di Andrea Cortellessa
[LPLC va in vacanza fino a settembre. Anche quest’anno, per non lasciare soli i nostri lettori, riproporremo alcuni dei pezzi apparsi nei mesi precedenti. Questo intervento è uscito il 27 febbraio 2017].
Cinquant’anni sono pochi, per la storia; ma un’eternità nel tempo iper-accelerato in cui consumiamo, oggi, la nostra esistenza. Cinquant’anni fa, il 20 gennaio 1967, si consumava un’esistenza esemplare – o che tale è stata, nel formarsi psicoaffettivo della mia generazione; mentre è verosimile appaia del tutto aliena, “storica” come quella di un ussaro napoleonico o d’uno scriba egizio, ai “nativi digitali” di oggi. Moriva quel giorno colui che l’unico suo possibile rivale, Gianfranco Contini, definì «primo critico letterario italiano di questo secolo»: Giacomo Debenedetti.
Fra i non molti a ricordarlo è l’editore che – tanti passaggi societari dopo – a lui tutto deve, il Saggiatore. Anche se lo fa, con contraddizione non priva d’una sua torbida eleganza, al contempo chiudendo la collana a lui più direttamente ispirata, le «Silerchie». Vi esce infatti in questi giorni la sua quinta e ultima raccolta saggistica, Il personaggio-uomo(pubblicata postuma nel 1970). Fra i cultori di Debenedetti è classica la diatriba tra la perfetta calibratura “narrativa” dei saggi e la tessitura “conversativa” dei grandi corsi universitari (da “libero docente”, beninteso), a Messina e a Roma; ma proprio Il personaggio-uomo rappresenta, in tal senso, la sintesi perfetta: facendo precipitare nella forma-saggio la straordinaria apertura alla contemporaneità che caratterizzò il suo ultimo decennio di vita: quello coinciso, appunto, coll’avventura del Saggiatore di Alberto Mondadori (dal «narratore moderno» Michelangelo Antonioni all’«ingiustamente bistrattato Capriccio italiano di Edorardo Sanguineti», nella Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo: le quaranta straordinarie pagine del ’65 che danno il titolo alla silloge). Come dice Raffaele Manica nella bella prefazione del volumetto, è «il passaggio del testimone nella staffetta che salda il Debenedetti scritto al Debenedetti orale».
Sempre Manica ricorda le parole di Hannah Arendt su Walter Benjamin, sulla «fama postuma» che sembra «essere il destino degli inclassificabili». E tanti sono in effetti i contatti fra queste due biografie: dalla natura anfibia, di critico insieme scrittore, sino all’incomprensione da parte di quell’Università che avrebbe avuto tutti i vantaggi, invece, a coltivarne il magistero, passando per l’identità di marxisti eretici (animati dal sostrato della mistica ebraica). Ma ce n’è un altro, più sottile. Tanto Benjamin che Debenedetti, infatti, si congedano dalla forma che hanno innalzato a cime abissali, il saggio appunto, con un episodio di perfetta ambivalenza: tanto le pagine sul Narratore del primo, del 1936, che la Commemorazione provvisoria del secondo celebrano infatti lo spirito della narrativa classica registrandone il tramonto; e si spingono più d’ogni altro nel futuro – proprio come l’Angelo della storia raffigurato dallo stesso Benjamin nella nona tesi Sul concetto di storia – con gli occhi fissi sul passato. È in fondo la stessa stimmung che si respirava nella Commemorazione di De Sanctis del ’34 (e non era stata neppure la prima volta, quella, che il temine era stato impiegato da Debenedetti prima del suo testamento del ’65: è del 1928 la Commemorazione di Proust), quella dove si leggeva: «Celebriamo sentimentalmente, e commemoriamo, in Francesco De Sanctis colui che, della gloria letteraria, gustò l’alloro più amaro, il più tardo e il più restio: l’alloro del critico».
È il viatico migliore per un tempo, quello odierno, che pare costretto a commemorare, con Debenedetti, una cosa che non c’è più: la critica letteraria, appunto. Destinata però forse a risorgere – in forme nuove, s’intende, e oggi imprefigurabili – in un futuro tutto da scrivere.
