di Claudia Crocco
Nelle serie TV e nel cinema di oggi, anche soltanto rispetto a dieci anni fa, si fa molta più attenzione a garantire una rappresentazione bilanciata fra uomini e donne. Non importa che stia lavorando al nuovo Star wars o alla decima serie Netflix del mese: uno sceneggiatore contemporaneo sa bene che i suoi testi verranno valutati anche in base a quante donne sono in scena, e che il film o la serie verrà considerato accettabile e non sessista soltanto se sono presenti almeno due donne di cui si conosce il nome, se parlano almeno una volta fra loro, e non di uomini. Rispettare questi tre princípi non equivale a fornire una rappresentazione estetica adeguata delle donne, ma vuol dire superare il test di Bechdel, così chiamato dal nome della fumettista Allison Bechdel, che lo inventa in una vignetta del 1985 intitolata The rule.
Se oggi, riguardando serie degli anni Novanta come Friends, Seinfeld Will&Grace, si può provare imbarazzo per il sessismo implicito in alcuni dialoghi, non stupisce che persino produzioni già avviate e famosissime si mettano al riparo dal politicamente scorretto con ipercorrettismi e deviazioni della trama talvolta forzate (per le quali si parla di pinkwashing), come nel caso della penultima stagione di Game of Thrones: dopo anni di critiche alla serie (la più famosa è quella della scrittrice inglese Danielle Henderson), accusata di sessismo e misoginia, nella settima stagione le scene di sesso e di nudo sono dimezzate, e le protagoniste diventano improvvisamente decisive per l’intreccio, talvolta in modo prevedibile (Daenerys Targaryen), in altri casi del tutto inaspettatamente (Lyanna Mormont). Anche il cinema di massa ci ha ormai abituati a vedere eroine più che eroi, adeguando intrecci e casting allo spirito dei tempi: la nuova versione di La bella e la bestia, ad esempio, propone una Belle molto più artefice del proprio destino di quanto non accadesse nella vecchia versione Disney; mentre in Wonderwoman la classica trama del film americano di supereroi ha una protagonista femminile (interpretata da Gal Gadot).
Sono le serie TV, comunque, a registrare per prime questo cambiamento: a proposito di supereroi, nel 2015 aveva avuto molto successo Jessica Jones, ispirato all’omonimo fumetto Marvel (creato da Melissa Rosenberg per Netflix); Orange is the new black (di Jenji Kohan, sempre su Netflix) è ormai alla quinta stagione; una delle serie fra le migliori del 2017 secondo il Guardian è The Handmaid’s Tale (andato in onda su Hulu). The Handmaid’s Tale, creata da Bruce Miller e tratta dal libro di Margaret Atwood, è una distopia: viene immaginato un mondo in cui una setta cristiana fondamentalista ha eliminato la democrazia statunitense. I Sons of Jakob hanno instaurato un governo autoritario che ha conseguenze aberranti soprattutto sulle donne, divise in tre categorie: le spose degli uomini di potere, casalinghe di lusso vestite sempre in verde; le Marte, relegate al ruolo di serve, vestite di bianco-grigio e con i capelli coperti; le ancelle, vestite sempre di bianco e rosso. La protagonista è un’ancella, Offred (Elizabeth Moss), e la serie racconta il destino delle ragazze nella sua stessa situazione: ultime donne fertili rimaste sulla terra, costrette a fare da concubine e da incubatrici di neonati, vengono picchiate, mutilate e stuprate mensilmente, durante la cosiddetta cerimony.
Ora, Elizabeth Moss è molto brava, e la fotografia ben curata; tuttavia The Handmaid’s Tale rimane una serie di livello medio, in parte proprio per un eccesso di femminismo – o meglio, perché l’intento di denuncia politica prevale sulle scelte artistiche nel modo più prevedibile. Le ancelle sono tutte buone, anche quando inizialmente non sembra (è il caso di Ofglen), mentre le mogli sono sterili non sono fisicamente, ma anche emotivamente: insomma, delle arpie. Il pathos delle scene e la commozione creata dal ruolo di vittima della protagonista hanno un grosso ruolo in quasi ogni puntata. The Handmaid’s Tale non è solo un monito esplicito per conservatori e antiabortisti, ma anche una provocazione – e questo è meno scontato – per quella parte dei progressisti occidentali che, in diverse forme, simpatizzano per politiche di ritorno alle origini: considerare positivo tutto ciò che è regressivo rispetto alla modernità, in quanto apparentemente più rispettoso dei ritmi naturali, può legittimare la privazione della libertà di alcuni individui e, paradossalmente, porterebbe ad enfatizzare il ruolo di donne solo in quanto madri.
