di Thomas Harrison

[È uscito per Castelvecchi L’emancipazione della dissonanza, traduzione italiana di 1910: The Emancipation of Dissonance (1996) di Thomas Harrison, uno dei saggi di storia della cultura più interessanti usciti negli ultimi decenni negli Stati Uniti. Il tema è la rivoluzione artistica e culturale che si compie in Europa attorno alla data allegorica del 1910, l’anno nel quale “la natura umana cambiò”, secondo una frase celebre e provocatoria di Virginia Woolf, e l’arte perse la propria ovvietà, come si legge nell’incipit della Teoria estetica di Adorno. Le pagine che seguono sono tratte dalla postfazione del libro. LPLC ha pubblicato anche un’intervista a Thomas Harrison].

L’Espressionismo descritto in questo studio non è durato a lungo. Entro pochi anni molti dei suoi protagonisti – Carlo Michelstaedter, Georg Trakl, Egon Schiele, Dino Campana, Scipio Slataper, Franz Marc e Giovanni Boine – erano già morti o folli. Ma un altro evento, ancora più decisivo, ne segnò il destino: la Grande Guerra. Tra il 1914 e il 1918 l’insieme dei temi che i pensatori del 1910 avevano lamentato – la deficienza d’essere, l’insuccesso della retorica razionale ed etica, la tragedia dei tentativi di autodeterminazione, la lotta d’interessi di ognuno contro tutti – trovò una conferma così vivida da far impallidire ogni trattazione puramente teorica. Alla luce della crisi inedita che attraversava l’Europa, le elucubrazioni del 1910 sembravano prefigurare la loro stessa futilità storica.

C’erano anche delle ragioni interne per cui le dinamiche teoretiche del 1910 non erano destinate a svilupparsi. Su di esse non si poteva costruire molto. Non erano “utili” in vista dei bisogni sociali, politici ed economici dei paesi appena usciti dalla guerra. La “persuasione” di Michelstaedter e la “direzione” di Buber non indicavano direttive concrete per l’azione, modelli o sistemi funzionali, idiomi adatti all’agire pratico. Erano riflessioni utopiche sull’esperienza spaesata del presente. Allo stesso modo, la “bontà” di Lukács e lo “spirito” di Kandinsky erano incapaci di fornire moventi al comportamento mondano. Confusero distinzioni tra la verità e l’errore, il reale e l’apparente, la profondità e la superficie delle cose.

La mente europea accoglie la contraddizione solo se i suoi termini possono essere risolti in una posizione produttiva, in una qualche consonanza o, per così dire, in una terza “rivelazione” che vada al di là dell’opposizione delle due originali. E questo è proprio quello che non succede con le arti dissonanti del 1910. Le contraddizioni che incarnano sono prive, per usare le parole del Lukács marxista, di «dinamica propulsiva»[1] e si limitano a convivere «pacificamente l’una accanto all’altra»[2], senza consentire alcun avanzamento dialettico. Le scoperte del 1910 non stabiliscono basi per un progresso sociale o intellettuale. Si limitano a segnalare la fine di un certo modo di pensare e forse più fragorosamente nel loro appello a nuovi inizi. La persuasione e la rettorica di Michelstaedter e le armonie atonali di Schönberg, per citare due esempi, sono dettate dalla stessa decisione di rifiutare il desiderio stesso della risoluzione. Sono polemiche tenaci contro il mondo e i suoi modi di comprendersi. A rendere le cose ancora più complesse, le contorsioni formali delle loro opere mettono in atto la stessa dissonanza che fa loro da tema, senza fornire soluzione alla tensione da cui sono spinte […].

