di Luca Bertolo

Ammassi di gambe, se si può chiamarle gambe: arti-salsiccia che terminano dentro a scarpe-ferro di cavallo, scarti su un bancone di macelleria o grotteschi resti riesumati da una fossa comune. Un’enorme bocca li sta inghiottendo, o vomitando fuori. Lo spazio del quadro è occupato quasi interamente da questo inquietante primo piano. Rosa, rossi e grigi. Poco più in là uno strano figuro incappucciato, dipinto fumettisticamente, fuma e dipinge un quadro. Sono due tra le tante opere notevoli contenute nella mostra Philip Guston and The Poets, inaugurata a maggio a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia, la prima importante retrospettiva del grande pittore americano/canadese realizzata in Italia.

“Macché scarpe! Macché gambe!” urla Guston. La sua voce arriva da una saletta laterale del museo, dove viene trasmesso un documentario. Una lunga sequenza si svolge nelle sale del Museum of Contemporary Art of Chicago dove – siamo nella primavera del 1980 – si sta ultimando l’allestimento di una sua grande mostra antologica. Fumando una sigaretta dietro l’altra, il pittore, allora sessantasettenne, risponde alle domande di un piccolo pubblico radunatosi attorno a lui. Provoca una strana sensazione ascoltare quell’uomo forte e deciso sapendo, ex post, che morirà un paio di mesi più tardi, per un infarto. Ad ogni domanda seguono alcuni secondi di silenzio: è chiaro che l’artista non ha alcuna intenzione di rispondere per frasi fatte. Dopo aver aspirato una densa boccata di sigaretta, Guston risponde scegliendo bene le parole. La sua voce, in linea con la sua statura massiccia, è forte, il piglio è battagliero. Come in tante altre occasioni, esasperato dalle domande sul significato letterale dei suoi quadri, Guston risponde alla maniera di un maestro zen, con dei paradossi: “Quelle (gambe) che vedete non sono gambe! Quelle (scarpe) non sono scarpe! Sono dei segni colorati su una tela…”. Il punto è questo: un pittore non sceglie cosa dipingere come si sceglie un sugo per condire la pastasciutta. È una questione su cui Guston tornò spesso, durante i talks o le interviste, fin dagli anni ‘50: dipingere quadri non significa illustrare delle idee, né, in senso stretto, raccontare delle storie. Dipingere, per Guston, significa incamminarsi verso qualcosa di ignoto, qualcosa che il pittore, non diversamente dal resto del pubblico, scoprirà a quadro finito. Ex post.

In questo testo vorrei affrontare un paio di domande che mi paiono importanti e che evidentemente vanno oltre il caso specifico di Guston. Prima domanda: come mai un artista intelligente, colto, con un interesse politico e una sensibilità sociale che lo accompagnano per tutta la vita, un artista le cui opere pullulano di simboli di violenza e ingiustizia, come mai un tale artista sposta continuamente il discorso sul piano artistico dell’opera, sul come invece che sul cosa ? Seconda domanda: che senso può avere oggi – mezzo secolo dopo l’espulsione della pittura dal novero dei media legittimati ad essere contemporanei[1] – dipingere e guardare quadri? Più in generale, se è vero che ogni opera d’arte che si rispetti presenta all’osservatore una sfida estetica (e dunque intellettuale), che tipo particolare di sfida propone un dipinto?

Torniamo a Venezia. La disposizione delle opere voluta dal curatore della mostra Kosme de Barañano non segue un ordine cronologico. Scelta piuttosto anomala nel caso, come questo, di una grande mostra antologica, cioè quel genere di mostra in cui ci si aspetta di trovare chiaramente delineato il percorso di un artista: le incertezze della giovinezza; la sperimentazione e le invenzioni della prima fase “adulta”; lo stabilizzarsi di una “propria lingua” nella “piena maturità”; i cedimenti e le inevitabili ripetizioni dell’ultima fase. Qui, in effetti, non si ritrova niente di tutto questo. E non solo perché una disposizione che segue un criterio tematico invece che cronologico mischia inevitabilmente le carte in tavola; è il percorso artistico di Guston, oltre che umano, a mettere felicemente in scacco il cliché di cui sopra.