Ma The Handmaid’s Tale, dicevamo, è una distopia, dunque propone ritratti e caratteri a tinte molto nette. Sono piuttosto sfaccettati, invece, i ritratto femminili all’interno di serie che possiamo definire più realiste: ad esempio Fleabag, Love e Girls. Sono tre serie diverse fra loro: Fleabag è una miniserie, appartiene al genere della dark comedy, ed è inglese (BBC Three, anche se in coproduzione con Amazon); Love (creata da Judd Apatow, Paul Rust e Lesley Arfin) è uno dei migliori prodotti Netflix, ed è alla seconda stagione; Girls è una serie di HBO, ora trasmessa in Italia da Netflix, che si è conclusa quest’anno, dopo sei stagioni. Girls e Love hanno in comune uno dei produttori (Judd Apatow); sia in Girls sia in Fleabag l’ideatrice della serie è anche l’attrice principale (rispettivamente, Lena Dunham e Phoebe Waller-Bridge); anche in Love uno degli ideatori (Paul Rust) ha il ruolo del protagonista maschile. Sono serie di livello medio-alto, che sfiorano ma non approfondiscono i problemi che derivano dalla nuova grammatica degli affetti contemporanea. Eppure, nel loro essere iperrealiste (nel caso di Girls, anche per le volute sovrapposizioni fra la biografia della protagonista e quella dell’autrice), anche se talvolta sfiorano appena la superficie, in alcune scene riescono a cogliere gli aspetti più autentici e, al tempo stesso, dolorosi delle relazioni umane – soprattutto in quelle fra uomo e donna, e soprattutto da un punto di vista femminile.
Da questo punto di vista, bisogna rendere merito a Lena Dunham.
«I think I may be the voice of my generation. Or at least a voice. Of a generation»: questa battuta viene pronunciata da Hannah Horvath, protagonista principale di Girls (interpretata dalla stessa Dunham) all’inizio della prima stagione, andata in onda per la prima volta nel 2012. Bisogna riconoscerlo: Girls è la prima serie TV a dare una rappresentazione estetica adeguata a ragazze postfemministe, sessualmente emancipate, colte e lavorativamente precarie («over-educated, underachieving», dice il Financial Times) appartenenti alla generazione dei nati negli anni Ottanta, ora pressoché trentenni. «I hope that Girls becomes a moment which allows women to show the range of their complexity», ha spiegato Dunham. La complessità è raggiunta soprattutto attraverso quattro personaggi femminili, uno dei quali in primo piano: questo aspetto è il più tradizionale, perché riprende quasi apertamente quello di serie del decennio precedente come Sex and the City, richiamata nel primo episodio di Girls. La somiglianza finisce qui, però, perché poi Girls diventa tutt’altro.
Iperrealismo – nudi
Girls è la prima serie tv che mostra corpi femminili realistici, devianti rispetto allo standard di Hollywood, spesso in situazioni nelle quali la nudità e il sesso diventano disturbanti. Dunham propone scene esplicite fin dal primo episodio, ma ribalta completamente il ruolo del nudo: la sua protagonista soffre di sindrome ossessivo-compulsiva (come l’autrice), alla quale è legato anche un rapporto sregolato con il cibo; ha il corpo ricoperto di tatuaggi, e rivela di averli fatti dopo un aumento di peso molto grave, nel tentativo di recuperare controllo del proprio corpo. Le scene in cui Hannah è nuda, di conseguenza, non sono fatte per essere erotizzanti. Ora, Dunham – femminista convinta – porta avanti una campagna personale per liberare le donne dalla coercizione a essere belle e magre, e il suo profilo Instagram è stato uno dei casi più discussi di body-shaming degli ultimi anni. Ma il nudo e il sesso di Girls non possono essere ricondotti solo questo: certo, rientrano in una protesta contro la riduzione dei ruoli femminili a oggetti di piacere, e fanno parte anche del femminismo dell’autrice. Tuttavia i corpi nudi di Girls non sono solo quello di Hannah, e lo stesso vale per le scene di sesso: sono anche Marnie (Allison Williams), bella e magra in conformità agli standard televisivi, ripresa mentre va in bagno; la fidanzata di Adam (Adam Driver) che cerca di evitare il sesso anale dicendo di non essersi abbastanza lavata; Jessa, senz’altro uno dei personaggi più interessanti della serie, che si soffia il naso nell’acqua, mentre fa un bagno con Hannah in una vasca. La reazione media davanti a queste scene si può riassumere con la frase con cui Hannah commenta il gesto di Jessa: «It’s gross».