Che sia in crisi, la critica letteraria, lo sappiamo ormai da quasi un quarto di secolo (Cesare Segre intitolava nel 1993, un suo libro, Notizie dalla crisi); che sia morta, dovremmo saperlo da almeno un decennio (Eutanasia della critica, addirittura, è un titolo di Mario Lavagetto del 2005). Non credo però che le ragioni principali di questo fenomeno siano da addurre, come fa Vittorio Coletti sul numero dell’«Indice» di novembre, alla perdita di prestigio sociale e importanza culturale dell’oggetto senza il quale la critica non avrebbe ragione di esistere, cioè appunto la letteratura del nostro tempo (giova ricordarlo, in tempi in cui – dopo lo sdoganamento della saggistica, del quale principale merito va attribuito ad Alfonso Berardinelli – si tende sempre più spesso a parlare della critica letteraria come, semplicemente, un genere letterario alla stregua di tutti gli altri; no, prima di tutto la critica non è sempre letteratura e, se lo è, essa appartiene a un genere diverso dagli altri: con maggiori responsabilità e limiti d’intervento). Dice Coletti, riprendendo Giorgio Ficara e il suo Lettere non italiane. Considerazioni su una letteratura interrotta (Bompiani 2016), che «la letteratura attira poco gli interessi pubblici e non è più quel vettore di conoscenze e quel luogo di formazione del giudizio pubblico che è stata in passato», insomma «non interpreta più il proprio tempo». E dunque «è difficile che ci sia una buona critica se non c’è una buona letteratura». Segue una giaculatoria divenuta a sua volta, in questi anni, un genere letterario (e, se è letteratura, appunto non mi pare letteratura così buona): non c’è più Montale, non c’è più Pasolini e non c’è più Sanguineti, di conseguenza non ci sono più Auerbach, Contini né Debenedetti. E neppure io, aggiungerebbe Woody Allen, mi sento tanto bene.
Su diversi corollari della tesi di Coletti, peraltro, non posso che dirmi d’accordo. L’emarginazione della critica dai cataloghi editoriali la relega ormai, per lo più, a un ruolo meramente filologico (quando va bene), più spesso storicistico grossier, bignamistico, museale-conservatoristico: dovendosi limitare a tenere in ordine i corridoi del Canone Occidentale in vista delle visite di scolaresche sempre più distratte. Oppure, aggiungo, le fa subire una mutazione horror nella sua versione “selvaggia”: nella forma cioè del bercio autoriferito e pettegolo-risentito che appesta l’universo social («la critica letteraria deve essere sempre un po’ militante; e meglio troppo che niente», dice Coletti; ma oggi la parte quantitativamente prevalente del commento alle novità letterarie è un’attività solo militante, senza nulla conservare della responsabilità, cioè della ricerca dell’oggettività – di per sé impossibile, certo, come la felicità scritta sulle Costituzioni – che è il proprium della critica).
Francamente non sono in grado di giudicare se la letteratura che si fa oggi sia o meno all’altezza – o solo paragonabile – a quella di mezzo secolo fa. A rispolverare certi dibattiti di quel tempo, si constaterebbe come fosse in voga già allora, la giaculatoria del non c’è più questo e non c’è più quello, signora mia. Sempre che qualcuno a venire si picchi ancora di farne, bilanci simili si potranno fare solo da una distanza storica (a naso, per esempio, direi che la letteratura che si fa oggi da noi non abbia nulla da invidiare, per esempio, a quella degli anni Ottanta; e se lo sguardo – come Coletti non manca di esortare a fare – si spinge oltre Chiasso, si constata che alla vitalità di certe letterature non pare fare riscontro una consimile vitalità dei corrispondenti panorami critici; dunque la crisi, appunto, è strutturale).
Mi piacerebbe allora, piuttosto, che nel dibattito si entrasse un po’ più nel complesso di cause sistemiche – un tempo si sarebbe detto «strutturali» – di questo stato di cose. Tanto per cominciare, la società (la società stretta della quale Leopardi lamentava la decadenza già nel 1824…) come sede di espressione del giudizio pubblico, della quale la critica letteraria è stata parte integrante nel periodo storico rievocato da Coletti, non esiste più da tempo. Il crollo dell’intermediazione, col conseguente odio per le élites culturali così tipico del nostro tempo, è un fenomeno del quale le nuove tecnologie digitali, e le loro pratiche sociali, sono state insieme effetto e concausa. Gli intellettuali, avvertiva Zygmunt Bauman già nel 1987, non possono più ambire al ruolo di legislatori ma solo, se gli va bene, a quello di interpreti. Appunto ridotti al ruolo solo-specialistico nel quale attendiamo, ridotti a mero servomeccanismo di un moloch burocratico, ai nostri compiti istituzionali all’Università.
