario perché, si sa, i poeti tutti perdigiorno, se quando ammettiamo a qualcuno di scrivere libri ci servono cinque perifrasi per spiegare che non ci siamo autopubblicati come suo zio?
Se si può apprezzare la scelta di alcuni di proseguire secondo il proprio credo e la propria poetica “esclusiva”, concentrati sul lavoro da cameretta piuttosto che sull’attenzione al pubblico dei lettori, si giustifica meno la supponenza – che è poi sottomissione – di molti altri nei confronti di un sistema che non solo tiene gli stessi ai margini, ma in un modo molto poco sottile li squalifica. L’impressione è che molti poeti #senzacancelletto abbiano dimenticato l’esistenza del lettore, o meglio che vi abbiano rinunciato; e sto parlando di qualcosa che ha poco a che fare con il “pubblico”, e cioè con i festival, le letture e le iniziative culturali, ma più con la consapevolezza del destinatario, e cioè con la scrittura. Tenere a mente un lettore potenziale diverso dal “compagno di penna”, valutare il suo grado di attenzione e il suo porsi di fronte al testo, chiedersi perché aspetti con ansia la prossima puntata di Twin Peaks e al tempo stesso fatichi a leggere la poesia di un contemporaneo; e ancora, analizzare il contesto non solo letterario entro il quale si muove la propria scrittura, vagliarne i dispositivi di comunicazione preferenziali, confrontarsi con le #poesie e i loro moduli espressivi (perché l’intrattenimento può rubare alla poesia e la poesia non può rubare all’intrattenimento?): credo che questo approccio alla scrittura sia più un dovere che una premura, e che sempre più spesso passi in secondo piano.
Quando John Locke si ritrova tra i superstiti dell’incidente aereo e scopre di aver riacquistato l’uso delle gambe, la realtà che si spalanca al suo sguardo appare come un’opportunità altra, una possibilità di riscatto: non un mondo al quale adeguarsi, in cui affermarsi facendo a spintoni senza successo, ma una piccola riserva più congeniale alle sue inclinazioni, costruita su segni imperscrutabili ma a lui chiarissimi, plasmabile a suo piacimento. Mi sembra che anche la poesia sia precipitata sulla sua isola dei desideri, ai confini del mondo, e che faccia di tutto per boicottare i tentativi di fuga. Si potrebbe obiettare che l’isola di Lost è in qualche modo il centro del mondo stesso, il cui equilibrio governa tutto il resto: ma concordiamo in molti su quanto sia deludente il finale di Lost, ed è fatto noto che gli sceneggiatori si siano arrampicati sugli specchi.
[Immagine: Francesco Sole]
Intervento arguto e coinvolgente , che dovrebbe giungere all’orecchio dei molti , dei troppi , “addetti ai lavori” che intingono la loro penna nel vuoto della grande editoria , tralasciando gli indiscutibili valori della ricerca poetica che tenta di recuperare spazi tra le riviste e la rete. Fortunatamente il tempo e la luminosità riescono a focalizzare prima o poi i veri poeti . Un augurio dal mio “Poetrydream” ( http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com )
Mondadori lancia il suo prodotto commerciale nella pseudoparasottopoesia, come ha sempre fatto anche col sottopseudopararomanzo (vedi Fabio Volo, di cui ogni pubblica uscita deve essere sottolineata/legittimata dall’epiteto scrittore in CAPS, proprio perché non lo è). Ci si sorprende ancora, per la poesia, perché si pensa abbia (ancora?!) l’aura. No, svegliatevi, non l’ha. Non l’ha più il libro in sé, che conserva il capitale simbolico solo, paradossalmente, per chi non ne scrive e in realtà confeziona saponette o ”carta da culo” (cito un commento di Facebook a un mio post sul tema). Quello che personalmente trovo sorprendente e imbarazzante per chi legge poesia oggi è che Mondadori pubblichi nello Specchio dopo Milo De Angelis e (financo) Nanni Balestrini, Alberto Pellegatta e i suoi caprioli. Se la poesia continua a muoversi entro un orizzonte premoderno, non ci deve minimamente scandalizzare che ai giovani (=consumatori) si parli con l’hashtag (che almeno è più attuale della felicità di un capriolo, come esperienza). Tra parentesi dissento invece dal riferimento del pezzo a Frasca: la sua mancata abilitazione nazionale alla docenza di prima fascia ha più a