di David Watkins

[LPLC va in vacanza fino a settembre. Anche quest’anno, per non lasciare soli i nostri lettori, riproporremo alcuni dei pezzi apparsi nei mesi precedenti. Questo intervento è uscito il 2 marzo 2017].

È sufficiente scorgerne i titoli per constatare che il genere letterario della biografia, nell’Antichità, ruota attorno alla figura dell’uomo illustre: Cesare o condottiero, modello di virtù, antonomasia di un vizio, o eccellenza di una data professione, le biografie greco-romane – da Ermippo di Smirne, a Cornelio Nepote, a Svetonio – sviluppano il motivo del De viris illustribus, titolo che, nella biografia premoderna, ricorre con generalità e frequenza  analoghe al Perí Physeos dei filosofi presocratici. Filosofi o pittori, da Diogene Laerzio al Vasari, martiri o santi, nella cristianità, le vite che i biografi hanno tramandato, per lunghi secoli, pur differenziandosi notevolmente e inevitabilmente tra loro, tendono a rispondere ad un’esigenza condivisa: quella di costituire, nel loro insieme, un patrimonio comune ed eminente dell’umanità, una serie di tratti umani che, essendosi distinti nel corso della loro storia, si sono guadagnati un posto nella storia tout court.

Già Plutarco, tuttavia, in Vite parallele (e più precisamente nell’incipit della Vita di Alessandro), esplicita una differenza fondamentale che distingue l’arte del biografo dal lavoro dello storico: «noi non scriviamo storie, ma vite, né nelle imprese più famose è insita in assoluto una chiara manifestazione di virtù o di vizio, ma spesso un breve fatto o una frase o un semplice scherzo offrono una dimostrazione del carattere molto più che battaglie con migliaia di morti e grandissimi spiegamenti di forze e assedi di città». È dunque caratteristico del biografo lasciare «ad altri le grandezze e le contese», per concentrarsi sulle minuzie e sui particolari, sul dettaglio che rivela il tratto specifico di una vita.

Sarà Marcel Schwob, nella prefazione a Vite immaginarie (1896), a portare l’affermazione di Plutarco alle sue estreme conseguenze, dando origine, a pochi anni dal ventesimo secolo, ad un modo nuovo di intendere la biografia.

È significativo che Schwob, in queste pagine, riconosca «il buon genio di Plutarco», pur accusandolo di non aver compreso «l’essenza della sua arte». Infatti Plutarco, il quale visse a cavallo tra due culture, «immaginò dei paralleli», somiglianze e corrispettivi tra gli esponenti dell’una e dell’altra cultura, sacrificando così l’ “assolutamente individuale” cui deve tendere – secondo Schwob – ogni biografia e ogni arte: «l’arte si pone dalla parte opposta delle idee generali, non descrive che l’individuale, non desidera che l’unico. Non classifica; sclassifica».

Oltre a tale estetica dell’unicum e dell’individuale, ciò che veramente conta ai fini del nostro discorso è il fatto che Schwob, accentuando la distinzione già plutarchea tra storia e biografia, prenda consapevolmente congedo dalla figura dell’illustre e dell’eminente, del magnus vir che aveva caratterizzato la biografia precedente. «Disgraziatamente – scrive Schwob – i biografi hanno in genere creduto di essere degli storici. […] Hanno supposto che solo la vita dei grandi uomini potesse interessarci. L’arte è lontana da queste considerazioni. […] L’arte del biografo sarebbe di dare tanto pregio alla vita di un povero attore quanto alla vita di Shakespeare».

Possiamo considerare questa affermazione l’assioma della biografia contemporanea. Nel corso del novecento, infatti, il tipo umano che popolerà le nostre biografie non sarà più l’illustre o l’eminente, ma l’idiota o l’infame; e se per Schwob non vi è alcuna differenza tra gli uomini che possono interessare il biografo – «siano essi stati divini, mediocri, o criminali» –, il novecento dimostrerà di preferire decisamente questi ultimi ai “divini”. Non a caso Pasolini, nel 1973, accennando in un breve articolo a Vite immaginarie di Schwob, consiglierà di saltare i primi racconti, incentrati su uomini “semidivini” come Empedocle o poeti eccelsi come Lucrezio, per «andare diretti ai racconti più belli, gli ultimi», che hanno per protagonisti una puttana e un assassino.

