di Pietro Bianchi

[LPLC va in vacanza fino a settembre. Anche quest’anno, per non lasciare soli i nostri lettori, riproporremo alcuni dei pezzi apparsi nei mesi precedenti. Questo intervento è uscito il 20 dicembre 2016].

Lacan diceva spesso che la psicoanalisi deve reinventarsi ogniqualvolta vi sia un’analisi. Contrariamente a quello che molti credono l’esperienza dell’inconscio non è infatti una cosa stabile e ben precisa, una sorta di “cura standard” che possa essere “applicata” sempre uguale (da cui la molto celebre forma di resistenza: “ma no guarda, la psicoanalisi non fa per me”); ma è semmai una semplice possibilità, affatto precaria e incerta, che qualcosa dell’ordine dell’inconscio in uno spazio e in un tempo determinati possa accadere. O per meglio dire è un’ipotesi per cui, stante alcune minime condizioni, alcune conseguenze possano più facilmente essere prodotte. Senza garanzia né certezze. Non esiste “soddisfatti o rimborsati” né uno psicoanalista potrà mai assicurare al 100% di buon esito di quell’esperienza. Bisogna fare fatica – certo – ma bisogna anche essere fortunati. La psicoanalisi è una possibilità che un incontro col reale – per definizione sempre contingente – possa prodursi. Forse è per questo che è un’esperienza che si adatta così male al discorso del capitalista e alla logica dei servizi, secondo cui a un esperto viene chiesta l’erogazione di una prestazione in cambio di denaro, e se non è soddisfacente è lecito lamentarsi e andare a chiedere conto al garante di turno, che poi di solito è lo Stato o uno dei suoi emissari.

Ma quali sono queste minime condizioni? Sono davvero minimali e generalissime, e si potrebbe ridurle a due: il divano – ovvero il fatto che l’analizzante non guardi l’analista faccia a faccia durante la seduta – e l’associazione libera, cioè il fatto che l’analizzante debba parlare. Parlare e basta, senza preoccuparsi di che cosa venga detto. Proviamo allora a riflettere sulla prima di queste due condizioni, che ancor’oggi a molti appare così bizzarra. Perché è necessario che un analizzante si sdrai sul divano e non guardi lo psicoanalista negli occhi? La maggior parte della psicoterapie ormai non avvengono forse faccia a faccia come in una normale conversazione tra due persone?

Al di là di ogni considerazione clinica, la cosiddetta “regola del divano” permette di mettere in luce una questione più generale, che riguarda il rapporto che abbiamo con l’immagine dell’altro nella quotidianità della comunicazione e che ci può far capire il legame che intercorre tra l’immagine e i processi di identificazione. Quando infatti normalmente parliamo con una persona che cosa succede? Noi produciamo alcune parole e queste vengono indirizzate al nostro interlocutore che annuisce nel caso ne comprenda il senso o magari fa un’espressione interrogativa o sconcertata se invece il significato risultasse essere ambiguo. Il problema è che nel momento in cui noi produciamo queste parole, non ci è dato sapere in anticipo se il senso del nostro discorso sarà chiaro o no. Spesso ci raffiguriamo la comunicazione come se i nostri pensieri si producano prima in modo chiaro e distinto nella nostra testa e poi vengano espressi sotto forma di parole solo nel momento in cui devono essere comunicati a qualcuno: ma questo non è mai vero! Il nostro discorso prende forma nel momento stesso in cui lo pronunciamo per qualcun altro. Questo fa sì che molto spesso le parole che esprimiamo non siano perfettamente chiare nemmeno a noi stessi. È per quello che ci capita di dire: “ma no guarda, questo non è quello che intendevo”, perché a volte le nostre stesse parole sembrano non corrispondere a quello che avremmo voluto esprimere. E la stessa cosa avviene nello scritto ogniqualvolta rileggiamo ciò che abbiamo appena scritto come se fosse il discorso di qualcun altro; come se il linguaggio abbia in sé una forma di ambiguità: come se le parole abbiano una vita propria che noi non controlliamo fino in fondo e che ci coglie di sorpresa. Quando rileggiamo ciò che abbiamo scritto o quando tentiamo di riformulare un’espressione che abbiamo usato ma non volevamo usare, cerchiamo di “spostare” il senso delle parole da un’intenzione con la quale non ci vogliamo identificare. “No guarda, questo non è quello che volevo dire”, “No, quello che ho scritto non è quello che intendevo scrivere”. Le parole che tu hai sentito o quelle che ho scritto, esprimono qualcosa che io non sono. Io non mi identifico in esse. Allora le cancello o le scrivo meglio. Io non sono quella cosa lì.

