di Giulia Sarno
[LPLC va in vacanza fino a settembre. Anche quest’anno, per non lasciare soli i nostri lettori, riproporremo alcuni dei pezzi apparsi nei mesi precedenti. Questo intervento è uscito il 10 dicembre 2016, lo stesso giorno in cui l’Accademia di Svezia ha consegnato ufficialmente il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan (che da parte sua, come si sa, non ha partecipato alla cerimonia)].
Una legittimazione ambigua
Che il Nobel per la letteratura sia stato assegnato, per la prima volta nella storia centenaria del premio, a un singer-songwriter rappresenta senza dubbio alcuno un evento clamoroso, come dimostra la massa di commenti che ha invaso i media per diversi giorni dopo l’annuncio. Il Nobel a Dylan è segno di una metamorfosi del canone culturale dopo il terremoto generato dall’emersione delle arti popular[1] negli anni Sessanta del Novecento. Può essere letto come il sintomo di un riconoscimento più ampio – non di un singolo autore ma di una categoria. Includere il songwriting di ambito popular nel novero dei generi letterari in grado di vincere il premio più prestigioso che la cultura occidentale assegna significa legittimare una forma artistica controversa che nasce nell’alveo dell’industria dell’intrattenimento, e che in gran parte ancora in quest’alveo rimane. Se è vero che a partire dalla metà degli anni Sessanta il campo della popular music si è internamente diversificato includendo nella propria topografia un’area pienamente artistica all’interno della quale il songwriting fornisce una possibilità di espressione seria del sé[2], è anche vero che l’insorgere di questa zona non ha cancellato l’esistenza di aree più compromesse con gli interessi del mercato dell’intrattenimento leggero. Parafrasando Luciano Berio, c’è popular music e popular music: Bob Dylan non è Justin Timberlake. La popular music che ha vinto il Nobel per la letteratura è quella fetta del campo che ha intrapreso un tortuoso cammino per la legittimazione ormai da decenni, con buona pace di quelli (a dire il vero non tantissimi) che vedono in questa riconfigurazione del canone culturale occidentale i segni dell’apocalisse imminente. Per chi è nato negli anni Ottanta (come chi scrive), si tratta di un dato acquisito. In questo senso l’atto dell’Accademia di Svezia ha un peso relativo, un riconoscimento ex post fuori tempo massimo: non aspettavamo certo l’avallo di Stoccolma per dare a Dylan, nella nostra vita culturale, lo stesso peso di Philip Roth. Pure questo riconoscimento ha suscitato in molti – parlo almeno della mia generazione – un entusiasmo notevole, che si è espresso in commenti che sostanzialmente sottendevano un “finalmente”. Finalmente l’establishment si mette a pari con il mondo, con il nostro mondo, quello in cui leggere Houellebecq e ascoltare i Radiohead rappresentano due atti omologhi. Un mondo permeato di «una nuova cultura umanistica», costituita da quel «sistema di opere, figure intellettuali e generi che la comunicazione di massa ha prodotto» nel secondo Novecento, dando vita a «un corpus di testi e discorsi che ambiscono a spiegare o raccontare la vita umana in forme divertenti o istruttive, proprio come cercano di fare gli intellettuali e le opere della cultura tradizionale»[3]. Un mondo in cui il prossimo Nobel per la letteratura potrebbe vincerlo un autore di graphic novel, e nel 2026 magari Thom Yorke.
Eppure, qualcosa non torna. La motivazione dell’Accademia di Svezia – “having created new poetic expressions within the great American song tradition” – è, a ben vedere, piuttosto ellittica. Stoccolma non dà alcuna indicazione su quale sia la novità di Dylan nella grande tradizione della canzone americana. Dylan è stato tra i primi rappresentanti di un modo radicalmente nuovo di concepire il testo nella popular music, un modo sganciato dai modi corali, folklorici, del passato. Dylan mette in forma un’esperienza soggettiva unica, irripetibile, che non può più essere assimilata a quella di un gruppo. Non siamo più nella tradizione del folk, dove vige una sostanziale indistinzione tra autore e pubblico, ma in quella delle arti moderne, fondate sulla sovrapposizione fra la propria individualità irripetibile e quella di un altro essere umano. In questo modo Dylan prende presto le distanze tanto dal folk quanto dalla grande tradizione della canzone americana, quella della canzone di Broadway, di Tin Pan Alley e del jazz cantato del primo dopoguerra fino a tutti gli anni Quaranta, forme che presentano una soggettività più sfumata, accostabile a quella Gesellschaftslyrik (lirica di società) che caratterizza le scritture pseudo-soggettive premoderne, nelle quali
colui che dice io non è una persona biografica precisa ma una persona collettiva generica, un io fungibile che vive esperienze individuali (perché dette da una prima persona singolare) ma non individuate (perché indistinte ed emblematiche)[4].