Fin dalla prima sala troviamo, vicine tra loro, opere realizzate tra gli anni ‘30 e gli anni ‘70. Mi fermo nella seconda sala, davanti a un gruppetto di grandi tele dipinte nei primi anni ‘50: meravigliosi agglomerati materici organizzati in composizioni centripete. Le pennellate-gesto, quasi sempre distinguibili le une dalle altre, si accumulano creando zone rosa, rosse (il famoso cadmium red medium hue che userà in gran quantità per quarant’anni), nere e grigie. Qualche azzurro ceruleo e verde smeraldo fa capolino qua e là, ma la gamma tonale rimane ristrettissima. Per quanto astratti e informali, questi quadri esprimono una speciale compostezza; la loro fattura, strato dopo strato, dà conto onestamente, umilmente, dello strato finale. I segni sembrano voler imbastire le fondamenta per qualcosa a venire.

Erano gli anni in cui la comunità artistica più “avanzata” di New York, dopo una sofferta gestazione a base di miseria, alcool e interminabili discussioni notturne nei bar di Lower East Side, stava collettivamente partorendo un approccio esistenzialista alla pittura; un approccio che i due più importanti critici dell’epoca, oltre che compagni di viaggio (e bevute) di quegli artisti chiamarono action painting (Harold Rosenberg) e abstract expressioninsm (Clement Greenberg). Per i quadri di Guston, all’epoca troppo intimisti per essere associati a una qualche forma di espressionismo, si parlò di impressionismo astratto – definizione che non piacque mai all’artista. Sia come sia, quei quadri sancirono una prima grande trasformazione della sua pittura, simile, nei tempi e nei modi, a quella sperimentata da quasi tutti i suoi colleghi – da Jackson Pollock a Mark Rothko, da Wilhelm De Kooning a Adolph Gottlieb: il passaggio dalla figurazione (anni ‘30 e ‘40) all’assenza di figurazione (o astrazione, o pittura non oggettiva). In effetti, cosa rappresentano quei quadri? Niente… o almeno niente di concreto, niente di riconoscibile.

Davanti a tali pattern visivi, pur emotivamente coinvolgenti, ci mancano le parole. Sperimentiamo una simile sensazione d’impotenza quando ci sforziamo di descrivere (non in termini tecnici, come farebbe un musicologo) un preludio di Debussy o una sonata di Bach. La musica in generale è stata giustamente accostata, a partire da Kandiskij, alla pittura astratta (o non oggettiva o non figurativa) poiché entrambe sembrano sfuggire caparbiamente ad ogni definitiva traduzione in parole, in discorso. La cosa interessante è questa: se in natura, immensa quant’è, non si trova la musica di Wagner o la pittura di Mondrian, al contrario le opere d’arte (astratte o figurative che siano) e la musica ci riportano comunque sempre alla natura. Dopo essere stati “esposti” a una (buona) poesia, a un (buon) quadro, a un (buon) quartetto d’archi torniamo a fare esperienza del mondo (le famose “cose concrete”) con una più acuta sensibilità. Tutte cose risapute fino a qualche decennio fa, certo, ma che forse oggi – in un’epoca in cui la dimensione discorsiva sembra imbrigliare a priori ogni creazione e fruizione – non è inutile ripetere.