Cosa sarebbe potuto sortire dalle arti del 1910 se non fosse intervenuto lo shock della prima guerra mondiale è impossibile a dirsi; quello che è certo, tuttavia, è che non avrebbero potuto proseguire molto oltre lungo le strade che avevano intrapreso. Proponendosi profeti di una consonanza più raffinata di quanto il linguaggio potesse comprendere, i pensatori del 1910 divennero martiri della dissonanza che essi stessi avevano emancipato. La parola martire deriva dal greco martys (μάρτυς): una persona che testimonia, che confessa la natura di una situazione. Fu, ai primi del novecento, un pathos della verità che spinse alcuni a preferire di perire per le proprie scoperte che di comprometterle. «Non evitare alcuno scoglio» afferma Blumenberg, «un giorno si chiamerà “nichilismo eroico”»[3]. Lo si potrebbe anche chiamare nichilismo rivoluzionario, che si immagina i prerequisiti per una trasformazione epocale e crede che soluzioni possano trovarsi nell’evidenza della testimonianza stessa. Questa era l’“armonia” implicita nella dissonanza. E tuttavia tale martirio non fu sufficiente. Un’intera generazione avrebbe dovuto ripeterlo, anche se non con lo stesso grado di consapevolezza, convinta, per lo più, che il proprio impegno bellico servisse a una grande e nobile causa. La Grande Guerra fu un travestimento dell’idealismo sfrenato del 1910, un nichilismo privo di dimensione eroica, uno schiantarsi contro la barriera corallina solo per paura del mare aperto.

Appare ormai chiaro che una delle cose più pienamente comprese nel 1910 fu il fraintendimento – la sua vasta profondità e promessa. È questo fraintendimento che faceva sembrare il futuro così incerto. «Il mondo» scrive Franz Marc nel prologo al previsto secondo volume de Il cavaliere azzurro «sta partorendo una nuova epoca. Solo una questione rimane: è già arrivato per noi il momento di prendere le distanze dal Vecchio mondo? Siamo pronti per una vita nuova[4]. In questa, l’ultima epoca tragica dell’Occidente, in pochi lo erano […].

Che ne fu dei tratti principali dell’espressionismo nello scenario post-bellico? L’idea della dissonanza come veicolo per l’espressione etica e artistica si perse proprio in quelle illimitate possibilità della forma che l’arte presto si sarebbe arrogata. Si perse quando l’arte prese a concepirsi come un ambito di inesplicabile e irrefrenabile creazione, che i suoi nuovi temi fossero i mondi caduti del quotidiano e l’“inartistico” (Marcel Duchamp), la futilità delle sue aspirazioni (dadaismo) o la promessa di una rivelazione spontanea e inconscia (surrealismo ed espressionismo astratto). Laddove questi temi non incontravano forti tendenze contrarie, l’arte non veniva più alle prese allo stesso modo con gli attriti che in passato l’avevano alimentata. Al più rifletteva una dissonanza al di fuori di sé (attraverso un procedimento ben descritto da Adorno), associato al contesto storico. Non tematizzava più la dissonanza come possibile forma di un linguaggio singolare, forse proprio perché la nozione stessa di un linguaggio singolare era definitivamente perduta. Qui Lukács e Wittgenstein si dimostrarono profetici: non era più possibile invocare criteri per il “bello” e il “buono”. E questo significò che altri criteri vennero a prendere il loro posto: fervore immaginativo, ispirazione visionaria, dettami della morale o della volontà […].

Un’altra caratteristica del pensiero del 1910 – quel senso di negatività minacciosa e corrosiva alla base stessa del processo vitale – è fatta fuori, come si è già accennato, dalle trasformazioni concrete e materiali che subisce durante la guerra. Negli anni che seguono il 1914-1918, diventa impossibile riflettere sulla negatività secondo le modalità teoretiche e metaforiche del 1910. La deficienza d’essere significa adesso primariamente la scomparsa di milioni di vite, nonché le infinite piccole morti quotidiane dello sfruttamento sociale. C’è anche un avvertimento, in questa e nella successiva guerra mondiale, sui pericoli legati alle ossessioni per la negatività, appoggiate a polemiche contro il “malato” e il “peccaminoso”, il degenerato e l’infetto, il corrosivo e il mortale […].