L’individualità collettiva è il soggetto delle espressioni liriche popular degli anni Cinquanta, quelle che musicalmente si incarnano nel rock and roll e nella sua alternativa meno aggressiva, la pop music. Non è dato sapere se l’Accademia svedese si riferisca, nelle sue motivazioni, alla rottura che le opere di Dylan, con la loro carica di autobiografismo empirico, hanno introdotto nella tradizione musicale americana. La formula dell’annuncio del premio sottolinea sì la novità, ma dice anche che questa novità si innesta in una tradizione. Ma che cosa rimane di quella tradizione musicale nell’opera di Dylan? Davvero poco, sia nei testi che nella musica.
Che la popular music e la sua storia non siano proprio contemplate dall’Accademia di Svezia mi pare confermato dalle parole di Sara Danius, segretario permanente dell’Accademia dal 2013. Intervistata subito dopo l’annuncio del premio, Danius si esprime in questi termini:
(Why has Bob Dylan been awarded the Nobel Prize in Literature?)
He is a great poet. He is a great poet in the English speaking tradition, and he is a wonderful sampler, a very original sampler. He embodies the tradition, and for fifty-four years now he has been at it, re-inventing himself constantly, creating a new identity.
(How should one explore Bob Dylan’s work?)
I think that if you want to start listening or reading, you may start with Blonde On Blonde, the album from 1966. It’s got many classics, and it is an extraordinary example of his brilliant way of rhyming and putting together refrains, and his pictorial thinking.
(Has the Swedish Academy widened its horizon of the Nobel Prize in Literature?)
Well, it may look that way, but really we haven’t. In a way, if you look back, far back, 2.500 years or so, you discover Homer and Sappho, and they wrote poetic texts that were meant to be listened to, they were meant to be performed, often together with instruments. It’s the same way with Bob Dylan, but we still read Homer and Sappho, and we enjoy it and the same thing with Bob Dylan, he can be read and should be read, and he is a great poet in the English tradition, in the grand English poetic tradition.
Nessun riferimento alle “new poetic expressions” né tantomeno alla tradizione della canzone americana: solo un riconoscimento di valore all’interno della poesia in lingua inglese, della quale Dylan costituirebbe un esempio fulgido, e un superficiale accostamento alle espressioni di lirica in musica della cultura greca. Sembrano convivere due spinte contraddittorie, le stesse che informano la motivazione ufficiale del premio. Da un lato si vuole sottolineare la novità («a very original sampler», «creating new poetic expressions») e dall’altro si vuole ancorare la produzione di Dylan nei territori sicuri della tradizione, una qualsiasi («he embodies the tradition», «he is a great poet in the English tradition», «within the great American song tradition»). Tutto sommato pare che l’Accademia non sappia bene perché ha dato il Nobel a Dylan. Che l’unico intervento ufficiale riguardo al premio, appunto le parole esitanti e generiche del segretario Danius, si apra e chiuda con l’affermazione he is a great poet suona come un mantra, un ritornello ossessivo che nasconde questioni molto più complesse di cui non si parla.
D’altronde a ben guardare anche il Nobel a Dario Fo, nel 1997, poneva problemi analoghi. Anche in quella circostanza la motivazione insisteva sul legame con la tradizione (“[Dario Fo,] who emulates the jesters of the Middle Ages in scourging authority and upholding the dignity of the downtrodden”). Insomma: per legittimare forme in cui la parola non è letteraria ma orale e performativa, come nel teatro di Fo, bisogna necessariamente passare per la somiglianza con gli oggetti culturali del passato. Torneremo su questo problema.