che fare con un sistema incancrenito e predeterminato qual è quello dell’accesso (o del progresso) nelle carriere universitarie che con la sua condizione di poeta, che non gli ha impedito, anni or sono, di diventare docente, sia pur senza scatti successivi di carriera. Il problema vero non è la sottovalutazione della sua produzione poetica, che i commissari neanche conoscono (così, a naso), ma l’atto di hybris per cui un candidato all’idoneità si sia presentato per una fascia superiore senza passare per quella intermedia (si evince con molta chiarezza dai giudizi, a poterli leggere – che ormai sono scomparsi dal sito). Questo solo per invitare a non mischiare i piani e gli ambiti in modo da non ingenerare confusione ulteriore: la catena è Sole-Pellegatta-Cucchi, non Sole-Frasca, la cui opera ultima è uscita per L’Orma, pregevolissimo editore sicuramente non di mercato e non destinato alla grande distribuzione di massa. (Lievemente OT, ma le imprecisioni vanno arginate perché è sull’equivoco dell’è tutto un magna magna che il gattopardismo culturale nostrano vivacchia e vegeta). In ultimo, sulla questione del pubblico cui i poeti contemporanei avrebbero rinunciato, riprendo una recente intervista in cui Simona Menicocci ha chiarito perfettamente l’ambiguità sottesa al discorso della mancanza di lettori per la poesia, cioè, di fatto, all’aspettativa di un prodotto che vada incontro alle esigenze di semplificazione e di comunicazione egemoni: ”io sono nella nicchia, non mi dispiace non essere sul mercato, non è vero che non ho un pubblico, esiste una ricezione, un ascolto, dei lettori per la mia scrittura, ed è questa ricezione, questo ascolto, questi lettori che voglio raggiungere, andare a cercare”. Cito non alla lettera, ma condivido pienamente la sostanza, punto per punto.
Francesco Sole, non so cosa sia peggio: se lui con le sue “poesie” o la legione di poeti italici che sbavano per una recensione della Policastro o di Cortellessa, che si entusiasmano per essere stati pubblicati in un sito “importante”, che parlano del Premio Strega (nel 2017), che si sentono poeti per un trafiletto su un quotidiano nazionale (nel 2017), che sono impantanati in dinamiche liceali di conoscenze, amicizie, dispetti, che sono venuti al mondo per essere gli epigoni di Cucchi e della Valduga, che venderebbero la madre e gli amici per un qualsiasi posto al sole, che si fanno fotografare in pose pensose davanti a una libreria, che al primo sussulto di “potere” accordatogli eccoli ovunque come addetti comunali in giacchetta fosforescente mossi a dare multe e patenti di poeta a destra e manca.
@Gilda hai ragione, nel caso di Frasca c’entra più l’hybris. Ho accennato al fatto en passant più che altro perché è vero che ai concorsi, specie quelli di dottorato, se sanno che sei anche scrittore ti guardano un po’ storto, e capita anche tra colleghi in università.
D’accordissimo sull’orizzonte premoderno, era buona parte di quello che intendevo.
Dunque, c’è questa immagine: Gianmario Villalta che, in un panel del Salone del Libro, cerca di parlare di letteratura e web, di slam poetry, di instagram e di tweet in versi, cose così. Roba a mio parere marginale, non-critica, poiché tratta di mezzi, e non di sostanze poetiche, ma vabbè. Non è questo il punto. Gianmario Villalta parla al microfono ed ha, a disposizione, un buon impianto fonico. Sta in piedi, con le spalle appoggiate su una delle paratie corte di un parallelepipedo, edificato in compensato vuoto, senza soffitto. Intorno – al di fuori cioè dello spazio in cui Villalta parla ad un nutrito numero di persone, interessate, sia chiaro, “evangelizzate” al tema – il rumoreggiare del salone imperversa; ci sono suoni di chitarre in sound check, cori di bambini in gita scolastica, la eco di un panel vicino, e altri, non ben specificati, moti gaussiani del suono. Bene, tutti stanno ascoltando Villalta parlare di poesia, quando, dopo pochi periodi ben costruiti, Questo si interrompe. Spalanca le braccia e le lascia crollare sui fianchi. Si volta verso il tecnico come a chiedere ‘si può avere un po’ di silenzio là dietro?’, e dice “Scusate eh, ma così, con questo casino, di poesia non si può parlare”.
