di Emiliano Morreale
[Dal 18 al 27 aprile LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi all’inizio del 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’intervento di Emiliano Morreale è uscito il 13 gennaio 2012].
Le immagini di sesso esplicito, per lungo tempo vendute e consumate in maniera più o meno sotterranea e illegale, nel corso del decennio hanno invaso gli schermi domestici. Dal 1988 al 2005 i titoli a luci rosse negli Usa sono passati da circa 1200 a più di 13.500 l’ anno (la Hollywood “ufficiale” ne produce circa 400). Secondo i dati più attendibili, nel 2006 erano attivi almeno 4 milioni di siti porno: il 12% di tutta la distribuzione online (oggi saranno molti di più, visto che ne nascono circa 270 al giorno). Una parola su quattro inserita nei motori di ricerca, e un download su tre, sono di carattere pornografico. La vera mutazione però è qualitativa, e non riguarda i singoli prodotti, ma la struttura del sistema. Il cinema, la televisione, la moda hanno un “doppio” osceno sotterraneo e rimosso, che sempre più viene a galla al tempo di Internet.
Questo mondo è interrogato dagli studiosi di rado, e con comprensibile imbarazzo. In America i cosiddetti porn studies sono nati all’ inizio degli anni Novanta, da una costola della teoria femminista e dei cultural studies. Da qualche tempo, questo filone di studi è giunto anche in Italia, ad opera di una generazione di studiose e studiosi non a caso trenta-quarantenni, che in un mondo così sono cresciuti. Da un paio d’ anni a Gorizia si tengono convegni internazionali sul tema (con titoli tipo “Economies, Politics, Discoursivities of Contemporary Pornographic Audiovisual”) ed è appena uscito un ponderoso volume intitolato Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media (a cura di Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca, Mimesis). Il libro offre i dati che abbiamo citato e ricapitola anche la vita clandestina della pornografia nel secolo scorso: dalla fase dei filmini mostrati nei bordelli o spediti per posta, all’ esplosione con titoli come Mona, the Virgin Nymph (1970) e Gola profonda (1972). Così il porno diventa un genere tra i generi, mutuando dal mainstream hollywoodiano un modo di fruizione (la sala), una forma narrativa (il lungometraggio di finzione) e uno standard tecnologico (il 35mm). Negli anni Ottanta, quando le sale (anche a luci rosse) cominceranno a chiudere, l’avvento del video moltiplicherà la produzione. Del resto, i contenuti per adulti guidano da sempre lo sviluppo dei media. Trent’ anni fa, il Vhs si affermò anche perché Sony, che sosteneva il formato Betamax, sosteneva una netta politica anti-porno. I dvd sono stati spinti dai “pornomani” perché rendevano più comodo trovare in modo rapido momenti specifici del film. E fondamentale è stato questo segmento di pubblico per avviare la tv via cavo, i servizi telefonici a pagamento o la banda larga.
Oggi siamo davanti a un passo ulteriore, che non riguarda i singoli prodotti o mezzi di comunicazione. È quella che nel libro citato viene chiamata “pornificazione del mainstream“, una “invasione hardcore della cultura popolare”. La stessa che ha incuriosito scrittori come Martin Amis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk, che le hanno dedicato reportage e libri. Il porno espanso analizza il ruolo dell’ immaginario fetish nella creazione del divismo musicale, da Madonna a Lady GaGa; il porno “emerso” diventa glamour, alludendo fino a un certo punto a un universo osceno. L’ arrivo in Italia dei canali satellitari produce combinazioni di generi, nei quali anche l’ hard ha la sua parte: reality show, pseudo-inchieste, serie (ultima la francese Xanadu, una specie di Dallas sui magnati del porno), o inopinati talkshow (esiste una specie di versione inglese di Forum, con un giudice che dirime questioni sessuali tra partner). Potremmo dire che i due poli ideali dell’ “immaginazione pornografica” attuale sono la declinazione glamour e il suo opposto, la verosimiglianza bruta: il filmato domestico e amatoriale (il cosiddetto gonzo), autentico o più spesso finto, che presuppone, notano gli autori del libro, “una sorta di sovrapposizione semantica che assimila il concetto di reale a quello di privato”. Insomma il massimo del realismo, e la cosa più eccitante, è ciò che viola (o finge di violare) la privacy. Il consumo di pornografia domestico, immediato, prêt-à-voyeur potremmo dire, cambia. Si tratta forse della forma perfetta di consumismo: “Perseguire il piacere è uno dei principali modi di edificare la nostra soggettività in forme autorizzate”, sostiene il teorico inglese Mark Fisher. Il web 2.0 stimola nuove forme di voyeurismo, e anche di esibizionismo, e non solo in quelle forme che sono state definite IPorn (l’ esibizione erotica sul web). Ad esempio, di recente è sembrata rassicurante le notizia che il numero di utenti dei social network abbia superato quello dei consumatori di webpornografia: “Facebook batte il porno”. Ma tra i due consumi, nota uno degli autori di Il porno espanso, c’è una certa congruenza, dovuta alla natura vertiginosamente promiscua di queste piattaforme, che costituiscono “una innovativa forma di autoerotismo del sé”. La pornografia, insomma, non è oggi questione di contenuti: è quasi la logica culturale dei media; è il modo in cui funzionano le immagini, in cui noi spettatori/consumatori guardiamo e ci facciamo guardare.