He is a great poet
Il primo punto toccato da Danius nel suo intervento esplicita il sottotesto latente nelle reazioni più comuni che ho avuto modo di incontrare sulla mia bacheca Facebook, che è fatta in gran parte da musicisti di ambito popular e di appassionati di popular music: gli autori di canzoni sono poeti a tutti gli effetti; la testualità della canzone è del tutto analoga a quella della poesia scritta, letteraria. Di conseguenza Dylan può e deve essere letto, come si leggono tutti i poeti. La grandezza di Dylan risiederebbe, nella prospettiva di Danius, nella qualità dei suoi procedimenti rimici, nell’abilità di costruire i ritornelli e nella prospettiva pittorica del suo pensiero, ovvero – interpretiamo – nella sua capacità di dipingere con le parole il mondo interno ed esterno. Non possiamo fare a meno di notare come i tratti formali descritti da Danius non appartengano alla prospettiva della lirica occidentale da almeno un centinaio di anni: rime e ritornelli non sono certo materiale da poesia contemporanea. Non a caso, l’unica pubblicazione autenticamente letteraria di Dylan, a parte l’autobiografia Chronicles vol.1, contiene testi declinati in una forma molto diversa da quella che l’autore usa nella composizione per musica: Tarantula, scritto tra il 1965 e il 1966 e pubblicato nel 1971, è una collezione di poèmes en prose fortemente ispirata alle sperimentazioni beat coeve sullo stream of consciousness. Libera dall’impalcatura musicale e messa di fronte al medium della lettera-su-pagina, la parola di Dylan fa scelte stilistiche opposte a quelle delle canzoni: mette da parte rime e ritornelli e si inserisce piuttosto in un filone di poesia pienamente contemporanea. La testualità delle canzoni di Dylan è invece piena di elementi che contrastano con il percorso della poesia scritta novecentesca.
Questi tratti derivano dalla presenza della musica. Si tratta di elementi che fanno perno sulla centralità strutturale della ripetizione. Strategia compositiva imprescindibile e costitutiva di ogni scrittura musicale, la ripetizione non è certo estranea alla storia della poesia. Una storia in cui il rapporto con la musica si è variamente configurato, producendo tradizioni autonome di lirica in musica parallele alla poesia letteraria, in un negoziato perenne tra le ragioni dell’oralità e quelle della scrittura. Ma è soltanto dimenticando le evoluzioni del verso libero e le rotture formali del Novecento che possiamo considerare i testi di Dylan come rappresentativi di un fare poetico contemporaneo. A ben guardare, l’unica caratteristica che può accomunare il lavoro di Dylan a quello dei poeti di oggi è solo l’ultima di quelle sottolineate da Danius, ovvero quel «pictorial thinking» che informa i suoi testi. Questo fa di Dylan un artista contemporaneo, per il quale arte vuol dire espressione di sé, della propria visione del mondo, ma non necessariamente lo rende un poetacontemporaneo: i processi compositivi della lirica per musica, destinata alla performance e all’ascolto, e quelli della poesia scritta, destinata al libro e alla lettura, non sono sovrapponibili. Le regole di versificazione e le strategie della composizione verbale per musica derivano in modo strettissimo dalla natura dell’opera: la canzone funziona come un tutto fatto di parola e musica, con la voce che fa da ponte tra questi due universi linguistici. L’isolamento di uno dei due livelli genera una visione parziale dell’opera, genera fraintendimenti ed errori di interpretazione. I caratteri musicali di una canzone definiscono il senso del testo attraverso i parametri delle scelte melodiche, armoniche, di arrangiamento strumentale, di suono, e soprattutto – nel caso della canzone di area popular – attraverso il parametro cruciale della voce del singer-songwriter che incarna i versi nell’espressività propria del suo timbro. Per inquadrare correttamente la canzone popular all’interno della storia delle forme poetico-musicali è necessario considerare il rapporto stretto la pratica della registrazione. Le opere della popular music non si tramandano attraverso la notazione musicale, che dà luogo a partiture eseguibili da qualsiasi interprete e in qualche modo autonome rispetto all’autore, ma attraverso la registrazione audio, che fissa una performance e lega le opere al loro autore, al suono concreto della sua voce e alle scelte sonore sue e degli altri musicisti che partecipano all’incisione[5].