Semplici bidelli del Walhalla, insomma. Ma l’aspetto più interessante, ribadisco, è quello strutturale. Nel dibattito che seguì dieci anni fa al pamphlet di Lavagetto, notava per esempio Gabriele Pedullà su Alias (il 10 giugno 2006, prendendo spunto da un’edizione impeccabile che Domenico Scarpa aveva fornito, per Einaudi, dell’esordio narrativo di Franco Lucentini, I compagni sconosciuti) come, esiliati dalle pagine dei grandi giornali e dai cataloghi editoriali in quanto autori, i migliori critici della sua generazione si fossero dovuti ritagliare un’enclave di sopravvivenza quali curatori di testi altrui. Una forma di vampirismo benevolo del quale pioniere si può considerare, in Italia, proprio quel Cesare Garboli che Coletti indica quale esempio di «ultimo grande critico» che si «è quasi creato lui il testo e l’autore che gli serviva». Si sa come Garboli definisse servile, con vezzoso narcisismo a rovescio, tale sua attitudine a lavorare embedded nell’industria editoriale (che ha documentato di recente proprio Scarpa, insieme a Laura Desideri, curandone il volume La gioia della partita, Adelphi 2016). Ma Garboli è stato la figura più eminente di quello che oggi ci appare un tempo di passaggio (i testi servili e i paratesti editoriali ivi raccolti risalgono al periodo 1951-1977): critico-autore se ce n’è stato uno – nel suo narcisismo riflesso più che “rientrato”, di sponda diciamo: proprio sull’«Indice», nel numero di novembre del 2002, avevo provato a descriverlo – a volte davvero non si peritava di “inventare”, con vampirismo non più tanto benevolo, testi ridotti a meri pretesti della propria affabulazione di secondo grado (con conseguenze, a livello filologico, in più d’un caso perniciose). I critici delle generazioni successive, a differenza di lui, non si sono vista riconosciuta tale autorialità; e questo, sul piano filologico, lo considero un bene (faceva notare Pedullà come alle sessanta pagine del testo di Lucentini, in quell’edizione, se ne accompagnassero cinquanta del curatore, così arrivando a sfiorare un grado di almeno quantitativa parità; passato un decennio, tale rapporto è stato abbondantemente superato dall’ultima grande prova in tal senso dello stesso Scarpa: l’edizione del carteggio fra Gadda e Parise pubblicata nel 2015 da Adelphi col titolo «Se mi vede Cecchi, sono fritto»: che, ciò malgrado, resta un lavoro impeccabile sul piano filologico nonché, a mio parere, uno dei migliori libri di critica letteraria pubblicati in Italia negli ultimi anni).
Ma il ruolo dei critici-curatori si è modificato anche di conserva coll’involuzione catastrofica, nello stesso periodo, dell’editoria. Il periodo compreso fra la crisi e l’eutanasia della critica è lo stesso inaugurato dal libro-intervista appunto sull’editoria dell’allora manager di Fininvest, Franco Tatò, A scopo di lucro: vero e proprio manifesto ideologico datato 1995. Un’editoria senza editori (per citare il titolo – Bollati Boringhieri 2000 – del primo pamphlet d’una serie, quella del compianto André Schiffrin, di cui molto si è discusso ma, esemplarmente, senza la minima conseguenza; a conferma che emarginata nell’ineffettualità è nel suo complesso l’opinione pubblica: non solo, ovviamente, nel campo che stiamo trattando) non ha alcun interesse, si capisce, a incoraggiare Quelli a cui non piace (come suona il titolo di un pamphlet sui critici di Francesco Muzzioli, Meltemi 2008): quelli ai quali cioè – nella perenta civiltà della pubblica opinione – era demandato il vaglio delle loro scelte. Schiffrin era giunto a parlare, per certe pratiche dell’industria editoriale nel tempo delle concentrazioni (“verticali” quanto “orizzontali”), di censura del mercato: i critici sono stati fra le sue prime vittime.