Ecco. Ecco la colpa enorme che abbiamo tutti, a fronte delle pubblicazioni di Sole, Bondi, Ligabue et alii. Una poesia che si lamenti del rumore, invece di racchiuderlo, di contenerlo e canalizzarlo a sorgente, non può che ridursi a misero battibeccare. Ognuno chiuso nel suo cassettone in compensato, con un congruo numero di persone ad ascoltarlo, senza confronto sincero, senza vigore, senza forza. Ognuno soddisfatto del suo tabernacolo, in leziosa sinecura.
Mi sento di insistere sul ritrovare un pubblico (che sarebbe molto più predisposto all’acqusizione del testo poetico di quanto si pensi), senza sbandierare vanità, tipo “eh ma il pubblico è ignorante, non ha spinte all’approfondimento”, oppure “eh ma dopo Berlusconi ormai tutto è irrecuperabile”. Frasi del genere non hanno senso, nel momento in cui ci si compromette con la forma poetica.
Sì, è difficile. Difficilissimo. Ma in fondo stiamo parlando di poesia, no?
Fosse facile, la farebbero tutti. E invece…
@Tommaso Ghezzi: ma Villalta non ha sbagliato perché non ha saputo includere il rumore, ma perché non ha tirato una sedia al pubblico rumoreggiante. In quel caso avrebbe compiuto almeno un gesto.
Ma il punto è, caro Tommaso, che finché tu consideri Villalta (e tutta la legione consimile dei Cucchi, Fiori, Ponso, Carabba, Bernini, Pellegatta) un poeta, allora ci sono pochi discorsi che si possono fare. Come dice Gilda Policastro: “la catena è Sole-Pellegatta-Cucchi”. Finché non comprendi questo è inutile provare a parlare di poesia.
“ Senza data [1981] – Colpo di sole dell’avvenire. “.
Parlare del nuovo e dell’artistico s’addice agli ingenui e ai puri, mentre voi, *routiniers*, vi siete arrogati una autorità sull’arte e considerate legale solamente quel che voi fate mentre soffocate il resto.
( da “I quaderni del dottor Čechov. Appunti di vita e letteratura di Anton Pavlovič Čechov, Feltrinelli, Milano 1978, pag. 38)
Un tempo il giudizio letterario era determinato da una mistura di oggettività(cercavano di capire se i testi rispettassero la metrica e i canoni estetici e cercavano di capire se l’autore avesse aderito ad un ismo letterario o meno) e soggettività(questione di gusto). Oggi sono scomparse metrica, criteri estetici e correnti letterarie. Non esiste più la figura del poeta e ad onor del vero neanche quella del critico letterario o quantomeno i mass media e la massa non riconoscono più alcuna autorevolezza e competenza a chi vorrebbe essere poeta o critico. Cosa è oggi poesia? È sempre più difficile stabilirlo. Forse è poesia un testo che tende al massimo della nominazione, al vertice della significazione. Forse è poesia un testo il cui autore ha consapevolezza di ciò che sta facendo e ha allo stesso tempo conoscenza della tradizione. Forse è poeta un autore che riesce a sperimentare e a fare ricerca. Forse è poeta chi ha “volontà d’arte” ed allo stesso tempo non si lascia sopraffare da troppe premesse teoriche. Come si può distinguere la prosa dalla poesia? Forse oggi è sempre