di Riccardo Giacconi
Il “linguaggio” in cui si configura una forma di vita resta per noi del tutto estraneo e incomprensibile. […] Ogni forma appartenente al regno del visibile è tra l’altro anche un modo particolare di presentarsi.[1]
– Adolf Portmann, Le forme viventi, 1965.
La nostra fuga dalla città è quella di coloro che ricercano altrove la città, il contatto dell’uomo con l’uomo in modi che siano reali e non cinerei. È un viaggio determinato dalla necessità della sopravvivenza. È un viaggio biologico. È utopistica la nostra fuga?[2]
– Enzo Siciliano, Milano 2: una città per vivere, 1976.
“Io mi ero laureato da poco”, mi racconta Enrico Hoffer, uno degli architetti che hanno progettato Milano 2, il quartiere residenziale di Segrate costruito da Silvio Berlusconi. “Con tre colleghi di università avevamo deciso di aprire uno studio. La combinazione fortunata è stata l’incontro con Berlusconi, attraverso alcune amicizie in comune. Lui aveva in mente di fare questo quartiere e ci ha chiesto di fargli una proposta. Gli è piaciuta, e da lì è nata l’idea di Milano 2. Lui ha comprato il terreno, che allora era un’azienda agricola, e siamo andati avanti con la progettazione urbanistica e i progetti edilizi, che si sono sviluppati dal ’69 al ’79. C’era un’intesa molto buona, basata sull’entusiasmo tipico dei giovani. E siamo riusciti a mettere insieme qualcosa di accettabile”. Hoffer sorride pronunciando quest’ultima frase.
Passo molto tempo a Milano 2, per lavorare a un documentario[3] sul quartiere e sulla sua evoluzione. Alla Biblioteca Braidense trovo un volume promozionale del 1976, pubblicato dalla Edilnord Centri Residenziali, la società edilizia di Silvio Berlusconi. Si chiama Milano 2: una città per vivere e, mi dicono, è presente in tutte le case dei primi abitanti del quartiere – i cosiddetti “pionieri”.
“Di solito avevano quarant’anni e un paio di figli, e si sentivano veramente dei pionieri”, racconta l’architetto Hoffer, “perché quando sono arrivati hanno trovato una realtà completamente nuova, in cui non c’erano ancora tutti i servizi necessari. Però c’è stata una buona contemporaneità di crescita fra abitazioni e infrastrutture: non tutto subito, naturalmente, ma con una certa gradualità sono arrivate scuole, negozi, trasporti, la chiesa, la posta, la banca, lo Sporting Club…”.
La visione pionieristica di un nuovo mondo da colonizzare si ritrova in un breve testo che Gianni Brera scrive nel 1976 per il volume promozionale:
A Milano 2, il miracolo appare sicuramente compiuto. La grande città rimane alle nostre spalle. In tempi antichi si sarebbe parlato di colonia. Il popolo eccedente si trova altra sede lontana; un sorteggio quasi sempre spietato designa i partenti. Qui, per fortuna, la colonia è sorta da una scelta spontanea. La nuova comunità si enuclea senza drammi. Il privilegio è conquista operosa, un bene da godere insieme, nel modo più razionale possibile.[4]
Il “privilegio” che tiene insieme questa nuova comunità è descritto da Brera in toni utopici, quasi messianici: Milano 2 viene pubblicizzato ai primi acquirenti come un mondo a venire. Il quartiere, infatti, non si espande organicamente da un tessuto urbano o sociale esistente; è una pura idea, che si costruisce da zero su un terreno agricolo.
Parlando dei primi tempi, l’architetto Hoffer racconta che “ogni sabato mattina usciva il paginone sul Corriere, con tutti i concetti e le foto che illustravano le belle cose di Milano 2. E allora arrivava la fiumana di gente, e la gente comprava. A Berlusconi piaceva accompagnare in giro le persone: «guardi qui, guardi là…». Si divertiva; è un suo modo di essere, lui è sempre stato un venditore”.
I paginoni sul Corriere della Sera recano slogan come “Milano 2: operazione aria pulita”, o “Milano 2: il momento d’investire”. Il più celebre è: “Milano 2: la città dei numeri uno”.
“L’idea generale di un quartiere con tanto verde, in cui le auto quasi non si vedono, è stata di Berlusconi”, continua Hoffer, che di Milano 2 ha progettato soprattutto l’aspetto paesaggistico. “Lui seguiva spasmodicamente quello che veniva fatto nell’ufficio tecnico, scendendo nei particolari. Ad esempio, era presissimo con il discorso degli alberi. Spesso andavamo insieme nei vivai a cercarli, per poi posizionarli nei condomini. È il primo progetto in cui si è espresso veramente: come imprenditore, ma anche con qualche velleità architettonica. La filosofia generale del quartiere è effettivamente sua; il resto ce l’hanno messo gli architetti”.