Non so quanto sia stato notato, peraltro, come la trasformazione del ruolo critico (con ulteriore giro di vite, rispetto al fenomeno descritto da Bauman) da interprete a curatore sia stato anticipato, rispetto al campo letterario, da quello dell’arte. L’illustre tradizione dei critici-scrittori, che da noi ha un faro-feticcio nel nome di Roberto Longhi (il quale storicamente ri-codificò la tradizione dell’ekphrasis come «equivalenza verbale» delle immagini dell’arte, e le cui pratiche furono decisive per l’innesco delle categorie metodologicamente più fruttuose di Gianfranco Contini; rinvio al mio Libri segreti, Le Lettere 2008), si è estinta ormai da tempo: a cavallo fra gli anni Settanta e gli Ottanta. Già nel ’75 Achille Bonito Oliva, che in quegli anni si può considerare l’ultimo interprete di quella tradizione, con titoli come Il territorio magico e Passo dello strabismo (insieme all’Alberto Boatto, che ci ha lasciato da pochi giorni, di Ghenos Eros Thanatos: mirifico titolo del ’74 di recente restaurato da Stefano Chiodi: fuoriformato L’orma 2016), ma anche il primo indiscusso protagonista del nuovo ruolo del critico, introduceva il concetto di «sistema dell’arte». Un complesso di contrappesi finanziari e istituzionali, tuttora in gran parte vigente (seppure nelle forme nuove imposte dalla turbo-finanziarizzazione neoliberista), all’interno del quale il critico è appunto un ingranaggio, che serve a garantire le scelte di mercanti galleristi e collezionisti non più con forme di scrittura più o meno euristiche e saggisticamente brillanti bensì con quella che è stata definita scrittura espositiva, ossia la capacità di allestire mostre e altri spazi espositivi ad alto tasso spettacolare e insieme, quando va bene, di grande rinnovamento interpretativo (mostre come quelle curate in quegli anni da Bonito Oliva, o da Harald Szeemann e Germano Celant, sono state incomparabilmente più importanti dei saggi scritti, da loro stessi o da altri, nello stesso periodo).
Naturalmente l’equivalenza dei processi osservabili, nei due campi, non è perfetta. Se non altro perché le arti visive, a dispetto di quanto ottant’anni fa profetizzava Walter Benjamin, nel tempo della loro riproducibilità tecnica non hanno affatto perso la loro aura; ed è infatti questo l’unico campo artistico in cui non abbia prevalso, sino alla censura del differente, la logica quantitativa che tanto assidera l’editoria senza editori (i problemi, qui, sono altri – magari simmetrici e contrari a quelli che dobbiamo affrontare noi). Ma la speranza è che proprio dal campo dell’arte sorella provenga una suggestione, se non un paradigma, che ci consenta di non dismettere del tutto l’ethos della critica e, con esso, la promesse d’un bonheur a venire. È stato Aby Warburg, infatti, a coniare il termine Nachleben, «sopravvivenza», a proposito di figure e formule (pathosformeln) dell’antico che, dopo eclissi più o meno durature, hanno trovato nuove forme in epoche anche di molto posteriori come il Rinascimento. Nel volume intitolato da noi L’immagine insepolta (in originale L’Image survivante, Bollati Boringhieri 2006) Georges Didi Huberman, incrociando proprio Benjamin con Warburg, ha tratto da questa teoria un efficace paradigma trans-storico, «anacronistico» e dinamico, che gli permette oggi di organizzare una grande esposizione interdisciplinare sul tema delle «emozioni collettive» (Soulèvements, a Parigi, al Jeu de Paume sino al 15 gennaio scorso), di straordinario valore non solo artistico ma anche civile e politico.
Oggi la grande critica letteraria, come l’abbiamo conosciuta nel Novecento, è morta. Ma, se continuiamo a parlarne, vuol dire che non è ancora sepolta. E che forse, seppure in forme completamente diverse da quelle di allora – non sulla carta, per esempio, e non più nella forma geniale-individualista della tradizione; bensì seguendo protocolli individuali-plurali tutti da mettere a punto –, essa potrà tornare a vivere, in un qualche futuro. Che questo davvero possa avvenire, lo ignoro. Che ce ne sia un gran bisogno, però, non è una pia speranza: è una constatazione che può fare chiunque viva nel tempo presente.
Versioni parziali di questo intervento sono uscite su «La Stampa» il 20 gennaio e, col titolo La disciplina insepolta, sull’«Indice dei libri del mese» di febbraio.
[Immagine: The Beinecke Library, Yale University]
“ Lunedì 15 febbraio 2010 – « Credavamo »… « diribbe »… « narrativativa »… Leggo Debenedetti su Tozzi – Con gli occhi chiusi, in «Aut aut», 78, novembre 1963 – e penso che: o Debenedetti non si sentiva bene o il proto ha lavorato con gli occhi chiusi. Delle due l’una. Aut aut. (Come leggo io? Come vuoi che legga? Come capita. Come riesco a fare: con un occhio chiuso e un altro aperto. Come i gatti) “.