Per quanto riguarda poi il problema dell’anima, dell’articolazione dell’anima, molti protagonisti del dopoguerra continuarono felicemente a credere di esprimere aspetti profondi e unici della propria personalità nell’arte. Paradossalmente, questo accadeva nelle stesse decadi in cui sociologi e psicologi di ogni genere sostenevano che, in un mondo costruito di relazioni pratiche e mercificate, nozioni come conoscenza di sé ed espressione di sé erano disperatamente anacronistiche. Il Novecento ha raggiunto una comprensione più complessa di quanto non fosse mai accaduto prima dell’homo politicus, coinvolto in apparati ideologici ed economici che rendono chimerico il progetto stesso di autodeterminazione. Da un bel po’ di tempo non c’è interiorità da esprimere, posto che mai ci sia stata – ma solo cose, dotate di una logica propria e intrinseca. Questa svolta dall’interiore all’esteriore era già riconosciuta negli anni Venti, quando la letteratura della Nuova Oggettività cercò di bilanciare gli impulsi confessionali dell’estetica espressionista riflettendo sulle loro basi socio-storiche. Fu sempre negli anni Venti che il documento profetico e ancora attuale dell’epoca post-soggettiva venne iniziato, e da un uomo che aveva in prima persona attraversato e superato l’espressionismo: L’uomo senza qualità di Robert Musil. Anche se l’espressionismo aveva messo in scena la fine della soggettività, il ventesimo secolo ha visto ideologie soggettiviste rinascere cronicamente, come se una simile morte non fosse mai avvenuta.

Il vocabolario etico che i pensatori cercarono di indebolire nel 1910 fu rafforzato negli anni successivi. La dissonanza, così come era stata descritta da Schönberg nel Manuale di armonia, era in sostanza una forma più remota di consonanza, un’affinità non scontata tra elementi dissimili. Emancipare la dissonanza fu in ultima analisi uno smascherare i limiti del pensiero rigido e categorico. Sia durante che dopo la guerra, opposizioni morali e ideologiche fiorirono come raramente prima. Visioni ‘necessarie’ per le anime e per le nazioni divennero aut aut monolitici. In Germania, in Italia e in Russia ­una consonanza forzata – tentativi di unitarismo sociale, per così dire – rispose alle dissonanze etniche e sociali che avevano contribuito a provocare la guerra […].

Dove ci porta tutto questo oggi, a cento anni di distanza? Se il principio del ventesimo secolo raccoglie le conseguenze di una storia tragicamente dicotomica, quello del ventunesimo secolo sembra nutrire un’aspirazione opposta: l’ideale di un mondo libero da resistenze, la moltiplicazione di opportunità per distrazioni illimitate, crociate infinite per maggiori possibilità e comodità. Oggi condividiamo ancora qualcosa con gli espressionisti? Il nostro mondo non è forse l’antitesi del loro?

Mentre gli artisti nel 1910 speravano che la propria opera scoprisse una “realtà autenticamente vivente”, oggi vediamo l’arte come un business tra i tanti, una redditizia produzione dell’industria dello spettacolo. Anche quando l’arte ha ambizioni più alte, difficilmente riesce a evitare la parodia, la satira o un moralismo didattico. Oggi è perfino difficile pensare la differenza tra persuasione e retorica. Il “pathos della verità” è stato sostituito dalla sete di lieto fine. Vogliamo le risposte senza le domande e immaginiamo di sopprimere gli ostacoli al desiderio attraverso una consonanza di volontà o una balcanizzazione di interessi e gruppi. Il materialismo, come gli espressionisti temevano, è diventato il metro di misura più sicuro della conoscenza e il pragmatismo il più affidabile criterio per la determinazione del valore. Non è proprio un’epoca per filosofi.