Il paesaggio è stato, fin dall’inizio, uno dei punti di forza della campagna pubblicitaria per Milano 2. Il nuovo quartiere veniva presentato come un’oasi di armonia fra natura e architettura, in contrasto con l’inquinamento e l’asfalto di Milano città. Il testo che Natalia Aspesi scrive nel volume promozionale si concentra proprio su tale contrapposizione:
Il paesaggio fisico di Milano si è fatto crudele e sopportarlo è talvolta molto acre. Per cui è nella pelle, nelle orecchie, nello stomaco, nel sangue, che si sente la voglia di vivere Milano e nello stesso tempo di esorcizzare Milano: di sdoppiarsi insomma e di provare emozioni corazzate in una città dura e instancabile e provare emozioni indifese in una città dolce e riposata. Una Milano 1 per trovarsi al centro di tutto, una Milano 2 per ritrovare se stessi.
[…] È così che il paesaggio di Milano 2, più che di colori, di proporzioni, di verde, di dolci montuosità, di ordinate indicazioni stradali, di perentorie separazioni tra traffico pedonale e automobilistico, è fatto di bambini che giocano, di ragazzi in bicicletta, di persone che passeggiano, di gente che si muove in uno spazio inusitato, addirittura impensabile nell’altra Milano.[5]
Viene evocata l’immagine di un mondo arcadicamente sereno, eppure perfettamente parallelo a quello della città vera, che rimane lì “a due passi”. Non si tratta solamente di un progetto immobiliare. Me lo conferma l’architetto Hoffer: “Erano tutte motivazioni commerciali, che hanno contribuito al successo dell’iniziativa: vivere nel verde, creare un’atmosfera di vacanza nel quartiere… Era qualcosa di completamente diverso da ciò che succedeva allora a Milano città, dove c’era lo smog. Era proprio una forma di vita”. Subito mi viene in mente una frase di Michel Foucault, pronunciata nel suo ultimo corso al Collège de France: “La rivoluzione nel mondo europeo moderno […] non è stata semplicemente un progetto politico, ma anche una forma di vita”.[6]
Sia leggendo il volume promozionale che parlando con gli abitanti del quartiere, appare chiaro come la “motivazione commerciale” della fuga dall’inquinamento abbia agito in maniera solidale con un’altra motivazione, più celata. “L’idea era di far leva su una classe di persone benestanti che volevano andare via dal centro di Milano, che all’epoca era poco sicuro”, mi racconta un residente. “C’erano manifestazioni politiche in continuazione, e la minaccia di attentati terroristici. Molti di noi sono andati via anche per quello”.
La “forma-di-vita” propugnata a Milano 2, in cui i bambini possono “crescere tranquilli in mezzo al verde”, si situa integralmente fuori dell’arena politica, dalle discussioni, dai movimenti, dai rischi e dai tumulti della città. Viene messa in vendita una separazione sia geografico-paesaggistica che economica (il “privilegio da godere insieme” di cui scrive Brera).
“All’inizio Milano 2 è stata boicottata in maniera tremenda da un punto di vista politico”, mi racconta Hoffer. “Poi ci si è messa di mezzo la magistratura, sono state fatte delle denunce… C’è stato anche da lottare, perché l’intellighenzia non digeriva bene il progetto. Hanno iniziato a definirlo «il ghetto dei ricchi» e cose del genere. È chiaro che chi comprava a Milano 2 non era probabilmente un operaio, però c’è stato un assortimento abbastanza vasto di clientela”. Gli chiedo cosa pensa del rapporto fra Milano 2 e il cosiddetto “riflusso”. “Il progetto ha avuto le sue strumentalizzazioni politiche”, mi risponde. “Non era ben visto che un quartiere potesse essere separato dalla città e avere una vita autonoma. Perciò l’ideologia, che permea anche l’urbanistica, ha rifiutato questo modello, e credo che ormai un discorso del genere sia chiuso, almeno in Italia. Il pensiero politico non è stato favorevole a questo tipo di iniziativa, soprattutto negli anni Settanta”.