Tornando al parallelismo con il Nobel del 1997, definire letterario il fare dei giullari medievali, quello dei comici dell’arte (gli attori professionisti attivi dal XVI al XVIII secolo), quello di Dario Fo e in generale degli uomini di teatro che nei secoli hanno usato la parola prioritariamente in chiave scenica e non scrittoria, è altrettanto scorretto. Il rapporto tra teatro e letteratura, come quello tra poesia letteraria e poesia in musica, si è configurato in modo complesso e variegato nei secoli, producendo le tradizioni parallele della letteratura teatrale e del teatro recitato. Un rapporto che, analogamente a quanto avvenuto per la poesia, ha subito il peso del prestigio attribuito alla lettera nella cultura occidentale, inducendo spesso gli autori a pubblicare in forma cartacea le proprie opere pure quando queste erano nate in un ambito del tutto diverso, appunto la scena, declinando in forme di «drammaturgia consuntiva» l’originaria «drammaturgia dell’oralità» che vive nella recitazione (Ferrone 2014: 84-109). Questa pratica di lungo corso, che ricalca la pubblicazione delle opere di letteratura teatrale slegate dalla scena, ha contribuito a una percezione del teatro come fatto letterario. È per questo che oggi chi mette in discussione la liceità del Nobel a Dylan è molto meno disposto a fare lo stesso con il Nobel a Fo. Ma torniamo alle parole di Sara Danius.
We still read Homer and Sappho
Sì, è vero, leggiamo Omero e Saffo. Abbiamo alternative? Le musiche che accompagnavano le performance della poesia epica e lirica della Grecia antica, inscindibili della parola poetica, sono irrimediabilmente perdute. Questo per due motivi, legati tra loro. Anzitutto, quella greca è una cultura dell’oralità in cui le opere poetico-musicali vengono diffuse, recepite e trasmesse (tramandate a memoria) secondo modalità orali-aurali. Le opere vengono composte per una esecuzione pubblica, all’interno di occasioni specifiche, cui si legano i vari generi della poesia greca[6]. Gli eventi storici hanno spezzato la tradizione diretta di questa prassi poetico-musicale. Ma se una piccolissima parte dei testi è sopravvissuta fino a noi attraverso la trasmissione scritta, il recupero della musica è reso impossibile da un fatto molto semplice: ai tempi della composizione dei poemi omerici non esisteva in Grecia alcun tipo di notazione musicale, e il sistema sviluppato dalla cultura greca a partire dal VI secolo a.C. non descrive il fatto musicale nella sua interezza. È soltanto un modo di fissare con sufficiente approssimazione moduli musicali tradizionali che, noti a tutti i professionisti e teorici della musica, caratterizzavano le esecuzioni dei diversi generi poetici secondo il sistema dei nomoi prima e delle harmoniai dopo. La notazione musicale viene usata in questo contesto principalmente per segnare i profili di questi sistemi, permettendo così la discussione teorica delle questioni musicali sulla base di esempi concreti. In altre parole, nella cultura greca non è mai esistito un repertorio di opere musicali autoriali di cui potremmo oggi recuperare le partiture. I poeti-musici facevano riferimento, per la musica ancor più che per i testi, a convenzioni di genere che interpretavano di volta in volta, nella concretezza della performance.
I testi di Omero e Saffo sono filtrati nella tradizione letteraria occidentale. Sono stati copiati, stampati, pubblicati e diffusi come lettera: come tali sono stati fruiti nei secoli e ancora oggi, attraverso la lettura individuale silenziosa, nell’impossibilità di fare altrimenti. Le opere di Bob Dylan non hanno subito questa mutilazione. Possiamo cercare le canzoni in rete, mettere un disco sul lettore, o andare a un concerto, e ascoltarle esattamente per come sono state concepite, ovvero attraverso una trasmissione orale-performativa che implica un ascolto. Perché fare diversamente? In cosa la lettura silenziosa dei testi musicali, che produce una fruizione dimezzata delle opere, può rappresentare un vantaggio? Perché dovremmo leggere Dylan quando possiamo ascoltarlo? Lo stesso vale, con le dovute differenze, per tutte le tradizioni poetico-musicali della cultura occidentale che non abbiano subito mutilazioni. Chi si sognerebbe di leggere il Trovatore di Cammarano quando può ascoltare il Trovatore di Verdi? Certamente uno studio della componente lirica di un singer-songwriter può produrre risultati importanti, e certamente è necessario per una comprensione delle opere, a patto però che il lettore/critico tenga a mente che il testo non può essere separato dalla musica, e a patto che la lettura non sostituisca l’ascolto. Le pubblicazioni di testi musicali, di Dylan come di qualsiasi autore che abbia un mercato abbastanza vasto, da Nick Cave a Tiziano Ferro, sono per lo più operazioni commerciali, non letterarie. Sono testi di servizio che possono essere utili ad approfondire la conoscenza di un autore, o (soprattutto nel caso di paesi non anglofoni) a canticchiare con più cognizione mentre si ascolta. D’altronde, gli acquirenti più probabili di questi prodotti sono i fan, cioè persone che conoscono già gli autori e hanno imparato ad amarli attraverso la fruizione più corretta, ovvero l’ascolto.