Il ruolo dell’interlocutore nel discorso quotidiano non è allora solo quello di recepire il contenuto del nostro discorso ma anche quello di confermare a noi stessi l’avvenuta corrispondenza tra le parole che noi abbiamo pronunciato e il senso che volevamo darle. Ha l’obiettivo cioè di produrre un’identificazione. Nel momento in cui l’altro annuisce, o nel momento in cui dice “sì certo”, non ci sta solo dicendo che ha capito quello che volevamo dirgli, ci sta anche rassicurando del fatto che le parole che abbiamo pronunciato esprimano correttamente quello che noi siamo. Il volto dell’altro che annuisce ci conferma che noi siamo le parole che abbiamo detto, e che quindi possiamo tranquillamente identificarci con il nostro discorso e apporci idealmente una firma.

Se l’altro non si mettesse ad annuire, se l’interlocutore cominciasse ad avere un’espressione di pietra, il risultato non sarebbe solo quello di mettere in dubbio il contenuto del nostro discorso, ma anche quello – ben più grave – di mettere in dubbio la nostra stessa identità; di mettere in dubbio quello che noi siamo. Non ci riconosceremmo più nelle nostre parole e dunque non ci riconosceremmo più in noi stessi. La parole che io ho pronunciato inizierebbero ad avere vita propria: e dunque chi sono quell’Io che è depositato in queste parole che io ho detto ma che sembrano ora non avere più alcun senso per me? Chi sono quell’Io che emerge da queste parole e che io non riconosco più? Il divano – cioè, la messa tra parentesi del patto intersoggettivo che sostiene la comunicazione quotidiana – ha allora l’obiettivo di sospendere quella spontanea identificazione che noi pensiamo di avere con le nostre parole. È questo quello che Lacan intendeva con il suo celebre “stadio dello specchio”: la conferma della nostra identità narcisistica è fuori da noi e dipende dall’immagine dell’altro di fronte a noi. O per essere ancora più precisi, dipende dallo sguardo dell’altro che sostiene e ci rassicura dell’identificazione con il nostro discorso.

L’eclissi dello sguardo dell’altro provoca allora un minimo effetto d’angoscia; provoca uno scricchiolio nel processo di appropriazione delle nostre parole e del nostro discorso. È quello che molti pazienti dicono della propria esperienza d’analisi: “inizio ad ascoltare le mie parole come se fossero quelle di un altro, come se a pronunciarle non fossi più io”. E in effetti sono quelle di un altro; un altro nel quale ancora non ci riconosciamo ma che tuttavia noi siamo. L’inconscio che emerge nell’esperienza d’analisi non sta nella profondità dell’Io ma nella superficie del discorso. Sta letteralmentenelle parole. Un discorso che siamo abituati a non sentire e a non vedere mai proprio perché l’Io ce lo rende inudibile e illeggibile.