Ispirandosi a Schwob, Borges scrive, nel 1935, Storia universale dell’infamia. Titolo quanto mai paradossale, se si pensa che l’ in-famia, nell’etimo, assume sì connotati moralistici (disonore), ma denota anche, parallelamente, l’assenza di voce(“in”, prefisso privativo e “fama”, da phēmē: voce). A rigore, una storia dell’infamia non può essere data, appunto perché l’infamia è ciò che, letteralmente, si sottrae alla visibilità e all’udibilità della storia. Ed infatti il libro non obbedisce alla consegna del titolo: si tratta dei primi «esercizi di prosa narrativa» di un Borges poco più che trentenne, e sarà egli stesso ad affermare, una ventina di anni più tardi, che «la parola infamia dirompe nel titolo, ma sotto il clamore non c’è nulla». (Con ciò non intendo svalutare l’opera, che contiene, disseminate e preziose, le tracce del Borges più maturo).

Dunque nel ventesimo secolo, il genere letterario della biografia abbandona gli illustri – il centro della storia –, per accogliere gli infami, delocalizzandosi verso il periferico e il marginale. Più che una rivoluzione o una svolta di un genere letterario, ciò sembra esserne il consequenziale compimento di un destino, lo sviluppo rigoroso delle sue premesse. Infatti, se, come abbiamo visto, Plutarco rivendicava la centralità del gesto apparentemente insignificante, che si dà ai margini del grande evento storico, lo stesso discorso può essere applicato agli attori di quel gesto: così, le biografie del novecento tendono a relegare dietro le quinte i protagonisti e a porre le brevi comparse al centro della scena.

Ombre e rifiuti, scarti visibili soltanto negli interstizi, esistenze la cui memoria è appesa a un rigo, a una manciata di parole. Intorno a tali esistenze Foucault scrive La vita degli uomini infami (1977), in cui il filosofo francese raccoglie alcuni documenti (archivi degli internamenti, archivi della polizia, suppliche al re o lettres de cachet), che risalgono al Sei-Settecento. Protagonisti di queste biografie d’archivio selezionate da Foucault sono mariti violenti, preti scandalosi, pederasti, eccentrici, alcolizzati, colti nel momento – «il più intenso delle vite» – in cui  si sono scontrati con il potere. Si tratta, anche in questo caso, di «vite infime, divenute cenere nelle poche frasi che le hanno stroncate»: laddove tali frasi, paradossalmente, sono le sole che, nell’atto stesso in cui le hanno mutilate, ne hanno salvato la memoria, trasferendole dalla notte del tempo a quella, ancora leggibile, degli archivi.

È sintomatico che Foucault – la cui opera appare ogni giorno di più tra le meno prescindibili del secolo scorso – cominci questo breve scritto prendendo, anch’egli, le distanze dalla storiografia («questo non è un libro di storia»), e lo concluda affermando che «la letteratura rimane il discorso dell’ “infamia”», poiché «ad essa spetta di dire ciò che è più indicibile – peggiore, più segreto, più intollerabile, spudorato». La letteratura, secondo Foucault, è divenuta moderna a partire dal  momento in cui «una sorta d’ingiunzione a scovare la parte più notturna e più quotidiana dell’esistenza» ha cominciato a caratterizzare l’etica immanente al discorso letterario,  sostituendo quella del “favoloso” e dell’“esemplare”, tipica della letteratura premoderna: soltanto quando l’infimo – quel che non merita alcuna gloria – è subentrato al favoloso – quel che merita di essere detto –, la letteratura ha acquisito il senso in cui noi oggi la intendiamo.

Esiste, dunque, una pura violenza della letteratura, che consiste nel violare i confini posti tra ciò che può e ciò che non può essere detto, nel riportare in superficie «quel che non può o non deve apparire». In questo senso, l’infamia è necessariamente un elemento costitutivo della letteratura, e la sua centralità crescente nel genere della biografia è una declinazione particolare della più generale vocazione, intrinseca all’atto della scrittura, a rendere dicibile ciò che altrimenti sfuggirebbe al dire.