Lo stesso commento viene in mente guardando alcune delle puntate di Love: ad esempio, nell’ultima stagione, quando Mickey (Gillian Jakobs) chiede a Gus se può schiacciargli un brufolo sulla schiena. E lo stesso accade in Fleabag: la protagonista non è fisicamente anticanonica come quella di Dunham (è magrissima, ad esempio), ma non rispetta le convenzioni della bellezza contemporanea (ha i lineamenti del viso marcati, come anche Elizabeth Moss). Anche Fleabag (interpretata da Phoebe Waller-Bridge) viene ripresa in vari momenti antierotici, ad esempio mentre è in bagno.
Even the most untraditional girl
Una delle protagoniste più riuscite di Girls, dicevamo, è Jessa (Jemima Kirk). Il suo personaggio cambia molto nel tempo: in sei stagioni la vediamo sposa di un quarantenne, ricoverata in una casa di recupero per tossicodipendenti, commessa in un negozio, aiutante di una anziana donna ammalata che aiuta a ottenere l’eutanasia, iscritta all’università per diventare assistente sociale, fidanzata di Adam – quell’Adam: il compagno storico di Hannah, che è anche la sua migliore amica.
Mentre Marnie e Shoshana conservano sfumature di romanticismo, Jessa e Hannah, fin dall’inizio, sono più aperte al casual sex. Entrambe si ritrovano con l’HPV, e nella terza puntata della prima stagione Hannah scrive su twitter il commento di Jessa (che è anche il titolo della puntata, ed è poi diventato molto famoso): «All adventurous women do».
Jessa sembra usare il sesso in modo quasi bulimico, come per stordirsi o avere una percezione più intensa di se stessa. Lo stesso accade a Fleabag e a Mickey: tutte si trascinano da un uomo all’altro, ostentando una sicurezza di sé che si incrina nel corso della serie. Nel caso di Jessa, succede nella sesta stagione. All’inizio della puntata Adam le rivela di volerci riprovare con Hannah, dopo aver scritto un film sulla sua storia con lei e dopo aver saputo della sua gravidanza. La reazione di Jessa è stoica, fin troppo corretta: «You gotta do what you gotta do». Poco dopo, la vediamo reagire nell’unico modo che ha funzionato per lei negli anni precedenti: entra in un bar e prova ad andare a letto con sconosciuti.
La scena è costruita richiamando alcuni dettagli delle stagioni precedenti, ma l’epilogo è diverso. Jessa riesce a rimorchiare un uomo a caso, come ci è sempre riuscita; poi scoppia a piangere mentre lo bacia nel bagno del locale. Anche la più anticonvenzionale delle quattro ragazze ha sviluppato un attaccamento affettivo per un uomo? O è l’intero sistema di compensazione emotiva a essere messo in discussione? Non sappiamo come si concluderà la sua storia: alla fine di questa puntata la vediamo sorridere mentre risponde al telefono ad Adam, che torna da lei dopo l’insuccesso con Hannah. Potrà essere felice con un uomo che la cerca come ruota di scorta? Nella puntata successiva sembra tornata a una fase precedente della sua vita. Appare molto più insicura, più svagata che mai (ha lasciato l’università, non ricorda il codice del suo bancomat). Jessa è stata per sei stagioni l’antiromantica, eppure qualcosa del suo collaudato schema di autodefinizione sembra non funzionare più. Questa ambiguità non riguarda solo lei, ma molti personaggi femminili di serie tv contemporanee.