più difficile stabilire una linea di demarcazione tra questi due generi. La maggioranza della poesia moderna non è altro che prosa poetica e forse si può distinguere dalla prosa comune in base al linguaggio(nella prosa poetica vengono utilizzati vocaboli aulici). Viene da chiedersi come distinguere la poesia moderna dalla canzone. Forse è poesia un testo in cui sono presenti ricchezza lessicale, sensazioni, percezioni, pensieri, corrispondenze, epifanie(mentre nella canzone, anche in quella d’autore, è molto difficile trovare queste cose). Oggi comunque è molto difficile tracciare dei confini. Oggi non è più richiesta alcuna particolare tecnica e quindi neanche nessuna abilità particolare per scrivere poesia. Di conseguenza tutto è poesia ed alla fine niente è poesia. Oggi forse è solo questione di gusto e quindi di soggettività. Sappiamo anche che soggettività significa in parte irrazionalità. Per quanto riguarda Sole non mi stupisce la pubblicazione e il successo delle sue poesie: la Mondadori ha sempre pubblicato molte opere di personaggi già famosi, indipendentemente dal loro valore letterario. È una pura e semplice questione di mercato e di marketing. È soltanto una operazione commerciale come tante altre. Non mi risulta che alla Mondadori siano mecenati o filantropi. Molti letterati però dovrebbero scandalizzarsi non solo quando viene pubblicata una opera banale in una casa editrice importante ma anche quando viene pubblicata una raccolta di poesie colma di intellettualismi e quasi incomprensibile. Molti credono che le sdolcinatezze siano poesia e forse non lo sono. Ma che dire dello snobismo, delle astruserie e dei leziosismi di tanti letterati italici? Un conto è essere Amelia Rosselli, Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti, Franco Fortini. Non ho niente contro questi grandi poeti: ai loro tempi dimostrarono di essere originali per stile e visione del mondo. Un altro conto è essere dei manieristi affettati come alcuni poeti contemporanei.
Mi trovo d’accordo con Gilda soprattutto quando scrive che è il libro ad aver perso la sua aura. Questo è il punto in realtà: il media che era per eccellenza non eccelle più, oggi l’attenzione è rivolta ad altri mezzi, il video anzitutto (lo dimostrano i dati che citi di Button Poetry).
Non mi trovo d’accordo quando si accosta Sole invece ad altri qui citati: sebbene molti nomi riportati (Pellegatta, Ligabue, Catalano) possano scrivere di temi apparentemente o realmente superficiali, quelli di Sole si differenziano per una totale mancanza di coscienza. Sono frasette che vanno a capo, nulla di più. Negli altri, almeno, il tentativo di definizione c’è, talvolta riuscito talvolta incompiuto (non sono autori che apprezzo molto nemmeno io). Accostarli significa azzerare qualunque volontà dell’autore (per quanto fallace) e mi sembra poco onesto. Queste, di Sole, non sono nemmeno #poesie perché nascono in un contesto social quali dediche alla propria fidanzata. Sono post, è ben diverso.