Conclusioni
Dare a un cantautore il titolo di poeta è percepito come un riconoscimento di valore e attribuire il Nobel a Bob Dylan significa, più per un caso di eterogenesi dei fini che non per volontà diretta dell’Accademia di Svezia, ammettere che la popular music, dopo cinquant’anni di vita, si è meritata un posto legittimo tra gli oggetti culturali del canone contemporaneo. La posizione delle istituzioni che dispensano il capitale simbolico (le Accademie, le università) non è facile. L’atteggiamento dell’Accademia di Svezia è schizofrenico: riconosce sì l’importanza di Dylan, ma per ragioni equivoche; in ultima analisi riconduce la sua opera al gregge degli oggetti letterari tradizionali, per una forma di pigrizia che, schiacciando l’opera su parametri estranei all’opera, porta a sostenere che Blonde on Blonde sarebbe un capolavoro per i procedimenti rimici che l’autore mette in atto (!). Dare un Nobel per la Letteratura a Dylan in questo senso non significa altro che concedere al songwriting un effimero riflesso del prestigio che la Lettera ha nella tradizione occidentale, senza riconoscere il portato della rivoluzione delle arti popular. Queste arti ridimensionano la priorità culturale della scrittura. L’allargamento di orizzonti che il segretario Danius esplicitamente rifiuta nel suo intervento comporterebbe una ridefinizione della letteratura in arte della parola, con l’inclusione di forme compositive che esulano dalla scrittura, forme nate e prosperate nella cultura «a privilegio orale, o a “oralità secondaria” o “di ritorno”»[7] che caratterizza il nostro tempo.
Mettere insieme in un grande calderone chi usa il medium della scrittura in chiave letteraria (poeti, romanzieri, autori di racconti) con chi invece declina la parola artisticamente in una prospettiva diversa, multimediale, sia essa orale-performativa (singer-songwriter, autori teatrali) o di altro genere (il graphic novel per esempio) appiattisce i tratti specifici delle singole forme espressive. È un approccio che ignora l’apporto di senso delle altre componenti mediali ai significati veicolati dalla parola. La vera rivoluzione non è dare un Nobel per la Letteratura a Bob Dylan: la vera rivoluzione sarebbe piuttosto accettare la pari dignità di forme culturali non letterarie riconoscendone le specificità, valorizzandole e studiandole per quello che sono. Se proprio l’Accademia svedese volesse essere al passo con i tempi nella considerazione delle opere della popular music, l’istituzione di un Nobel per le Arti performative potrebbe forse essere un atto più significativo.
Bibliografia
Siro Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014.
Gabriele Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005.
Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005.
[1] Popular art: any dance, literature, music, theatre, or other art form intended to be received and appreciated by ordinary people in a literate, technologically advanced society dominated by urban culture. Britannica.com last updated 7-20-1998.
[2] Su questo cfr. G. Sarno, Popular Poetry. Rock e poesia, qui https://www.leparoleelecose.it/?p=23891
[3] G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 229.
[4] Ivi p. 100.
[5] La pratica della cover non è assolutamente assimilabile a quella dell’esecuzione da parte degli esecutori delle partiture musicali di area “colta”, perché presuppone una appropriazioni interpretativa e trasformativa delle opere. Lo speciale legame tra la voce che canta di ambito popular e il testo cantato prescinde in parte dal fatto che il cantante sia in effetti l’autore delle liriche.
[6] La produzione monodica (lirica, elegia e giambo) si consuma all’interno del convito e, più tardi, del simposio, istituzioni eminentemente politiche, all’interno delle quali la poesia, parte integrante del cerimoniale, ha la funzione di cementare l’identità del gruppo (eterìa). Oppure nel tìaso, struttura educativa femminile preposta alla trasmissione dei valori tradizionali. La lirica corale, invece, è destinata alle feste religiose e comunitarie.
[7] G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005.
[Immagine: Bob Dylan]