di Walter Siti
Ecco dunque il Meridiano Mondadori dedicato a Sandro Penna, buon ultimo dopo quelli (se ci limitiamo ai poeti nati dopo il 1900) dedicati a Quasimodo, Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi, Fortini, Zanzotto, Pasolini, Rosselli, Raboni e perfino Spaziani. Il ritardo è dovuto probabilmente a due fattori convergenti: da un lato la difficoltà di fare ordine nel pasticcio delle edizioni penniane (spesso non organizzate e non amate dall’autore, con testi difficilmente databili e continue aggiunte di inediti tenuti a lungo nel cassetto), dall’altro l’imbarazzo che la cultura italiana ha sempre provato nei confronti di una grandezza che fa un po’ vergognare. La prima difficoltà è stata risolta puntando al male minore: si è scelta, come testo base, l’edizione Garzanti del 1973 – l’unica che l’autore abbia strutturato e approvato (“quello che io lascerei ai posteri se posteri esisteranno”). Obbedire all’ultima volontà d’autore (soprattutto se l’autore è capriccioso) è un criterio spesso discutibile, ma in questo caso nelle circa 160 pagine di quella raccolta c’è davvero ‘il Penna che conta’; nelle circa 400 che seguono, qui nel Meridiano (cioè tutto il resto della produzione in versi, presentata in ordine cronologico), si trova al massimo una quarantina di testi che andrebbero idealmente aggiunti al Penna migliore (alcuni giocosi-ironici, alcuni sentenziosi, alcuni di grazia stridula e senile). L’ordine cronologico della seconda parte è frutto dell’ottimo lavoro del curatore Roberto Deidier, che ha fornito ogni testo di un ricco ed esauriente apparato di note. Ma dalle tanto sospirate date non si ricava molto, in fondo, se non l’ovvio: cioè una maggior durezza e cinismo con l’avanzare dell’età. Non per questo la congerie di iuvenilia, di poesie ripetitive, di altre meno riuscite è inutile – come tutt’altro che inutili sono le pagine giovanili di diario (qui edite per la prima volta in modo sistematico e completo), o i passi epistolari e i frammenti autobiografici contenuti nella bella Cronologia di Elio Pecora. Tutto questo materiale serve a sottolineare da che ammasso di nevrosi, di mezza filosofia, di prove ed errori, di acute riflessioni critiche nasca la leggerezza delle poesie che amiamo.
Le poesie di Penna sono ogni volta un miracolo che riaccade, quasi contro il volere dell’autore: non ci sono strutture che le reggano, progetti di canzoniere, ‘cicli’ o ‘periodi’ – Penna si copre con la letteratura ma non la indossa, sotto resta nudo. Gli altri poeti che prima ho nominato appartengono (ciascuno a suo modo) al ‘campo di forze’ letterario, lui no; ogni poesia riuscita è il dono di una fede a cui Penna rinuncerebbe volentieri, se non fosse che il dio dell’amore lo tiene tra le grinfie e non lo molla – quella fede è in realtà una condanna, perché è il solo compenso alla mostruosità. Quando a cinquant’anni decise di mettersi in casa un orfano quattordicenne e di cominciare con lui una duratura e conflittuale convivenza, perfino i suoi amici non gli risparmiarono sarcasmi; ma lui lo sapeva da sempre di essere un ‘diverso tra i diversi’. I carabinieri erano la minaccia costante sui suoi amori; si sforzava di desiderare gli ultra-sedicenni ma i suoi gusti lo portavano piuttosto verso la fascia dei quindici e dei quattordici, con scivolamenti verso i tredici e anche i dodici. I più adulti gli sembravano già corrotti, viziosi, e lui notava il paradosso: “per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore”. In quel “puro” c’è già l’auto-repressione: l’illusione platonica, il panismo dannunziano, la sessualità che si estende al paesaggio, l’eros universale – ci sono gli eufemismi (il cazzo chiamato “cosa” o “oggetto”, i minorenni “età gentile”, le sozzerie che diventano “il fare”, il battere alluso nel semplice “uscire”) – c’è, soprattutto, la formidabile difesa stilistica della metrica cantabile, degli endecasillabi ‘involontari’, di una lingua ritualizzata e così socialmente sicura da rendere ‘adorabili’ le sprezzature. Eppure Penna la conosce, la violenza infinita che gorgoglia sotto la sordina classica, e lo dice in una prosa di Un po’ di febbre: “Niente mi farebbe entrare in te più di così… A meno che io non ti sbrani. Forse se ti torturassi infinitamente… sarebbe questo l’unico possesso vero”.
Ma quando Penna universalizza il desiderio non lo fa solo per difendersi, difende anche la verità del mito. Ogni ossessione spregia la storia perché si fonda su ciò che è già accaduto, in un passato per l’appunto mitico; l’ossessione di Penna è l’incontro col dio giovinetto, in quell’incontro si compongono il quotidiano e l’eccezione – il dio fanciullo si incarna nel ragazzetto del momento, e il sottouomo adorante diventa superuomo, il mendicante diventa re. Il tempo mitico circolare coincide con l’attimo: non si può andare molto più in là dell’apparizione perché ogni commercio col dio provocherebbe una catastrofe cosmica. In una pagina di diario Penna racconta d’essersi trovato vicino a un ragazzetto bellissimo, si stupisce che il mondo “non ne sappia niente” e aggiunge “se il mondo sapesse non potrebbe pensare a queste sciocchezze”: siamo nel 1939 e le “sciocchezze” sono gli annunci sulla stampa dell’imminente Seconda Guerra Mondiale. Uscire dal mito significa rinunciare alla poesia e questo Penna non sa e non vuole farlo, ma la fede nella poesia si paga con la disumanità; non è un reazionario, non è contro la storia, e non è nemmeno un rivoluzionario sebbene sogni il paradiso – quando il miracolo della sua poesia accade, lui è santamente estraneo al mondo degli uomini. Poi ci ritorna, nel mondo, e sconta l’angoscia della sua strana vita; “strano” è un termine tematico importante per i suoi testi, e sarebbe facile tradurlo oggi con “queer”, perché davvero per lui contano poco le opposizioni binarie su cui si basa il potere della società (fascismo/ democrazia, maschio/femmina, giovane/vecchio, uomo/animale). Ma quando i termini diventano di moda se ne depotenzia il significato; così come, probabilmente, la consacrazione del Meridiano contribuirà ad anestetizzare lo scandalo che uno dei maggiori nostri poeti del secolo scorso sia un uomo del tutto indifferente al consorzio civile e alle sue distinzioni morali. Esaltare retoricamente la letteratura è una maniera efficace, lo sappiamo, per non ascoltarla.
[Matt Dillon in Drugstore Cowboy (1989) di Gus Van Sant (gs)]
Perché “perfino”, Spaziani?