Questo processo lo vediamo all’opera anche in un celebre racconto di Nathaniel Hawthorne, Il velo nero del pastore(1836), da cui Romeo Castellucci ha appena tratto il suo nuovo progetto teatrale, The Minister’s Black Veil, presentato per la prima volta la scorsa settimana ad Anversa (prodotto da Socìetas e deSingel, scritto da Claudia Castellucci, interpretato da Willem Dafoe e con musiche di Scott Gibbons). Il racconto, ambientato in una piccola comunità puritana del New England, narra le vicende del Reverendo Hooper, pastore protestante che da un giorno all’altro e senza alcun motivo apparente inizia ad apparire pubblicamente con il volto coperto da un velo nero. All’inizio le reazioni della comunità di fedeli sono di sconcerto, dato che nessuno riesce a comprendere quale sia la ragione che ha spinto il Pastore a prendere una simile decisione. Persino la fidanzata Elizabeth non riesce a capirne il motivo dato che anche in privato con lei il Reverendo Hooper non è disposto a togliersi il velo né a spiegare le ragioni del suo atto. Ma se questo gesto produce immediatamente un effetto d’angoscia nella quotidianità della parrocchia, il risultato dal punto di vista della Fede è invece ribaltato: sempre nuovi fedeli si avvicinano alle predicazioni del pastore e vogliono incontrare il Reverendo in privato per parlargli dei propri peccati. Il velo nero del pastore è insomma una riflessione allegorica sul peccato che – ci pare dire Hawthorne – invece che essere represso nell’intimità e nella vergogna deve essere reso visibile attraverso un gesto di eclissi di ciò che di più singolare caratterizza un’identità: ovvero il volto.

L’effetto della copertura del volto, che in prima istanza produce un effetto di instabilità psicologia – esattamente come avviene nella psicoanalisi quando il processo di riconoscimento della comunicazione intersoggettiva viene messo in scacco – ha alla lunga una conseguenza quasi liberatoria: perché è solo tramite l’aperta ammissione della propria vergogna – del buco nero della propria anima – che è possibile ribaltare la propria essenza di peccatori in un gesto di liberazione. Infatti quando Padre Hooper è sul letto di morte invita i fedeli a non preoccuparsi del suo velo perché è già come se tutti loro lo indossassero, e così viene sepolto senza che nessuno abbia il coraggio di rivelare che cosa ci sia sotto quel velo: perché si comprende che il problema a quel punto non è più di vedere che cosa vi sia nascosto e di riportare tutto a una visibilità assoluta e a una spiegazione, ma assumere fino in fondo l’inaggirabilità di quel punto cieco attorno a cui si struttura la soggettività umana, e che in questo caso ha il nome di peccato.

Il progetto di Castellucci coglie un’efficace effetto di raddoppiamento che si trova nel racconto di Hawthorne dove si menziona un’omelia di Padre Hooper, il cui contenuto però non viene svelato nel libro e che va a occupare nel testo lo stesso posto strutturale che il velo ha per i fedeli del racconto. The Minister’s Black Veil è allora strutturato come la messa in scena di questa omelia mancante: in una chiesa consacrata – quella di San Michele ad Anversa – con un pubblico che siede sui banchi della messa e al quale viene chiesto di pregare e di cantare esattamente come se si trovasse in una funzione religiosa (e al quale viene proibito di applaudire alla fine della performance) si vedrà un prete (interpretato da Willem Dafoe) pronunciare l’omelia che manca al libro.

Romeo Castellucci, che dal periodo “iconoclasta” della Socìetas Raffaello Sanzio degli anni Ottanta[1] a spettacoli recenti come Sul concetto di volto nel figlio di Dio (2010) e Go Down, Moses (2015)[2] è da decenni che riflette sullo statuto paradossale dell’immagine e del visibile, prende questo svelamento in contropiede. Ciò che viene svelato nella pseudo-omelia di Padre Hooper non è la ragione del velamento ma è una riflessione su quella che è l’implicazione dello sguardo dei fedeli nello stesso desiderio di svelamento. Perché si vuole andare a vedere che cosa c’è dietro al velo? Perché il visibile deve essere sempre riportato a una visibilità assoluta? Che cosa dice di noi questa sorta di insofferenza nei confronti dell’incompletezza del visibile?