[Immagine: Wim Delvoye Pipe 2, 2001. Fotografia in bianco e nero su alluminio, particolare (em)].
E Moresco?
La pornografia
Da quel generoso bandito
super inflazionato
lasciarsi andare
Sembra in arrivo
Un’anarchica terribile
Invadenza per l’ordinario,
un alba nuova di usi e costumi
per il comune senso del pudore,
un allegra disinvolta puttanella
delibera nell’accettazione,
del riconoscere a norma
certo innocuo intender
lo schifo prezioso di superati tabù,
Che stuzzica
Una possibile contemplazione
Oltre
E forse inoltre.
… il venir meno.
Ma la foto? oh my God!
Lo diceva già Mr. Treehorn: «Non ci conviene più investire nello sviluppo artistico, nelle storie valide, nei sentimenti». http://www.youtube.com/watch?v=SeFLVfe6oWQ
Estremamente interessante il legame tra «autentico» e «privato». Mi sembra che accada qualcosa di simile anche in letteratura in opere che più o meno si rifanno all’autofiction.
Mi sembra meno convincente, però, il legame tra musica e pornificazione del mainstream. Basta ripensare ai classici del rock (e, prima ancora, del jazz o del blues, specie quello urbano) per rendersi conto che se pornificazione c’è, c’è sempre stata. Un esempio relativamente recente è The lemon song.
Il fenomeno della “pornificazione del mainstream” riguarda anche la pubblicità televisiva dei canali generalisti, ovvero uno dei mezzi che, per la sua destinazione, sembrerebbe meno adatto.
Si pensi a uno spot come quello 2009 di Nastro azzurro, dove una provvidenziale colorazione blu, giustificata solo dal nome del prodotto, evita che il rimando a una scena hard sia eccessivamente esplicito.
“La pornografia, insomma, non è oggi questione di contenuti: è quasi la logica culturale dei media; è il modo in cui funzionano le immagini, in cui noi spettatori/consumatori guardiamo e ci facciamo guardare”: mi pare una bella sintesi di come l’esposizione raddoppiata che è la pornografia (se non sbaglio l’etimo riconduce a una rappresentazione dell’esibizione) sia diventato mezzo privilegiato dell’espressione, del nostro continuo – passatemi la boutade un po’ greve – ‘venir fuori’…
Sulle pornotopie c’è l’ultimo libro di Preciado, che analizza attraverso la storia di Playboy l’organizzazione degli spazi (e quindi la gestione dei corpi) dell’avanzante neoliberismo. A me però continua a far riflettere l’esondazione del porno nella teoria e nella, chiamiamola, high culture. Per esempio: le cosiddette resistenze politiche post-porno, tipo quelle di Nadia Granados, , che nei suoi video si titilla oscenamente mentre parla di imperialismo e diritti (titoli emblematici: “Orgullo americano”, “Maternidad obligatoria”). Mi dicono che questa è una performance di lotta politica, ma a me sembra che se del politico vi sia una certa componente pubblica manchi del tutto quella collettiva. Una questione non secondaria. Oppure, sul lato estetico, penso ai Digital Diaries di Natacha Merritt: un lavoro che, nonostante la (o grazie alla) sua vagina costantemente esposta, mi pare si possa legittimamente chiamare ‘opera’, qualcosa di bello e che sta nei libri di storia dell’arte.
Questo per stare ai “contenuti”. Sulla “logica culturale” invece credo che i tempi abbiano smentito Mr. Treehorn: mi attento a immaginare che proprio a ragione del porno diffuso vi sia tanto pullulare di fiction sui buoni sentimenti e romanzi voliani…
Così, un intervento di suggestioni per dire che ho apprezzato questo articolo.
Un saluto,
r
(Accidenti, non guardo la pubblicità per allergie varie e non lo conoscevo. Il filmato pubblicitario di Nastro Azzurro è piuttosto inquietante. Ed è uno sballo in analisi semiotica. Grazie.)