In ogni caso, tra la fine degli anni ‘30 e la fine degli anni ‘40 Guston si era cimentato eccome con la rappresentazione di cose concrete e riconoscibili: madri con bambino, ragazzi di strada, uomini incappucciati… Figlio di ebrei ucraini (i Goldstein, cognome che Philip poi trasformò in Guston) immigrati a Montreal e poi trasferitisi in California alla ricerca di condizioni di vita meno misere, Guston ebbe modo di conoscere presto sentimenti e azioni del Ku Klux Klan (che allora contava negli USA ben 4 milioni di affiliati!) contro neri, ebrei e socialisti. In generale, l’infanzia di Guston non era stata quel che si dice tutta rose e fiori. Un giorno, attorno ai dieci anni, Philip entrò in cucina e trovò suo padre impiccato al soffitto. Da giovane Guston ebbe simpatie anarchiche e rimase sempre sensibile alla “questione sociale”. Nel 1971, ai tempi della sua assidua frequentazione con lo scrittore Philip Roth, trasformò le loro frequenti invettive contro il presidente Richard Nixon in una mirabile serie di disegni satirici[2]. Pur spietatamente legati alle cronache di allora, emerge da queste tavole una qualità segnica slegata da una funzione prettamente illustrativa. Guardate i peli della barba mal rasata del povero Richard, come questi peli costruiscono l’immagine. Seguite il ritmo creato dalle lineette/ondine del mare o dalle lineette/cunette di sabbia. Trattini, lineette, puntini… li ritroviamo in quasi tutti i suoi quadri tra il 1969 e il 1976. Ad essi si affida Guston per “riempire” le campiture tra una riga di contorno e l’altra o per creare traiettorie parallele alla forma degli oggetti. La linea tratteggiata, instabile, aperta, una linea che potremmo definire malinconica a causa di questa sua qualità d’intermittenza: sì-no-sì-no. Forse.

P. Guston: No, non mi interessa un’interpretazione direttamente politica.
H. Rosenberg: Ma a te interessa la politica.
P. Guston: Certo. A tutti interessa la politica[3].

 

Secondo Guston – questa è almeno la sua opinione a partire dagli anni ‘50 – l’arte non ha una funzione politica. Non può averla per il semplice motivo che fare arte, secondo la sua accezione, significa avventurarsi in territori sconosciuti. Al contrario, rappresentare qualcosa attingendo a un sistema di valori predefinito, o, peggio ancora, conformandolo a un ideale politico significa conoscere già in partenza dove si vuole andare a parare. La politica interessa al Guston cittadino, che si infervora guardando le immagini dei riots nei quartieri neri al telegiornale della sera. Al Guston artista interessa un altro tipo di esperienza: “voglio dipingere ciò che non ho mai visto”. La dimensione logico-discorsiva – in cui Guston peraltro eccelleva quando parlava in pubblico[4] – era proprio la dimensione contro cui combatteva nel momento del suo tête-à-tête con la tela. C’è dunque un motivo profondo per cui è difficile spiegare le immagini che popolano i suoi quadri, per esempio quelli realizzati nel 1969-1971. In Riding Around, 1969, uomini caricaturali incappucciati se ne vanno tranquillamente a spasso in auto fumando. The Studio, 1969, è ancora più provocatorio e inesplicabile: un pittore incappucciato che dipinge un uomo incappucciato. Un possibile autoritratto dunque? Proprio Guston? Non possiamo che arrenderci all’evidenza: si tratta proprio dell’artista nelle vesti di un tipico rappresentante del male e della stupidità. Ma in che senso questo genere di immagini appaiono senza predeterminazione da parte dell’artista? Guston stesso non arriva mai a spiegar(se)lo del tutto. In più di un’occasione afferma che non ci tiene nemmeno a saperlo: è bene che certi meccanismi, che operano nel profondo della psiche, rimangano laggiù. Portandoli alla luce – razionalizzandoli – potrebbero perdere la loro immensa, primordiale potenza.