Riguardo Button Poetry: se è vero che la dimensione performativa è piuttosto presente, sono completamente in disaccordo quando le si vuole tacciare come qualcosa di diverso rispetto alla poesia proprio a causa della presenza scenica dei propri autori. Molti poeti italiani fanno performance (non così teatrali, d’accordo, ma pur sempre di performance si tratta – Voce, Frasca, Cavalli, Gualtieri, per dire nomi ben distanti fra loro) eppure ciò non sminuisce la portata poetica dei loro testi (altro esempio, molto teatrale, è Bulfaro: chi potrebbe mai sostenere che la sua non è poesia?). Non è la performance che genera il giudizio di non-poesia, ma la qualità testuale, e qui posso essere anche in parte d’accordo: negli USA la fa da padrone lo stile “story-telling”, ma è uno stile, non un genere a sé. Sul punto 1) c’è uno sbaglio di fondo: molti testi di questi autori, se letti, non risultano meno belli, ma meno “coinvolgenti”, ma qui si scopre l’acqua calda: esiste un testo al mondo che, se letto con le dovute tecniche, non aumenti il suo potenziale di coinvolgimento? Secondo me no. Anche un’etichetta della coca-cola, se letta bene, può comunicare ben più della sua mera lettura ed è questa la qualità intrinseca della poesia orale: si sedimenta attraverso la voce veicolando un messaggio che non perde il suo senso se al contrario viene letto da sé. Sul punto 2) non si capisce: ritieni sia… cosa? Si scrive sempre di un tema circoscritto, solo che talvolta è evidente (e, se giustificata, l’evidenza, non vedo perché sia un danno) e talvolta no (e qui, però, si rischia nel: ma cosa mi avrà voluto dire? Che è il fallimento della poesia. Io penso che se una poesia va spiegata, allora ha qualcosa che non funziona. E lo dico amando Sanguineti: molte delle sue poesie sono incomprensibili, vero, ma non sono poesie per cui lui volesse che il lettore si domandasse: cosa avrà voluto dire? Non voleva, punto, era esattamente quello il senso, l’incomprensibilità di senso accostata al più alto tecnicismo). Sul punto 3) sono d’accordo, spesso accade di sentire il verso che ci si aspetta invece che il colpo di scena, ma non è necessariamente un male, dipende anche quanto bene si riesce a scriverlo: le poesie più difficili da scrivere sono quelle che trattano di temi da tutti conosciuti, spesso. Sul punto 4) trovo sia un giudizio generalizzante che non trova riscontro nella realtà: la performance dovrà pur suscitare un’emozione, sennò serve a poco, per cui dire: tutto fa ridere o tutto fa leva sul sentimento è di per sé corretto ma perché non può essere altrimenti. Io non faccio ridere, anzi cerco di colpire facendo leva su stati d’ansia (che è un’emozione) o sull’insofferenza e l’odio (che è un sentimento). Non per questo ritengo che io scriva testi non poetici, mi sembra un’assurdità (e chiedo scusa se ho preso me a esempio).
In ultimo vorrei commentare il seguente passaggio: “Sono però senza dubbio – e lo confermano i canali e le modalità di diffusione, con tanto di hashtag coerenti – “#poesie”: scatole surgelate di emozioni mordi-e-fuggi, barzellette da bar o ricorsività edulcorate dell’ovvio – quando va bene meri spunti di riflessione. Inoltre, per non rischiare di identificare queste #poesie con la poesia orale in toto, va sottolineato che, almeno in Italia, autori come Guido Catalano, Vincenzo Costantino o Alessandra Racca vendono bene (o comunque meglio dei colleghi) anche in libreria.” Ecco qui c’è del pregiudizio esasperante: come è possibile definire un contenuto in base al suo mezzo di diffusione? Non esiste, punto. Non è che siccome Button Poetry va forte sul web allora bisogna tacciarle come #poesie (che sta prendendo una piega dispregiativa), non ha senso. Molti poeti hanno un seguito in rete, mica allora ogni volta che qualcuno arriva al grande pubblico significa che faccia cattiva poesia. La poesia orale in toto, poi, a mio avviso, nemmeno esiste: la poesia è comunque suono, che sia voce reale o interiore cambia poco. Sul fatto che Guido o Alessandra vendano bene in libreria, beh, pure gli autori di button poetry vendono piuttosto bene (anche sopra le 75 mila copie). Sicché non capisco il ragionamento.
P.S. ma non si era detto che poesia istituzionale non vuol dire niente?
P.p.s. Villalta che mi parla di poetry slam me le fa girare, ne avesse almeno ospitato uno al suo festival, manco l’ho mai visto presente tra pubblico a slam avvenuti nei dintorni della sua dimora. Mi chiedo come si faccia a parlare di un fenomeno senza nemmeno osservarlo, bah.
@Nicolas certo, ho specificato che il caso di Sole è a parte (ma anche quello di Ligabue, a suo modo).