È soprattutto con la messa in opera di un esperimento che il quartiere diventa un vero e proprio laboratorio, per attuare quella “forma-di-vita autonoma” di cui parla Hoffer. L’esperimento si chiama TeleMilano, e inaugura una fase di trasformazione radicale della società italiana. Il volume promozionale del 1976 gli dedica solo uno degli ultimi paragrafi: “la prima TV via cavo con un regolare programma di trasmissioni televisive […] Gli studi di produzione hanno sede a Milano 2 e sono dotati di telecamere fisse e mobili, di sale di registrazione e di regia, di un sistema completo di missaggio, videocinema e videoregistrazione […] Fin dai primi mesi di vita, TeleMilano ha registrato un’attiva partecipazione dei residenti alla elaborazione e alla realizzazione dei programmi.”[7]
“A un certo punto”, mi riferisce l’architetto, “lui si è allontanato dall’edilizia e si è inventato l’idea della televisione. Era stato sconsigliato da tutti, invece è andato avanti ed è riuscito a mettere insieme TeleMilano, che all’inizio era concepita come un servizio per il quartiere, con notiziari su Milano 2 che arrivavano in tutte le case via cavo. Poi il progetto si è evoluto, abbandonando la vocazione iniziale di servizio per il quartiere. Rispetto all’idea di televisione di Berlusconi, da sviluppare in grande stile, TeleMilano è stata una piccola scintilla iniziale”. Gli chiedo qual era il ruolo degli architetti rispetto alla televisione. “Noi abbiamo fatto dei progetti per gli studi, ma la televisione vera e propria non era più il nostro lavoro. Lui, soddisfatto di Milano 2, pensava già ad un’altra impresa, non più nel campo edilizio ma nel campo dei media”.
Incontro Debora Visconti, milanoduese di nascita, che nel suo libro che celebra I quarant’anni di Milano 2 descrive l’inizio dell’impresa:
TeleMilano fu la televisione via cavo di Milano 2. Se ne occupavano Gino Spada e Giorgio Medail. Interamente dedicata ai residenti del quartiere, l’emittente era il frutto dell’idea di Giacomo Properzj, segretario del Partito Repubblicano milanese. Suo compagno di avventure nell’impresa fu Alceo Moretti, titolare dell’agenzia di PR Alfa. Silvio Berlusconi diede in affitto un appartamento della Residenza Portici a Properzj e Moretti: si trattava della sede di TeleMilano. Ben presto i due pionieri della TV via cavo dovettero constatare quanto fosse oneroso portare avanti l’iniziativa. Così cedettero l’attività a Berlusconi che ben presto trasformò TeleMilano in televisione via etere, grazie all’apertura alle televisioni locali determinata dalla legge 103.[8]
TeleMilano inizia a trasmettere via cavo nel 1974 dal celebre Palazzo dei Cigni, situato nella piazza principale di Milano 2, davanti al laghetto. TeleMilano diventerà poi Canale 5, la prima televisione privata italiana e la testa di ponte del futuro impero mediatico di Berlusconi. Il quartiere funge da laboratorio per l’esperimento: attraverso il mezzo televisivo, la “forma-di-vita” viene poi irradiata a livello nazionale.
Mostro un primo montaggio del mio documentario allo scrittore francese Yannick Haenel, autore di Je cherche l’Italie (Gallimard, 2015; traduzione italiana: Cerco l’Italia, Edizioni Clichy, 2016), diario del suo soggiorno in Italia. Secondo Haenel, “la connessione strutturale fra il quartiere e la televisione rivela come i concetti fondanti del progetto immobiliare fossero gli stessi della nuova cultura televisiva berlusconiana”. In altre parole, ciò che nei primi anni delle TV private viene etichettato frettolosamente come puro “intrattenimento”, è in realtà l’annuncio di una nuova “forma-di-vita”, che ha lasciato alle spalle l’attivismo e ha abbandonato le lotte per cambiare il mondo. TeleMilano annuncia infatti che il mondo a venire ha già luogo: è Milano 2, ed è il modello per trasformare l’Italia intera. Si tratta, cioè, di un progetto politico fin dall’inizio, molto prima dell’effettiva “discesa in campo” del 1994.
In questa prospettiva, assume un senso più ampio la frase che si trova all’inizio del volume promozionale: “Milano 2: un’esperienza concreta e affascinante, una proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della città”. Poche pagine più avanti, il giornalista Marco Mascardi lo ribadisce con altre parole:
Milano 2 è qualcosa di più di un quartiere. […] È una maniera nuova di vivere la vita. Se il modello funziona, […] allora l’impegno diventa enorme: perché su quel modello c’è da ricalcare. Da rifare analoghi insediamenti altrove. E così Milano 2 diventa prototipo, matrice.[9]
Il progetto edilizio comprende in nuce sia quello mediatico che quello politico: essi sono fra loro organici e tendono verso una “maniera nuova di vivere la vita” – quella “nuova comunità” che “si enuclea senza drammi”, prefigurata da Gianni Brera. Tutto è già lì, intrecciato attorno al Palazzo dei Cigni: l’architettura, la comunicazione, il governo. I tre aspetti abitano insieme il quartiere e, come racconta Carlo Mazza Galanti nel saggio sulla sua infanzia milanoduese, se ne possono persino incontrare in giro delle incarnazioni: Jerry Calà che “che era un residente e abitava alla Spiga”, Ruud Gullit che “ogni tanto giocava a basket al campetto davanti alla parrocchia Dio Padre”, Raimondo Vianello dal barbiere o Marcello Dell’Utri, che “prendeva il sole nella piscina condominiale”.[10]
O l’architetto Hoffer, che vive a Milano 2 da quando, negli anni Settanta, ne seguiva la costruzione. Gli chiedo come vede il futuro del quartiere. “Andrà avanti”, mi risponde, “sperando che si conservi nel modo migliore possibile. Tanti cambiamenti sono stati fatti nel tempo; ce ne saranno altri. All’inizio c’erano, distribuite nel territorio, tre scuole materne, due scuole elementari e una scuola media. Ora, essendo cambiato il ritmo delle nascite, alcune strutture sono diventate superflue”.