Nel testo dell’omelia (scritto da Claudia Castellucci) il problema viene affrontato a partire dal commento di alcuni citazioni bibliche che ruotano tutte attorno al tema della visibilità: “Non sanno né comprendono; una patina impedisce ai loro occhi di vedere e al loro cuore di capire” (Is, 44, 18); “hanno occhi ma non vedono” (Ps 115, 5); “Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (Cor, 13, 12). L’incompletezza del campo visivo dice qualcosa della Fede, che non è nient’altro che il modo cristiano di nominare la questione del soggetto: perché il soggetto emerge laddove vi sia un anello mancante nell’edificio del sapere assoluto o nella visibilità assoluta. Il soggetto non sta in quel feticcio idolatrico di chiarezza che è il volto – che passa sempre dallo sguardo dell’interlocutore e che finisce sempre per confermare il principio d’identità – ma sta appunto in quel buco nero. Nel velo non nel volto: là dove l’identità inizia a scricchiolare.

La questione allora di The Minister’s Black Veil è il rapporto tra la Fede e la chiarezza dell’immagine. Se l’immagine fosse tutta, se ci riconsegnasse la totalità del sapere, allora – dice Padre Hooper – la Fede non avrebbe alcuna ragione d’essere. La Fede invece è il correlativo esperienziale dal fatto che vi sia qualcosa che buca il campo del sapere e che ce lo mostri nella sua verità, che è quella di essere incompleto. Questo in una cultura che ha associato in modo indissolubile conoscenza e visione, vuol dire elaborare un paradigma della visione che assuma di sé la sua inevitabile incompletezza, o come direbbe Lacan il suo statuto di non-tutto. Detto in altre parole, l’immagine, anche quando sembra chiara e distinta e ha le sembianze dell’assoluta trasparenza che si ha nella comunicazione intersoggettiva (“io ti dico delle parole e tu le capisci”), mostra ma nello stesso tempo nasconde, o per meglio dire nasconde proprio nella forma della sua paradossale mostrazione. È una questione particolarmente rilevante laddove nel discorso ideologico dominante invece si tratta spesso l’immagine come “evidenza fotografica” del reale (e allora la foto diventa “prova di qualcosa che è avvenuto”, come accade sempre per le testimonianze di qualche crimine contro l’umanità). La Fede cristiana in The Minister’s Black Veil diventa allora un modo non tanto per acquisire una posizione di chiarezza e di verità assoluta, ma al contrario per assumere fino in fondo il punto cieco del visivo; o per abitare senza paura l’angoscia dell’incompletezza del visivo, come si dice splendidamente in questo passo del testo:

Vi ricordate che Dio, tanto tempo fa, vicino al roveto ardente mise in guardia Mosè del fatto che la sua vita sarebbe stata in pericolo se solo l’avesse visto con i suoi occhi? Vi ricordate? O Dio, non avvicinarti. Non venire vicino a noi in modo da poterti vedere, perché questo condurrebbe la nostra Fede alla morte. Non vogliamo essere come l’Apostolo Tommaso che non credette alle parole dei suoi fratelli quando gli dissero che avevano visto Gesù risorto. […] Per lui la Fede non è diversa dalla percezione. […] Oh dolce Gesù, proprio perché Tu non sei più presente, Tu, Tu non sei un illusione… La verità è esattamente l’opposto. Ah, è per puro caso che io sento questo mio corpo! Questa è senz’altro un’illusione! Perché tutto, tutto vive senza la mia presenza, prima che io venissi al mondo e dopo la mia morte… Io stesso non sono sicuro di me stesso. La tua assenza è più concreta della mia presenza. La tua distanza è più reale della mia esistenza qui.

[1] Romeo Castellucci, L’iconoclastia della scena e il ritorno del corpo, in Gennario Carillo (a cura di), Teatro, Cronopio, Napoli 1997, pp. 19 – 30.

[2] Si veda tutta la sezione Spettatore/noi, affezione, sofferenza dell’immagine dell’imprescindibile volume curato da Piersandra Di Matteo Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, Cronopio 2016, pp. 83 – 126.

 

[Immagine: The Minister’s Black Veil]

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