di Francesco Pecoraro
[LPLC va in vacanza fino a settembre. Anche quest’anno, per non lasciare soli i nostri lettori, riproporremo alcuni dei pezzi apparsi nei mesi precedenti. Questo intervento è uscito il 13 marzo 2017].
La scuola cattolica, il romanzo di Albinati che ha vinto il premio Strega 2016, mi ha fatto ripensare al liceo che per volontà illusione e irresponsabilità dei miei genitori, frequentai dal ’59 al ’64 del Novecento, in una costosa scuola-collegio di preti, tutta maschile, annidata – e quasi invisibile – nel nucleo storico di Roma. Un segreto luogo di tormento nascosto tra la via del Babuino e il Pincio, nel cuore del Tridente, che allora era ancora il centro artistico e culturale della città.
La memoria di quegli anni mi perseguita. Erano preti vestiti di nero, avevano al collo una specie di corto bavaglino bifido, non erano abilitati a dire messa, e stancamente insegnavano nozioni (conformiste cattolicanti arretrate) ai figli dei ricchi o comunque degli agiati. A quel tempo i romani benestanti e quelli che volevano sembrare tali (era il caso dei miei), mandavano i figli in queste scuole religiose, che, tranne forse l’eccezione del qualificato e gesuitico collegio Massimo, erano di fatto molto peggiori delle scuole pubbliche.
L’abbaglio era che lì si formasse la classe dirigente cittadina e si costruissero rapporti inter pares tra privilegiati, che poi sarebbero tornati utili nella vita. L’idea era che a partire da quelle scuole si entrasse in contatto con gli ambienti borghesi giusti, dove magari trovare una moglie di buona famiglia. Era un’idea sbagliata: la classe dirigente vera si formava altrove, nei licei di scuola pubblica come il Tasso, il Mamiani, il Virgilio, il Visconti, il Righi, l’Avogadro, eccetera, e non certamente in scuole come la mia. In realtà gli istituti cattolici privati erano all’epoca frequentati dalla schiuma dei parvenu del recente boom economico, i nulla-facenti figli di imprenditori e negozianti, di professionisti in fase ascendente e di qualche politico democristiano, cioè in pratica dalla progenie del generone, con l’aggiunta di rampolli di nobili poco avveduti e di quattrinari emergenti.
Quattrinari erano quelli che apparivano, improvvisamente e dal nulla, nella ristretta società cittadina dei primi anni Sessanta, con in tasca un sacco di soldi. In genere si trattava di piccoli industriali degli anni della crescita, di commercianti all’ingrosso di rapida fortuna, di concessionari di automobili arricchiti con la motorizzazione in atto del Paese e soprattutto di costruttori, i proverbiali palazzinari, categoria alla quale appartenne mio padre, finché stranamente, ma solo qualche tempo dopo, non dirazzò e prese una strada che l’avrebbe portato in giro per il mondo a restaurare per conto dell’Unesco fortezze di fango in Oman e minareti di mattoni crudi in Afghanistan.
Del resto il quattrinaro era il protagonista privilegiato della commedia all’italiana, che può sinteticamente definirsi come la messa in scena cinematografica dell’epopea del parvenu del Boom e del post-Boom di quegli anni, in cui tutto stava cambiando. E si può dire che fu per reazione a questi cambiamenti che mio fratello ed io fummo spediti, e successivamente incapsulati per cinque anni, in quella scuola di preti.
Oltre all’insegnamento scadente, le scuole di preti avevano almeno tre particolarità. Primo, non erano miste, quindi (tragicamente) niente ragazze. Secondo, erano frequentate anche da convittori, cioè da giovani molto depressi che vivevano reclusi in collegio e del mondo sapevano ancora meno di noi, il loro stato mentale di detenuti ci contagiava e ci incanagliva: in quegli anni di tumultuosi conflitti sociali, noi non sapevamo nulla, non credevamo a nulla. Terzo, fungevano da rifugio per i bocciati dalla scuola pubblica, e in genere per quelli che avevano poca voglia di studiare, che vi trovavano un’indulgenza compiacente travestita da falsa severità, e soprattutto la garanzia di passare all’esame di maturità, le cui commissioni esterne venivano, non so in che modo, pre-determinate e ammorbidite.
Le scuole di monache per ragazze immagino avessero funzione equivalente, con in più l’obbligo della divisa, che in genere consisteva in mocassini, calzettoni bianchi, gonna blu a pieghe, golfino blu e camicetta bianca. Niente poteva essere escogitato di più sexy di quel costume da educande, che le alunne (non comprendendone la carica erotica) subito si toglievano al pomeriggio, contraddicendolo con calze stivali minigonne eccetera e accrescendone così il fascino agli occhi di chi, avendole magari conosciute a una festa, le aspettava all’uscita di scuola.
Molti di noi, studenti delle devastanti scuole di preti, frequentavano ragazze che andavano dalle monache. In genere non le trovavamo affatto pie, anzi. Loro apparivano molto meno devastate dalle monache di quanto non lo fossimo noi dai preti. Erano gaie e leggere, divertenti, moderne, spregiudicate, non corrispondevano affatto ai loro omologhi maschili, che erano cupi, incerti, annoiati, incuranti di tutto, instancabili masturbatori, precocemente cinici ma ben convinti che la cosa più importante da fare era tenersi ben stretti i privilegi di nascita. Aggiungo che i pochi tra questi elegantoni che non erano del tutto disinteressati alla politica, risultavano autentici fascisti, oppure democristiani naturali e silenti, a quel tempo endemici.
Per quanto si possa oggi avere una visione mitica della Roma dei primi anni Sessanta, come della capitale cosmopolita della Dolce Vita, bastava conoscerla un po’ per capire che in realtà si trattava di un disincantato coacervo sociale, dominato da un ceto medio immutato nel tempo, torvo e provinciale, che presidiava le aree urbane post-unitarie e quelle pianificate dal PRG del 1931, come Prati e Delle Vittorie, il Quartiere Italia, il quartiere Trieste, i Parioli, e frequentava, come fa ancora oggi, i circoli sportivi sul Tevere. Tutto il resto, vale a dire la città della politica, del cinema, della cultura, dell’arte, erano innesti provenienti dall’esterno, che non spostavano (e mai hanno spostato) sostanzialmente niente nella mente dello zoccolo duro della borghesia cittadina. Ancora oggi è così.
La scuola di preti aumentava il tormento dei programmi ministeriali, costruiti non tanto per insegnare la vastità e la complessità del mondo, quanto per formare future classi dirigenti, inculcando nelle loro menti una sorta di neutrale umanesimo emozionale con funzioni di filtro ideologico primario dei dati della realtà, facendo loro credere che le «scienze umane» vengano comunque prima delle «scienze» tout court, come ancora oggi dimostrano le dimensioni relative degli scaffali delle grandi librerie della Penisola.
Il peggioramento pretesco consisteva nell’implementazione di tutto questo con assillanti somministrazioni di cattolicesimo elementare, catechistico, che produceva effetti devastanti anche in quelli tra noi dalla mente più aperta. Non diventavamo atei, ma dopo un paio d’anni molti di noi si erano trasformati in furiosi bestemmiatori. Succedeva per pura disperazione e odio e ribellione contro quelle quotidiane iniezioni religiose direttamente in vena. E allora dalla mattina alla sera era un continuo sibilare porcoddio & porcamadosca, pure in cappella, soprattutto in cappella durante le funzioni religiose, subito dopo la comunione, per gioco sghignazzo sfregio satanista.
Cinque anni di pessimo liceo scientifico (che già di per sé è un ornitorinco culturale, non riuscendo a essere né pienamente scientifico, né pienamente classico, né pienamente inutile), svaccati per cinque ore al giorno su banchi singoli, in giacca e cravatta obbligatorie, cercando di sopravvivere a tutto questo, sopportando una lezione pretesca dietro l’altra, percependo la sofferenza di quelle tristi impreparate creature sedute in cattedra, con tonaca nera e bavaglio bifido, disilluse e frustrate, che chiamavamo professori e più spesso frère, abbreviato in frè.
Cinque anni a studiare su manuali come Il problema della scienza nella storia del pensiero, un Lamanna per licei scientifici (era solo una confusa riduzione di quello per il liceo classico), o come una verbosa storia della letteratura italiana, di cui non ricordo l’autore, tutta tesa a individuare nel testo il punto di raggiungimento dell’arte, cioè di uno stato superiore di indefinibile avvicinamento alla pura espressività, eccetera: mattinate ad ascoltare queste lezioni burocratiche, preoccupate solo di finire il programma. Oltre alle bestemmie ci si distraeva con gare di caccole, versacci, oscenità varie, fino all’ora in cui finalmente noi esterni potevamo uscire, mentre i convittori, poveracci, andavano a mensa e poi in sala studio e poi non so, forse potevano persino farsi una passeggiata all’esterno.
L’insegnante di lettere era un viscido sfuggente pericoloso serpente in tonaca (mai si capiva cosa pensasse, quali fossero le sue intenzioni, mai con lui un momento di autentica comunicazione tra umani), il lungo riporto appiccicato sul cranio unto, lenti molto spesse che filtravano uno sguardo assente da calamaro spiaggiato, le labbra tumide e rosse, sempre bagnate di saliva: non mostrava per noi nessun interesse, né come uomo, né come insegnante. Uccideva qualsiasi argomento trattasse, perché si vedeva che non poteva fregargliene di meno, che desiderava con tutta l’anima di essere altrove, fuori di lì, da quell’inferno pretesco coi corridoi voltati a crociera, grandi vetrate di legno e vetri opacizzati ad altezza d’uomo.
Dopo qualche anno venni a sapere che aveva lasciato l’ordine e dopo poco inaspettatamente lo incontrai su un autobus. Indossava una giacca di tweed, spigata. Per il resto era lui, lo stesso riporto sul cranio unto, gli stessi occhiali di metallo con lenti molto spesse, lo stesso sguardo smorto. Fui preso da uno strano moto d’affetto e senza rifletterci esclamai Frè Pancrazio! Lui si girò, mi guardò appanicato, probabilmente mi riconobbe, non disse nulla e si voltò dall’altra parte.
[Immagine: Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto (particolare)].