Qualcosa di simile, ad esempio, accade a Mickey in Love. Tra lei e Gus, fin dall’inizio è Mickey il personaggio più complesso. Gus è un nerd con velleità artistiche che cerca anche stabilità sentimentale; le sue sventure derivano dalla troppa sincerità o dal tentativo di fare sempre la cosa giusta, ma in modo goffo. Mickey, invece, è fin dall’inizio più tormentata. Nella prima puntata, ad esempio, è protagonista di un monologo improvvisato davanti a una confraternita cattolica. Finita lì per seguire il suo ex, e sotto l’effetto di un sonnifero, Mickey ascolta discorsi sull’amore per tutta la sera; a un certo punto si alza in piedi e, davanti a tutti, dice che: «Sperare nell’amore, aspettare l’amore, ecco quel che ha rovinato la mia vita. Ma mi rifiuto di credere che tutte quelle teste di cazzo che ho frequentato alle superiori, che ora sono sposate e riempiono Facebook di foto dei loro bambini con fasce per capelli… mi rifiuto di credere che siano loro ad aver ragione. Voglio dire, tutto qui? È una porcheria, no? »[1]
Autorealizzazione, social network e relazioni interpersonali continuano a rendere Mickey un personaggio irrisolto nella seconda stagione. Una puntata molto riuscita è Una casa pazzesca. Mickey e Gus trascorrono una notte in una villa lussuosa di amici di Gus; mentre prendono il sole, Mickey fa smorfie davanti al cellulare. Non vediamo lo schermo, ma la sentiamo dire: «Mio dio, se Shaun posta un’altra foto di suo figlio con gli occhiali da sole, giuro che smetto di seguirla per sempre».
American Bitch
Mentre i personaggi di The Handmaid’s Tale sono buoni o cattivi a tinte forti, senza sfumature, ciò che rende interessante Mickey, Hannah, Jessa e Fleabag è che non sempre fanno né dicono la cosa giusta, né tentano di riscattarsi proponendo esempi di virtuosa emancipazione femminile; sono personaggi complessi, molto narcisisti, da un punto di vista morale anche ambigui. Nella puntata di Love appena citata, ad esempio, Mickey rivela a Gus di aver sempre desiderato vivere in una casa grande e lussuosa come quella in cui si trovano: «Non voglio guadagnarla, voglio sposare un uomo ricco e vecchio e ereditarla. È un segno di debolezza?». Gus le fa presente che è un desiderio antifemminista; Mickey risponde che vuole semplicemente «avere tanti soldi, un cane e dei libri: una vita semplice». Non c’è una conclusione alla discussione; continuano a litigare per un po’, poi Mickey si addormenta.
Usare il sesso come strumento per ottenere qualcosa è del tutto normale: in una delle prime puntate Mickey va a letto con il suo capo, per evitare di essere licenziata; alla fine della seconda stagione lo rivela a Stella, una giovane youtuber che vorrebbe coinvolgere nella radio. Stella inorridisce, perché lo ha subito identificato per quel che è – un uomo di mezza età viscido e un po’ morboso. Mickey spiega che è stata una mossa di potere, dunque non conta: ha bisogno di giustificarsi non perché andare a letto con qualcuno per interesse sia sbagliato, ma solo perché è stata a letto con uno sfigato. Alla fine della stagione tradisce Gus, che è via per lavoro, e torna per qualche tempo con il suo ex: in una scena gli dice che vorrebbe una storia normale, una casa, dei figli. Nella puntata successiva, l’ultima della seconda serie, torna con Gus e gli ripete quasi le stesse cose. Tutte le protagoniste di queste serie tradiscono: il tradimento non è un taboo né un punto di non ritorno, anche perché nessuna relazione comporta un reale commitment. Si può tradire con leggerezza, come Mickey o Marnie; eppure andare con il ragazzo di un’amica può portare alla morte reale (è il caso di Fleabag) o metaforica (Hannah e Jessa in Girls) del rapporto di amicizia. Il tradimento non ha ancora avuto una completa riconfigurazione.