Ogni buona opera d’arte – che sia un quadro, una poesia, una performance o un’installazione – sfugge alle predeterminazioni del proprio autore. Ammesso che sia vero, ciò ha due conseguenze fondamentali: 1) l’opera si apre all’interpretazione, mai conclusa per definizione; 2) il giudizio dell’autore, per quanto interessante, rimane un giudizio tra gli altri, senza poter accampare diritti particolari. In controtendenza rispetto ai nostri tempi – tempi di azzeramento della critica e di ipertrofia dell’ego dell’artista – questi fattori appaiono oggi tendenzialmente negativi, perché sintomi (così vuole la vulgata fin dai primi anni ‘70) di un’insopportabile soggettività e disimpegno. Al contrario, l’esercizio dell’interpretazione – lo capiva anche un gruppo anarco-punk degli anni ‘80 come The Ex[5] – è necessario per ogni forma di consapevolezza e autonomia di giudizio. L’esercizio dell’interpretazione è condizione necessaria, quantunque non sufficiente, per una relazione tra “gioco” artistico e “gioco” sociale (o politico) più ambiziosa di quella, mainstream, che riduce la questione all’arte variamente “impegnata”. E perché ci sia spazio interpretativo ci vuole un termine medio, tra autore e pubblico – l’opera – sufficientemente indipendente dagli altri due. Nella lunga, ideologizzata, marcia verso l’emancipazione dell’artista questa autonomia o resistenza dell’opera nei confronti del proprio autore è sembrata a un certo punto una semplice, arcaica sopravvivenza, che limitava il potere assoluto dell’artista. E dire che di questa limitazione del proprio potere (razionalità, determinazione etc) il primo beneficiario è proprio l’artista, l’autore, che ha la possibilità di meravigliarsi di fronte a qualcosa fatto da lui/lei stesso/a. “You see, I look at my paintings, speculate about them. They baffle me too. That’s all I’m painting for”. Vedi – dice Guston in una conversazione, – guardo i miei quadri, speculo su di essi. E sorprendono anche me. Solo per questo dipingo.

Per quanto paradossale, si può allo stesso tempo accusare un artista di essere troppo e troppo poco “politicizzato”, troppo e troppo poco concreto, troppo e troppo poco comprensibile, troppo e troppo poco intellettuale. Il bubbone scoppiò l’ottobre del 1970, all’inaugurazione dell’ormai famosa mostra alla Marlborough gallery di New York. Guston non esponeva da tre anni, e girava voce che si fosse autorecluso nella sua casa di Woodstock a disegnare e basta. E così era stato, per più di un anno; poi aveva ripreso a dipingere con una lena mai conosciuta prima. Il pubblico arrivato alla galleria aveva ancora in testa il Guston “astratto”, elegante, quello dei quadri in bianco e nero della metà degli anni ’60 e si ritrovò davanti una serie di quadri popolati di grottesche figure fumettistiche. Ma come, si disse in giro, proprio uno dei più raffinati tra gli espressionisti astratti della vecchia guardia? Che ne era stato del buon vecchio ideale di purezza? “Un mandarino che si finge un cialtrone” – così intitolò la sua micidiale recensione a quella mostra il più eminente critico del New York Times[6].

Mi sono chiesto più volte come fosse possibile che così tanti “accreditati” spettatori non riconoscessero nei nuovi quadri di Guston la stessa intelligenza, la stessa raffinatezza, lo stesso acume critico, la stessa sensibilità all’opera nei suoi lavori precedenti. Ma è possibile, altroché. Sono certo che la maggior parte del pubblico – anche dei cosiddetti insiders – cadrebbe oggi nello stesso identico errore. Qui c’è una scarpa, là ci sono solo delle pennellate rosa e grigie… Ma forse – penso in un lampo di ottimismo – la buona pittura è sempre pronta a sacrificarsi per riqualificare il nostro sguardo. Cosa intendo dire? (Ri)qualificare lo sguardo significa, per esempio, renderci consapevoli che quell’immagine davanti a noi non è solo un’immagine (bella o brutta, tenera o grottesca) ma è anche un insieme di pennellate; che quell’immagine, in un certo senso metafisica[7], esiste solo grazie alla fisicità di un supporto[8]. Questi due livelli – il quadro (il supporto fisico) e l’immagine (metafisica) – coesistono; riformulare ogni volta questa delicata coesistenza è uno dei principali obiettivi di un bravo pittore. Basta una leggerissima variazione nella fattura di un dipinto e la magia che sembrava avere scompare come d’incanto. (Ri)qualificare lo sguardo significa renderci consapevoli che ogni guazzabuglio di segni apparentemente innocui e casuali è potenzialmente disponibile a ricomporsi in un’immagine familiare. Oppure il suo contrario. “Mi eccita sempre la linea sottile che separa l’immagine dalla non-immagine. Ciò che rende eccitante un’immagine è che in ogni momento basta un niente per farla scomparire completamente, per avere del caos, per non avere niente lì.” [9]

Questo accento sul “come” di un’opera è riassunto splendidamente da una frase di Paul Valery che Guston amava citare non appena ne aveva l’occasione: “Una brutta poesia è quella che svanisce nel suo significato”. Sostituendo “quadro” a “poesia”: se puoi renderlo perfettamente in parole, si tratta di un quadro scadente[10]. Come Guston sottolinea più volte nei suoi talks, il come, la forma, non solo definisce la qualità di un quadro, ma ne assicura la durata nel tempo, il suo “perpetuo rinnovarsi”. Un quadro ben riuscito funziona perché, essendo così legato, inseparabile dal proprio “corpo”, rinasce, diverso, ad ogni nuovo sguardo. A differenza del suo “significato”, un buon quadro non si usura, continua a interessarci, a meravigliarci.

Il vedere come metafora del vivere: questa era la posta in gioco per Guston. Lo fu per tutta la sua vita. Dipingere quadri, creare immagini che funzionino (come amano dire gli artisti), cioè che ci rendono consapevoli di qualcosa che prima ci sfuggiva. Figurazione o non figurazione, non è questo il punto cruciale. Per questo motivo la cosiddetta grande svolta – quel passaggio/ritorno alla figurazione sancito dalla mostra alla Marlborough gallery del 1970 – fu sempre contestata dall’artista: per più di trent’anni aveva dipinto con la “sensazione di dover sempre ricominciare da capo”; per più di trent’anni la sua pittura aveva cambiato continuamente forma; lui stesso aveva dipinto uomini incappucciati già trent’anni prima; da anni aveva limitato la tavolozza quasi esclusivamente a rosa, cadmio, grigi: dove stava lo scandalo? L’accusa di aver cambiato pelle proprio non gli andava giù.

MARK STEVENS: Cominci i tuoi quadri avendo in testa gli oggetti più ordinari.
PG: Potrebbe essere qualunque cosa. Una valigetta o uno scarafaggio che zampetta sul pavimento. Parto da lì e poi vado avanti. Una notte ripensavo alla Metamorfosi di Kafka, quando lui si sveglia ed è uno scarafaggio ed è in ritardo per il lavoro. Beh, credo che l’aspetto più fantastico di questa storia sia che quest’uomo in realtà non è cambiato. E’ totalmente consapevole. Non si tratta di una metamorfosi.[11]

Più ancora che rendere conto del rapporto, diretto o indiretto, che ebbe con alcuni poeti, Philip Guston and the Poets sembra avallare l’opinione dello stesso Guston sull’unità nella diversità della sua produzione artistica. E del resto anche questa “vittoria” postuma sarebbe ben poca cosa se non avesse un valore esemplare. Questo suo percorso cinquantennale   sembra ribadire che ogni ricerca radicale, cioè onesta, è costretta a rinunciare ad ogni preconcetto – dogmi formalisti, ideali politici, per non parlare delle finalità “mondane”. “Una volta stavo conversando con Harold Rosenberg in un convegno e gli ho detto: “Mi piacerebbe dipingere come se non avessi mai dipinto o visto un quadro prima” Naturalmente è impossibile. Ma Harold mi disse che questa era la definizione che dava Mallarmé del vero poeta: il poeta nell’Eden”. Più che nell’ambito delle idee, è nell’ambito dei segni che si nasconde la personalità di un artista. Quella materia bianco/rosa/grigia che si avviluppava nei quadri astratti degli anni ‘50 non è forse la stessa di quella che, riempiendo le campiture di forme riconoscibili – una mano rossa, il fumo grigio – ritroviamo in quadri come The Studio? Questo modo di sentire la materia-colore in relazione alle figure, alle forme, alla tela stessa – questo è lo stile di Guston. Come lo è la sua intelligenza visiva, particolarmente efficace proprio nei quadri, a lungo considerati grezzi, dell’ultimo decennio. “Quando vediamo una sequenza di punti che risale il bordo di una tela nella tela, e che riecheggia la serie dei fori neri del cavalletto, lì si prova quel piacere particolare dato dal senso del gioco e della libertà di Guston. Qui significano una cosa e lì un’altra: il continuo gioco con i segni mette in gioco i nostri sensi, sfidando la nostra capacità di attribuire a quei segni un significato sempre diverso”. [12]