Per quanto riguarda la ricerca del Sé promossa nella prima decade del secolo, membri scelti della nostra società ricevono piccole fortune per istruirci su come comportarci, promettendoci in cambio miglioramenti morali ed emotivi. Il più delle volte, tuttavia, raccomandiamo simili analisi agli altri, invitandoli a riflettere su come loro possano essere responsabili delle nostre manchevolezze […]. In Europa la situazione è in qualche modo diversa, sebbene anche lì troviamo la stessa paura della paura, le stesse congiunzioni chimeriche tra compiacenza morale e intolleranza sociale, la stessa miscela di omogeneizzazione culturale e crisi dell’autonomia locale. In ultima analisi, la dissonanza caratterizza i nostri tempi tanto quanto gli anni che precedettero la Grande Guerra, anche se non è sempre altrettanto cosciente di sé. L’inizio del nostro secolo non è semplicemente l’antitesi dei primi anni del Novecento; ne è un’immagine specchio, un riflesso invertito […]. Si può solo sperare che, decenni dopo la caduta del Muro di Berlino, gli eventi non si limiteranno a parodiare quelli che portarono alla Grande Guerra, quando l’insicurezza sulla collocazione dell’individuo tra i suoi simili condusse a nuove tattiche di auto-affermazione. La mobilità, l’interdipendenza e la rapida trasformazione delle classi, delle etnie e delle nazioni nel ventunesimo secolo dà al discorso identitario dei primi del Novecento un sapore di falsità. Fa sembrare la dissonanza che vorremmo emancipare oggi (o rendere consonante a una regola?) qualcosa di ricreato artificialmente. Bisogna sperare che dei primi decenni del ventesimo secolo non facciamo nostro solo il loro ingenuo intento “espressivo”, ma anche la loro conoscenza negativa. Uno degli ideali del 1910 – in base al quale l’appartenenza potrebbe derivare dalla sua mancanza e l’auto-identificazione dipenderebbe proprio dallo sgretolamento di apparati di identificazione come gruppi sociali e le nazioni – potrebbe mitigare alcune nostalgie di carattere opposto […]. Nella dissonanza sociale e ideologica all’inizio del secolo scorso era effettivamente possibile prendere delle posizioni; la mortalità, la negatività e la perdita erano affine alla moralità, alla giustizia e alla costituzione stessa della visione. Detto in termini nietzschiani, l’Übergang dipendeva dall’Untergang, il superamento dal disfacimento. Una prospettiva simile impronta l’espressionismo post-sentimentale di Kandinsky e di Schönberg, che predilige le arti dell’astrazione, della ricombinazione e del non-figurativo a quelle della rappresentazione mimetica e della moralizzazione […]. Secondo un detto di Kandinsky, lo spirito del tempo era “come la natura dell’aria”, composto di corpi estranei. Se il concetto di identità individuale era indebolito dalla relatività, era anche rafforzato dalla stessa relazione. Abitare significava coabitare, essere a casa non essere al potere, maggioritarismo mutuo minoritarismo. Sotto ogni conflitto esterno giaceva un conflitto interno più profondo, conflitto che la retorica e l’ideologia cercano sempre di occultare. È proprio per questo, dice Scipio Slataper in una lettera del 1909 “ai giovani intelligenti d’Italia,” che si scrive: non per esprimersi, ma per «far chiaro dentro di noi»[5].


[1] G. Lukács, Le basi ideologiche dell’avanguardia, in Id., Il significato attuale del realismo critico, Einaudi, Torino 1957, p. 30.

[2] Ibidem.

[3] H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il mulino, Bologna 1985, p. 41.

[4] Citato in A. Vezin, L. Vezin, Kandinsky and Der Blaue Reiter, Pierre Terrail, Paris 1992, p. 209.

[5] S. Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, in «La Voce», 26 agosto 1909, n. 37, citata in G. Baroni, Trieste e La Voce, , cit., p. 50.

 

[Immagine:  Egon Schiele, L’abbraccio]

4 thoughts on “L’emancipazione della dissonanza

  1. Che siamo figli e nipoti delle grandi schizofrenie etico-culturali del secolo scorso e in uno stato ulteriore di accelerata decomposizione dei minimi sistemi di orientamento esistenziale ce lo segnala la cronaca quotidiana di gratuiti ammazzamenti post-surrealistici e minacce internazionali di reciproca sopraffazione atomica.
    Oltre la dissonanza occorre misurarsi coi veleni corrosivi della dissolvenza di apparati ideologici e referenti religiosi dell’antico e recente passato, che sgretolano definitivamente le categorie occidentali di soggettività e oggettività, individuo e società, etnia ,storia e cultura.
    Non è dietro l’ostentata bandiera della globalizzazione planetaria che troveremo lo scrigno nascosto di nuovi principii di rigenerazione spirituale , né si può prevedere la durata dell’attuale penombra e transizione a un nuovo sistema di equilibrio antropico ed ecologico.
    L’unico codice di comportamento morale e politico oggi possibile si può fondare sulla dura resilienza nei confronti della pervasiva opera di disgregazione pre-apocalittica a cui siamo sottoposti e sull’impegno fedele
    alla preparazione di ciò che vi sopravviverà.

  2. Perché non menzionate il nome del traduttore, pur usando nella nota introduttiva l’espressione “traduzione italiana di 1910:…”? Per caso è stato pubblicato da Castelvecchi in lingua originale? E questa postfazione, l’ha scritta Harrison in italiano? Riconoscete il lavoro svolto dal traduttore, please, almeno voi rivista che non avete alcun motivo per non farlo.

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