Nell’ottobre 2016 sono state emesse le ultime immagini dal centro di produzione televisiva di Milano 2, che aveva iniziato a trasmettere via cavo nel 1974 e che, in seguito, aveva ospitato programmi come Striscia la Notizia, Paperissima, Studio Aperto e Tg4.[11]
Andando in giro per il quartiere oggi, cerco di distinguere i segni che il tempo ha lasciato in questo luogo, concepito come il laboratorio per un’Italia a venire. Cammino attorno al laghetto, passo davanti al Palazzo dei Cigni (che oggi reca il logo di Mediaset), vado a mangiare alla mensa aziendale. Un paio di volte porto con me degli amici stranieri. Senza conoscerne la storia, non credo riescano a intuire che proprio in questa periferia è iniziato un cambiamento così profondo della cultura italiana. Questa zona residenziale si presta male ad essere immaginata come luogo di scontri di potere, come l’avamposto di un impero mediatico, come il caso studio per un esperimento sociale su larga scala. Eppure è nato tutto qui.
Avverto spesso, nelle mie conversazioni con gli abitanti, un sottofondo di malinconia. Come una casa dopo una festa, sembra che Milano 2 e i suoi “pionieri” siano, col tempo, stati lasciati indietro. Dopo decenni di berlusconismo, oggi il quartiere non sembra avere più nulla di speciale, perché la “forma-di-vita” di cui era prototipo si è ormai diffusa dappertutto.
Mi perdo, fermo una signora per strada per chiedere indicazioni, ci mettiamo a parlare. “Non ce la faccio più a stare qui”, mi dice. “Non è più come una volta, ormai siamo tutti vecchi. Io ho comprato casa qui negli anni Settanta, i figli hanno studiato a Milano e poi sono rimasti lì. Anch’io vorrei tornare a vivere a Milano. Cerco di andarci il più spesso possibile”.
Eppure Milano 2, come dicono in molti, non è invecchiata male. Tutto sembra in buono stato: i campetti, le siepi, i laghetti, le portinerie. Non c’è sporcizia in giro; forse qualche vetrina vuota, ma il quartiere non è diventato una rovina. Piuttosto, forse, un monumento, come quello in piazza, scolpito da Pietro Cascella e donato da Berlusconi ai residenti. Come quelli che si costruiscono per celebrare un’idea, e che poi restano lì, sempre uguali, mentre intorno tutto cambia.
Note
[1] Adolf Portmann, Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Adelphi, Milano 1989, pp. 22, 51.
[2] AA. VV., Milano 2: una città per vivere, Edilnord Centri Residenziali, Milano 1976, p. 19.
[3] Due, con Silvia Costa, scritto in collaborazione con Antonella Anedda, prodotto da Le Fresnoy e Careof. Il film è stato presentato a settembre 2017 alla Settimana Internazionale della Critica in occasione della Mostra del Cinema di Venezia.
[4] Gianni Brera, in Milano 2: una città per vivere, p. 34-35.
[5] Natalia Aspesi, in Milano 2: una città per vivere, pp. 32-33.
[6] Michel Foucault, Le Courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France, 1984, Seuil, Parigi 2009. Lezione del 29 febbraio 1984.
[7] Milano 2: una città per vivere, p. 178.
[8] Debora Visconti, I quarant’anni di Milano 2, 2011.
[9] Marco Mascardi, in Milano 2: una città per vivere, p. 15.
[10] Carlo Mazza Galanti, Mi ricordo Milano 2, in “All’ombra del Palazzo dei Cigni”, pubblicato su “The Towner” il 16 Maggio 2016. http://www.thetowner.com/it/milano-2-palazzo-dei-cigni/ Cfr. anche Filippo De Pieri e Paolo Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, ne “Il Manifesto”, sabato 14 luglio 2001, p. 12.
[11] http://www.tvblog.it/post/1362861/mediaset-chiude-la-sede-di-milano-2-linformazione-si-sposta-a-cologno
[Immagine: Milano 2].
Io ci ho vissuto dal ’77 all’80, prima al residence trefili poi alla Torre Acquario, quella con la piscina aggettante in cima, e ho dei bellissimi ricordi, forse perché ero giovane.