Il nesso tra la “pura” dedizione all’arte, cioè l’ethos associato a quella pratica, e una sua ricaduta politica non è immediato da capire. Il filosofo francese Jacques Rancière ha dimostrato come sia più significativo indagare “le politiche dell’estetica” e le “estetiche della politica” piuttosto che, sulla falsariga di una lunga infruttuosa tradizione, mettere i due termini in banale contrapposizione. “Il proprio dell’arte consiste nel ritagliare in maniera nuova lo spazio materiale e simbolico. È in questo senso che l’arte fa politica”. [13] Philip Guston and the Poets è una mostra imperdibile per tutti coloro che siano pronti a mettere da parte, almeno ogni tanto, la propria dannata intelligenza; che sappiano rinunciare, almeno ogni tanto, a discorsi, didascalie e spiegazioni; che abbiano il coraggio e la fortuna, almeno ogni tanto, di aprire gli occhi e vedere, di aprire le orecchie e sentire. Qualcosa che prima non conoscevano. We need poets, we need painters, we need poetry and paintings...[14]


[1] Il cosiddetto ritorno della pittura degli ultimi anni – fenomeno legato ai cicli della moda – non ne ha cambiato di molto, a oggi, lo statuto presso critici e curatori.

[2]    Poor Richard, all’epoca rifiutato da più editori per paura di ritorsioni legali (Richard era il nome dell’allora presidente Nixon, implicato tra l’altro nel watergate) e pubblicato postumo nel 2001 dalla University of Chiacago Press. Nella mostra veneziana sono esposti un paio di tali disegni.

[3]   Philip Guston. Collected Writings, Lectures, and Conversations, University of California Press, 2011, pag 277.

[4] “My father was a great teacher because he was a great talker […] Because of his intense need to articulate his own experience as a painter, he was a natural teacher”. Citazione tratta dall’interessantissimo libro di Musa Mayer, Night Studio. A Memoir of Philip Guston, Da Capo Press, 1997, da poco tradotto in italiano col titolo Night Studio. Un ritratto intimo di Philip Guston, Johan & Levi, 2017.

[5] Cfr il testo di un pezzo come Listen to the painters, 2004, da cui ho tratto anche il titolo per questo testo. Eccone un passaggio: “Narrow minds are weapons made for mass destruction/file them under giant ass seduction / sheep with crazy leaders, heading for disaster / courting jesters who take themselves for masters / The shrub who took himself for a park / the squeak who took himself for a bark / We need filmers, and writers, dancers, musicians / actors, and sculptors, bakers, electricians / thinkers, and doctors, cyclists, and builders / lovers, friends, and neighbours, and others / filmers, writers, dancers, musicians / poets, and painters, poets, and painters”.

[6] Hilton Kramer, A Mandarin Pretending to Be a Stumblebum, New York Times, 25/10/1970.

[7] Se straccio una foto della Monna Lisa non ne distruggo l’immagine, così come se spacco lo schermo di uno smartphone non cancello l’immagine “sottostante”. Chiamo l’immagine metafisica a causa di questo suo stare sempre da qualche altra parte.

[8] Prima di diventare anche un’immagine mentale – ma questo è tutto un altro discorso che lascio volentieri ai filosofi.

[9] Philip Guston. Collected Writings…, op.cit. pag 87

[10] Cosa che rende conto di quanto sia drammaticamente difficile, se non paradossale, il compito del critico.

[11] Philip Guston. Collected Writings…, op.cit. pag 190

[12] Craig Burnett, Philip Guston. The Studio, Afterall Books, 2014 (traduzione mia). Questo bellissimo libro è un esempio di come si possa ancora scrivere significativamente di pittura oggi.

[13] Jacques Ranciére, Il disagio dell’estetica, Edizioni ETS, 2009

[14] Refrain del pezzo Listen to the painters citato precedentemente.

 

[Immagine: Philip Guston a Venezia]

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