Su questa linea, che intende attraversare l’indicibile dei luoghi più comuni del quotidiano, è collocabile Vite minuscole(1984), straordinario libro d’esordio di Pierre Michon, i cui protagonisti sono «persone modeste, di quelle che usano la parola “intelligenza” per rendere conto di ciò che pensano non possedere affatto». È vero che Michon, da biografo, diviene, racconto dopo racconto, sempre più oggetto e soggetto delle proprie biografie; è vero, cioè, che nel libro di Michon, la componente autobiografica è incisiva, ma è anche vero che quest’opera, ponendosi dalla parte opposta di Schwob, mira a dissolvere tutto ciò che nell’umano ha pretese individualistiche, perché è altrettanto vero, infine, che per Michon “maturare” significa fare i conti con il tempo, questa forza che livella ed erode le differenze tra individui, «che tutti contagia con il suo egualitario ridicolo», che neutralizza, sfocandola nella memoria, la distinzione stessa tra biografia e autobiografia. Così, la ricchezza della sua prosa traboccante e vertiginosa ritorna, senza pretese rappresentative, alla povertà della gente di cui è fatta la sua vita. Vite minuscole, in fondo, denuncia l’inesattezza del proprio titolo, implicitamente afferma che, “minuscole” o “maiuscole”, ogni aggettivazione è discutibile e arbitraria per qualificare una vita.

Se nell’antichità la biografia confinava – con tutti i contrasti, le differenze confuse ma insistenti che implica un confine – con la storia, ora è nell’àmbito della letteratura che la biografia ridefinisce la propria ambigua identità. Da Schwob in poi, la biografia si emancipa sempre più dal dato positivo della realtà. Il biografo, ormai, «non deve preoccupparsi di essere vero; deve creare entro un caos di tratti umani». Affrancatasi dalla rappresentazione della realtà e affermandosi come attività puramente creatrice, la biografia può sondare i terreni dell’infamia, altrimenti inaccessibili all’occhio storico. Il romanzo e sopratutto il racconto sono le nuove forme tipicamente biografiche. Gli elementi della finzione narrativa e della visionarietà divengono strumenti consueti per il biografo.

«Pensa con ansia pacata alle vite che non si vivono» – così dice Pontiggia a proposito di un personaggio in Vite di uomini non illustri (1993), opera che già dal titolo testimonia un capovolgimento ormai compiuto –, e sembra che sia il genere stesso della biografia a parlare per lui, a riconoscersi in questo pensiero rivolto a vite incarnate da nessun soggetto, disincarnate: vite ipotetiche, reali soltanto nella misura in cui sono reali le sensazioni a cui queste vite fanno come da sfondo, quasi ogni vita fosse un panorama familiare a tutti e non ascrivibile a qualcuno. Lo stesso accade in Vite brevi di idioti (1994) di Cavazzoni, ed in particolare nell’ultimo racconto del libro, il cui protagonista è una persona smarrita, un anziano senza documenti, «individuo non identificato», immemore di sé. Se gli si chiede quanti anni ha, egli risponde «lo sapeva mia moglie; io non ci tengo». Se gli si domanda cosa ha fatto nella vita, egli si commuove e dice «ho fatto poco. Lo giuro», e non ci dà altre «notizie né riguardanti l’identità né la vita passata».

Mi piace concludere qui, in questa amnesia generale, in questa quasi-afasia, che risponde e non risponde all’antico sogno di scrivere una vita e che tuttavia caratterizza profondamente la biografia contemporanea. Per noi fa un certo effetto rileggere l’apparente pacatezza con cui un Plutarco affermava «noi scriviamo vite», preoccupandosi unicamente di difendersi dal lettore abituato alla storia. Oggi, stando alle nostre biografie, la vita è anzitutto immaginata – e l’invisibilità di un infame, la sola gloria a cui sia auspicabile puntare.

 

[Mario Daniele, Nei Musei. 1. MAXXI, Roma ]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *