a cura di Angela Condello

[LPLC va in vacanza fino a settembre. Anche quest’anno, per non lasciare soli i nostri lettori, riproporremo alcuni dei pezzi apparsi nei mesi precedenti. Questo intervento è uscito il 19 giugno 2017.
Maurizio Ferraris è uno dei più importanti filosofi italiani. Negli ultimi anni i suoi saggi hanno suscitato una discussione molto ampia, in particolare la sua opera maggiore, Documentalità (2009), e il Manifesto del nuovo realismo (2012). Ferraris sta lavorando sul rapporto fra documentalità e nuovi media. In autunno, presso il Collège d’Études Mondiales della Maison des Sciences de l’Homme a Parigi, inaugurerà una cattedra dedicata alla “documedialità”. Negli anni scorsi il CEM ha organizzato due convegni su questo ambito di problemi, Total Mobilization (2015) e Dans la toile du web (2016)].

1) Tu sostieni che la documentalità sia il carattere costitutivo della società. Che funzione hanno i documenti e qual è la radice filosofica delle tue nozioni di “documento” e “traccia”?

Traccia è ovviamente qualcosa che, per me, viene da Derrida, e forse prima ancora dall’ossessione di Proust per il tempo e la memoria. Un’idea che mi porto dietro da tempi immemorabili (si fa per dire, ovviamente), basti considerare che il mio secondo libro, nel remoto 1983, si intitolava Tracce.

A sua volta, in Derrida la traccia era la rielaborazione di motivi husserliani (la ritenzione del passato e la protensione verso il futuro come elementi essenziali della nostra esperienza del tempo e della coscienza) che non per caso si materializzano perfettamente nella nozione di “traccia”, che è insieme ciò che resta del passato (le tracce di una civiltà scomparsa, le tracce lasciate da un animale) e qualcosa che si protende verso il futuro, come nell’espressione “traccia di un discorso”: gli appunti per quello che diremo l’indomani, seguendo una temporalità complessa e che fa riflettere.

Ricordo di aver visto molti anni fa un documentario sui kamikaze. Prima di partire per l’ultimo volo, lasciavano in una cassettina i loro capelli e le loro unghie, i loro resti anticipati: erano ancora vivi, ma, al tempo stesso, si erano, per dir così, portati avanti con le tracce. I documenti sono la versione sociale e civilizzata della traccia, dicono chi siamo e in molti casi (dalla cassettina del kamikaze al biglietto del treno per il giorno dopo) anticipano quello che faremo.

2) Perché, prima e oltre ogni intuizione superficiale, il web ha amplificato e modificato la natura documentale della società contemporanea?

Perché il quantitativo si è trasformato nel qualitativo. In fondo, il web poggia su strutture tecniche, come la scrittura, che esistono da migliaia di anni. La trasformazione è consistita nel fatto che grazie al web è diventato facilissimo riprodurre e diffondere globalmente scritture e più generalmente registrazioni (immagini, video, suoni…), con un processo che anche solo vent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile. Come sempre avviene con la tecnica, questo processo ha costituito non una alienazione, una trasformazione e una espropriazione della natura umana, bensì una rivelazione: ci ha mostrato chi siamo e cos’è il nostro mondo, e ha reso visibili delle strutture che probabilmente erano presenti già nel paleolitico, e che si ricollegano al nostro passato animale, solo che, per l’appunto, erano nascoste. Insomma, come ha detto Ernst Jünger, la tecnica, come una processione, porta alla ribalta delle cose antichissime.

In primo luogo, rivela la struttura della realtà sociale. Perché ci sia una società è necessario che ci siano delle registrazioni, e questo spiega perché il mondo sociale ha bisogno di quelle forme di registrazione primaria che sono i riti, i miti, le strutture elementari della parentela. Un altro modo per dire che il mondo sociale ha bisogno di tracce, e in effetti un atto istitutivo della realtà sociale è marcare il territorio, remotissimo antenato del selfie e del like. Le registrazioni producono senso e intenzioni, che non precedono (come si pensa idealisticamente) ma seguono i riti, i miti, i codici. Non è che prima abbiamo delle intenzioni e poi cerchiamo parole per esprimerle e istituzioni per realizzarle: prima ci sono istituzioni e codici, e noi, che cresciamo al loro interno, formiamo la nostra coscienza e le nostre intenzioni, che dunque non sono fenomeni originari, ma derivati. Questo forse può apparire controintuitivo, ma chi potrebbe concepire l’intenzione di accendere un mutuo o sognare di andare in vacanza se non ci fosse una società che, prima di lui, ha prodotto questi oggetti sociali? Per inciso, qui capiamo quanto assurda e moralistica sia la critica del consumismo, oggi quasi scomparsa (sopravvive solo in utopie balorde come quella della decrescita felice), ma che ha tormentato la mia generazione: quasi che si potesse diventare umani solo a condizione di allontanarsi dagli oggetti, mentre sono proprio gli oggetti che ci rendono umani, e soprattutto che ci rendono spirituali.

In secondo luogo ha rivelato un aspetto fondamentale della natura umana, il bisogno di riconoscimento. Non che si tratti di una grande scoperta: da Plutarco a Hegel si sa quanto il bisogno di riconoscimento sia parte costitutiva di quello che siamo. Ma negli ultimi secoli gli umani si sono dati delle definizioni in fondo troppo lusinghiere, concependosi come molto, anzi, troppo razionali. È il mito dell’homo oeconomicus, della razionalità strumentale, con cui, di nuovo, si sono riempite le biblioteche e i dibattiti colti. Solo che, appunto, il web ha sfatato questi miti manifestando il carattere fastosamente antieconomico della nostra vita, il cui obiettivo è puramente spirituale: il riconoscimento da parte del prossimo. Chi sarebbe disposto a lavorare gratis caricando contributi sul web, che generano ricchezza solo per le compagnie di gestione, e comprando i propri mezzi di produzione (cellulari, computer ecc.)? Almeno metà del mondo, cioè tutti coloro che stanno sui social network. E io che non ci sto non faccio eccezione, visto che sto scrivendo queste righe che usciranno sul web. Ma la vanità dei professori è cosa nota, mentre non ci si immaginava che questa vanità fosse la cosa meglio ripartita nel mondo. Da questo punto di vista, non c’è nulla di più erroneo (e, come spesso accade, pesantemente moralistico) della interpretazione dei selfie come narcisismo. Narciso si specchiava e si appagava di questo. Chi si fa un selfie, invece, lo fa per pubblicarlo, e il suo obiettivo non è affatto l’autoappagamento, bensì il riconoscimento da parte del massimo numero possibile di altri esseri umani.

In terzo luogo ha avviato la rivoluzione documediale, ossia l’unione tra la forza di costruzione immanente alla documentalità e la forza di diffusione e mobilitazione che si attua nel momento in cui, anche qui per la prima volta nella storia, ogni ricettore di informazioni può essere un produttore, o almeno un trasmettitore, di informazioni e di idee. È l’attuazione della carta delle Nazioni Unite: ognuno deve poter esprimere la propria opinione (ovviamente, quando questo principio è stato enunciato nessuno pensava che si sarebbe realizzato, il che spiega perché non sia stato integrato con la clausola “purché l’opinione sia ragionevole”). Al di là del dibattutissimo fenomeno della post-verità, che non è, come talora enfaticamente si sostiene, “la morte della verità”, ma semplicemente il concerto di milioni di persone ognuna convinta di aver ragione, questa connessione tra documenti e media ha trasformato la nostra vita, per esempio unificando stili di vita e comportamenti, con la stessa forza del capitalismo degli ultimi due secoli, ma agendo molto più rapidamente e in un ambito più esteso, visto che riguarda anche società che sono state toccate dal capitalismo solo in modo marginale, come l’Africa sub-sahariana.

3) C’è un filo rosso che unisce Documentalità (2009), l’uscita di Mobilitazione totale (2015), Emergenza (2016) e l’inaugurazione di questa tua Chaire Documediality a Parigi. Io ritengo che il legame consista nella individuazione di una struttura profonda che muove le azioni, che ci fa sentire obbligati verso noi stessi e verso gli altri, e il cui aspetto normativo viene indagato nell’ambito del progetto Documenta. Come definiresti questa struttura profonda?

In una parola, è la responsabilità. I documenti ci rendono responsabili, gli scritti sono qualcosa di cui si risponde e, se è provato che li abbiamo ricevuti (come in quella perversa ricevuta di ritorno che è la doppia spunta su WhatsApp), a questo punto siamo obbligati a rispondere, a meno che non siamo disposti a pagarne le conseguenze – l’ira di chi ci ha scritto, l’esclusione dal gruppo ecc.

Ci sono filosofi (in genere gli stessi che pensano che l’uomo nasca libero e perfetto, e venga corrotto dalla tecnica e dalla società) che ritengono che il fondamento della morale sia la libertà. Siamo esseri liberi e razionali, e ci diamo delle leggi valide per noi come per qualunque altro essere simile a noi, a cui sottostiamo liberamente – questo, almeno idealmente: poi intervengono appunto le pulsioni, gli interessi empirici, gli inganni cognitivi, e ovviamente le perversioni introdotte dalla tecnica e da una società corrotta.

Io credo invece, con altri filosofi, che le cose stiano esattamente all’opposto. Veniamo al mondo molto giovani in un mondo molto vecchio, diceva Eric Satie. Dunque, nasciamo pieni di bisogni e ci troviamo in un mondo estremamente strutturato. Su di noi incombono figure autoritarie (e se non incombono è ancora peggio): genitori, insegnanti. Poco alla volta, insieme al linguaggio e alle buone maniere a tavola, impariamo anche a rispondere a chi ci interpella, con quella struttura fondamentale di imputazione che è il nome proprio. È da questa struttura fondamentale, io credo, che derivano le nostre intenzioni, le nostre idee, e la nostra responsabilità in senso elevato, ossia il rispondere di, l’essere responsabili delle proprie azioni anche senza che nessuno ci obblighi a farlo e stia a osservarci con il fucile spianato. Ciò, ovviamente, non avviene di default, ma può avvenire, così come può avvenire che siamo in grado di agire liberamente. Ma si tratta del punto di arrivo, raro e accidentato, non del punto dipartenza.

4) Il tuo lavoro più recente (L’imbecillità è una cosa seria, 2016) mostra che ciò che ci fa sentire mobilitati e obbligati è anche ciò che ci permette di vivere: la tecnica. In che senso parlare di imbecillità significa parlare del nostro rapporto più arcaico con la tecnica, gli strumenti che accompagnano la nostra esistenza, il saper fare qualcosa grazie a supporti come computer, smartphone e prima ancora matite, bastoni, etc.? Perché la tecnologia e il nostro rapporto con essa mostrano un carattere fondativo dell’essere umano?

Per i motivi che ho appena accennato. Del resto, l’etimo di imbecillità la dice lunga: in-baculum, privo di bastone, è l’uomo allo stato di natura: un fesso, altro che un buon selvaggio saggio e filosofo (a parte che il buon selvaggio è ipertecnologico: frecce, boomerang, cerbottane, curaro, pemmincan, tomahawk, calumet…).

[Immagine: Server].

 

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