Per quanto riguarda i video di Button Poetry: non reputo la dimensione performativa e il “potenziale di coinvolgimento” necessariamente incompatibili con la poesia, ma nel momento in cui le due componenti sovrastano il resto, e cioè le cose importanti in un testo letterario, il cancelletto mi parte automatico. Continuo a pensare che i due video proposti perdano del tutto di consistenza una volta su carta, perché esistono in funzione della loro recitazione: se Sabrina Benaim non fingesse di piangere ininterrottamente per tre minuti le parole scivolerebbero via come un bollettino meteorologico. Il fatto che poi gli autori vengano stampati mi sembra connesso soprattutto al feticcio del libro e alla vendita.. La situazione italiana invece, come dici tu, è leggermente diversa, per quanto quasi mai vicina alla mia idea di poesia (ma trattasi di giudizio del tutto personale).
In ogni caso i punti evidenziati erano descrittivi, non c’era un giudizio di valore (tolto che sul terzo). I temi ben definiti non sono un problema in sé, solo una caratteristica, ma quello che ho notato guardando qualche video in più è l’insistenza su veri e propri filoni: c’è il filone delle malattie della modernità, il filone dell’emancipazione femminile, il filone schiettamente comico ecc.. Insomma, non vorrei dirlo, ma quando si parla di filoni sembra quasi che sia il pubblico a imporre i “temi” all’autore.
Sulle modalità di diffusione devo essermi spiegato male: intendevo dire che i canali di diffusione di quei video mettono spesso l’hashtag #poetry nella presentazione, e altrettanto spesso condiscono il tutto con frasi quali “il video che ha commosso il web” et similia; al tempo stesso mi premeva spiegare che la performatività non è “il punto”, ma solo una delle componenti che caratterizza il genere.
Ps: la poesia istituzionale infatti è “cosiddetta”. Se, come è capitato di sentire a me e a te, il pubblico “non specialista” tende a definire così tutto quello che per me è semplicemente poesia, allora bisognerà prendere atto della distinzione, quantomeno per contestarla.
Un tempo avevo preso una cotta virtuale per la scrittrice ed italianista Gilda Policastro ma lei mi ha sempre snobbato. Non sono però più innamorato da quando ho scoperto che anche lei va in bagno(così mi ha detto la sua amica e poetessa Ivalda Favalessa). Senza ombra di dubbio la signora Policastro era troppo per me ed io ero troppo poco per lei ma ho diritto di amare ed essere amato anche io. Ora comunque è tempo di riscatto e di rivalsa: donne fatevi avanti!
Avrei perciò piacere che venisse diffuso questo mio annuncio:
disoccupato toscano liberale, anticlericale, anticomunista- presidente del movimento di liberazione dei nani da giardino e difensore delle cause pareggiate- cerca solenne poetessa rigorosamente cattocomunista, sanguinetiana ed intimamente trasgressiva per instaurare relazione virtuale instabile all’insegna della slealtà e dell’infedeltà. Il disoccupato è brutto, brufoloso, gobbo, basso, grassoccio, povero, depresso, ansioso, ritardato, ce l’ha piccolo, è impotente, soffre pure di ideazione prevalente ed ha le emorroidi. Il disoccupato in questione pensa male, vive male, scrive male, mangia male, dorme male e naturalmente evacua male. Ma i difetti più gravi sono che è autoironico, ha la forfora, ha un lagotto romagnolo, usa il deodorante all’orchidea selvatica e ascolta Claudio Villa. La gentile donzella, scelta tra tantissime pretendenti, verrà sempre amata virtualmente e con incostanza(verrà amata solo nelle ore pari mentre nelle ore dispari il disoccupato amerà virtualmente Miriam Leone). Verrà garantita massima indiscrezione personale. Mi raccomando: allegate non una foto ma un avatar. Allegate in un file word almeno tre sonetti dedicati al disoccupato. Verranno prese in esame solo ragazze mentalmente disturbate e psicopatiche. Elencate tutti i disturbi psichici di cui soffrite. Astenersi ragazze che non sanno perdere tempo e prive di requisiti.
Gilda Policastro è una famosa number one. È molto bella, molto colta, molto intelligente. Molto probabilmente è una donna equilibrata. Ma io devo andare avanti. Lei non mi ha mai considerato ed io ora cerco una poetessa instabile e squilibrata. Comunque viva Gilda!