Anche in Girls ci sono svariati momenti in cui il femminismo di Dunham si eclissa, lasciando spazio a una vitalità amorale e molto realistica. Ad esempio nella puntata in cui Hannah, per rimediare all’incazzatura del preside della scuola in cui lavora, apre le gambe e si mostra senza biancheria intima (funziona); oppure nella recente (e molto discussa, ad esempio qui) American bitch. Si tratta di una delle poche puntate interamente incentrate su Hannah, e si trova a metà dell’ultima stagione.
In American bitch Hannah va a casa di uno scrittore famoso, Chuck Palmer, che è stato accusato di avere molestato alcune fan durante l’ultima tournée del suo libro; lei ha scritto un articolo in difesa di queste ragazze, dopo aver letto i loro post su Tumblr, quindi lui le ha chiesto di incontrarsi dal vivo. Nella prima parte della puntata c’è molta tensione fra loro: Hannah è indignata e sulla difensiva, ma anche visibilmente impressionata dal lusso dell’appartamento, dai premi e dalle foto di altri scrittori famosi bene in vista; Chuck fa di tutto per lusingarla, le ripete più volte che è «davvero un tipo», quindi cerca di convincerla che lei sa scrivere davvero, dunque non dovrebbe perdere tempo con il gossip. Hannah gli chiede perché si preoccupi tanto per quel che è scritto in uno sconosciuto blog femminista. Non mi importa del blog, risponde Chuck, ma ho scelto di parlare con te, ho scelto te fra tutte, perché si vede che sei una scrittrice vera. Hannah allenta le difese, prova persino compassione per Chuck, quando lui le confessa di avere avuto problemi con il cibo, di essere «a horny motherfucker with the impulse control of a toddler», infine di essere preoccupato che sua figlia, preadolescente, venga a conoscenza dei pettegolezzi su di lui. Il momento di svolta della puntata è quando Chuck le regala una copia di un romanzo autografato di Philip Roth, When She Was Good (Quando lei era buona, Einaudi 2012). Hannah quasi si giustifica: «So che dovrei odiare Roth, perché è un misogino e perché svilisce le donne, ma la verità è che amo il modo in cui scrive». Poco dopo si spostano in camera da letto; Chuck le dice che da tempo non si è sentito così a suo agio con qualcuno, dunque le chiede se possono stendersi l’uno accanto all’altro. Appena sono distesi, si gira verso di lei, si slaccia i pantaloni e le appoggia il pene su una coscia. Hannah lo tocca subito, come seguendo un automatismo, quindi si alza ed è sconvolta da quel che ha appena fatto. Non c’è neanche il tempo di una discussione: quasi subito arriva la figlia di Chuck, che suona il flauto per entrambi. Hannah è ancora più sconvolta dall’ipocrisia di Chuck in presenza della ragazzina, ma non riesce a reagire in nessun modo. Alla fine della puntata torna in strada, si volta e vede o immagina di vedere molte ragazze come lei che entrano nell’appartamento di Chuck. Nonostante tutto il suo femminismo, non è riuscita a evitare una situazione in cui lei stessa si è comportata in modo ambiguo, e non può darne la colpa solo a Chuck. È entrata in una zona grigia, le zone grigie esistono.
Genitori
Nessuno dei genitori rappresentati è all’altezza di uno scontro generazionale: sono tutti profili sbiaditi, per lo più di madri e padri assenti ed egoisti. Come quando Jessa incontra suo padre, che non si è fatto vivo con lei per anni e le chiede se può contare su di lei, dopo svariati periodi di riabilitazione in una clinica per tossicodipendenti e nonostante abbia un’altra compagna. E Jessa: «You shouldn’t have to. I am the child».
Anche il padre di Fleabag e quello di Mickey sono del tutto assorbiti dalle proprie vite, e completamente assenti da quelle delle figlie. Il padre di Fleabag preferisce ignorarla per non innervosire la nuova compagna. Quello di Mickey, nell’unico episodio in cui compare, è di passaggio a Los Angeles, dove pranza con la figlia e con Gus, ma non si ferma neanche il tempo di vedere la nuova casa di Mickey, perché ha un altro volo per un progetto di lavoro che sembra destinato al fallimento già in partenza (è una copia di Uber).
Non va meglio con le madri. Quando la madre di Marnie vuole convincerla a suonare per il compleanno di una sua amica, nonostante Desi, suo ex marito e partner musicale, sia sotto effetto di droghe, lei le rimprovera di averla sostanzialmente indotta a sposarsi: «Tutto ciò che contava a casa nostra era ottenere l’attenzione maschile. E io ora mi ritrovo nella metà sbagliata dei miei vent’anni, senza un lavoro fisso né una relazione». La madre di Hannah (Loreen), nella puntata in cui la figlia le rivela di essere incinta, non riesce a essere felice per lei, perché è troppo impegnata ad autocommiserarsi in quanto donna di mezza età di nuovo single. Loreen finisce a vomitare in un ristorante cinese, dopo aver mangiato troppe gomme da masticare alla marijuana, e dopo avere detto ad Hannah che non potrà mai essere contenta di vedere suo figlio, perché le ricorderà che è diventata vecchia.
Non stupisce, dunque, che neanche Hannah abbia un rapporto semplice con la maternità. Si è molto parlato dell’ultima puntata di Girls come del momento in cui la protagonista diventa una persona adulta, e del ruolo catartico della maternità. Hannah è rimasta incinta per caso; il padre è un insegnante di surf, che si disinteressa della gravidanza. Lei decide di tenere il bambino, accetta un lavoro come insegnante di scrittura creativa in un’università a nord di New York, decide di trasferirsi fuori città. Non vengono mostrati gli ultimi mesi di gravidanza né il parto; l’ultima puntata si intitola Latching, ed è una sorta di epilogo. Hannah ha già avuto suo figlio, Grover, e vive nella Hudson Valley con Marnie, che si è offerta di aiutarla con il bambino, rinunciando a rimettere in piedi la sua carriera di cantante. Le due amiche litigano, Marnie è spaventata e chiama la madre di Hannah. Hannah è ancora Hannah: «I’m mentally ill, I’m overweight, I isolate people, I’m a quitter». Latching sembra cancellare qualsiasi visione idillica e televisiva della maternità, ancora una volta con dialoghi molto più realisti di quelli che siamo abituati a vedere nelle serie TV («When my vagina and my butthole will be two separates things again, I will be happy»), dove di solito le gravidanze sono momenti senza macchia.
Girls si conclude con l’immagine di Hannah che riesce ad allattare al seno Grover, dopo un’intera puntata di frustrazione materna; ma la vera conclusione è forse nella puntata precedente, Goodbye tour, quando vediamo per l’ultima volta Jessa e Shoshana. Se l’amore non esiste più e la ricerca sessuale lascia incompiute le quattro protagoniste, la logica di desiderio narcisista ed egocentrico che le guida rende ormai un mito anche l’amicizia. Nella penultima puntata Hannah, Jessa, Marnie e Shoshana hanno un ultimo incontro che si conclude con un litigio, ma anche con la scoperta che non vale più la pena di provare a ricostruire il loro rapporto. Fallita l’utopia che vale comunque la pena di rimanere amiche, ognuna di loro prenderà una strada diversa; nell’ultima scena che le vede insieme, le quattro protagoniste di Girls ballano e si divertono al party di fidanzamento di Shoshana, anche se sanno di non condividere più nulla di autentico.
Le serie più realistiche di questo secondo decennio del secolo, in conclusione, sono quelle che – pur partendo da posizioni femministe – riescono a rendere bene la complessità dei personaggi femminili senza sottolineare una polarità di genere, e senza avere la rappresentazione dell’emancipazione come obiettivo. Non sappiamo se, riguardando o guardando per la prima volta Girls, i venti-trentenni del 2030 proveranno lo stesso senso di imbarazzo o la percezione di un cambiamento culturale ormai concluso che abbiamo oggi guardando Friends e Seinfeld. È impossibile prevedere se una serie diventerà un classico o solo la testimonianza di una moda ormai lontana. Quel che sembra chiaro, però, è che serie come Girls, Love e Fleabag documentano un cambiamento nella gestione degli affetti e nella autopercezione delle donne che poche altre rappresentazioni artistiche hanno fornito.
[1] Tutte le traduzioni presenti in questo articolo sono mie.
[Immagine: Lena Dunham, Girls, HBO]