Traduzione di Federico Italiano
[Insieme al poeta tedesco Jan Wagner, Federico Italiano sta curando un’antologia della giovane poesia europea. Il volume, che raccoglierà le voci più rappresentative del nostro continente (inteso, geograficamente, quale unità inclusiva, porosa e per quanto possibile antigerarchica), uscirà presso la casa editrice Hanser, col patrocinio della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung, entro la primavera del 2019. LPLC presenterà in traduzione italiana alcuni dei poeti selezionati, puntando in particolare su autori poco o per nulla noti in Italia. Per evitare ripetizioni con l’antologia madre, Italiano cercherà di proporre in questa sede testi diversi da quelli prescelti per il volume Hanser. Le poesie del primo poeta antologizzato, Vicente Luis Mora, sono apparse su LPLC lo scorso giugno].
Nata nel Sussex (1974), Sasha Dugdale è considerata “uno dei poeti più originali della sua generazione” (Paul Batchelor, The Guardian). Assai apprezzata anche come traduttrice di poesia e teatro, in particolare dal russo (ha tradotto, tra gli altri, Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov per la BBC Radio e le poesie di Anna Achmatova e Marina Cvetaeva), Dugdale dirige dal 2013 la rinomata rivista londinese Modern Poetry in Translation, fondata nel 1965 da Ted Hughes e Daniel Weissbort. (Questo autunno lascerà il posto a un’altra brava poetessa inglese, Clare Pollard). Dugdale è autrice di tre raccolte di poesia, tutte edite a Manchester, per i tipi di Carcanet, Notebook (2003), The Estate (2007) e Red House (2011). Per questo novembre è attesa l’uscita di Joy, sua nuova raccolta, il cui omonimo poemetto d’apertura ha già riscosso successo tra gli addetti ai lavori, venendo insignito del Forward Poetry Prize 2016 per la migliore poesia singola.
Le tre poesie qui rese in italiano sono tratte da Red House. Come gran parte della raccolta da cui provengono, sono testi che incantano e perturbano al tempo stesso, per il modo in cui coniugano motivi di graziosa quotidianità a toni onirico-apocalittici, per le cesure inaspettate e vertiginose, per le combinazioni di metro e rima, che lasciano sempre qualcosa d’aperto, come porte appena accostate. Sono componimenti ubiquitari, che oscillano esplicitamente tra la tradizione poetica inglese e quella russa, come ha fatto notare Paul Batchelor, citando proprio una delle poesie qui proposte, Coro mattutino: “Quartine, rime e tema pastorale sono squisitamente inglesi, ma la gamma dei toni è alquanto diversa e l’immagine [contenuta nell’ultima quartina] si complica con quel carbone ardente, che viene da ‘Il Profeta’ di Puškin. È come se Edward Thomas [uno dei maggiori poeti inglesi del primo Novecento, inspiegabilmente poco noto in Italia] venisse trascinato in una conversazione con la Cvetaeva”.
Coro mattutino
29 Marzo 2010
Ogni giorno da che il tempo è cambiato
Mi sveglio al coro mattutino, e ancora
Prima che risuoni, lo sogno in tutto
Il suo rauco, incredibile, insolente boato
E una volta mi alzai e spiegai le tende
Figurandomi alle finestre frotte
Di uccelli atterriti premere come passeggeri
Ma il giardino era vuoto ed era notte
Non una scia di luce all’orizzonte
Benché gli uccelli urlassero funesti
Invisibili nel fosco
Un milione di mini-evangelisti
Le gole strinate e gonfie di canto
Cantavano come se ognuna avesse inghiottito un tizzone
Dìssone come piace al mondo oscuro
Che appartiene ai viaggiatori e all’insonne
***
Dawn Chorus
March 29, 2010
Every morning since the time changed
I have woken to the dawn chorus
And even before it sounded, I dreamed of it
Loud, unbelievably loud, shameless, raucous
And once I rose and twitched the curtains apart
Expecting the birds to be pressing in fright
Against the pane like passengers
But the garden was empty and it was night
Not a slither of light at the horizon
Still the birds were bawling through the mists
Terrible, invisible
A million small evangelists
How they sing: as if each had pecked up a smoldering coal
Their throats singed and swollen with song
In dissonance as befits the dark world
Where only travelers and the sleepless belong
***
Maldon [1]
E lì sulla costa, come una lanterna cinese, pendeva il sole.
Qualunque cosa tu faccia, non lasciare che prosciughino la penisola
Per mescolarsi con uccelli e limi, disse la saggia donna.
Poiché lì loro diventeranno noi – corpo del nostro corpo
Sangue del nostro sangue. E le loro e le nostre carni penderanno
Dai cespugli, come maglia di Mida. Gole morte
S’infratteranno come ragnatele tra la carice, sussurrando
Di come i vincitori portarono pinze ai denti, trinciandone fuori incantesimi.
Nessuno è rimasto a ricordare le donne, ma erano cerve
Veloci e impaurite, che balzavano ai lati, stordite da un pugno.
E quando sorgerà il sole, ai nostri antenati sembrerà che una nuova
Razza sia affiorata dal mare, intrisa d’oro, più crudele dell’ultima.
***
Maldon
And there on the coast like a Chinese lantern hung the sun.
Whatever you do, you should not let them pour off the half-island
To mix with the birds and the silts, said the wise woman.
For there they will become us – body of our body
Blood of our blood. And theirs and our flesh will hang
On bushes, like the undershirt of Midas. Dead throats
Will shirk in the sedge like spiderwebs, whispering
Of how the victors took pliers to teeth and chopped charms out.
No one left to remember the women, but they were deer
Fleet and hunted, springing sideways, stunned by a fist.
And when the sun rises, it will seem to our ancestors that a new race
Has come up out of the sea, dripping with gold, crueller than the last.
***
Forse l’Achmatova aveva ragione
Quando scrisse chissà quale pattume
Che cumulo, che pila di rifiuti
Fa sì che un verso delicato spunti
Come pànace, come la gallina grassa
Nell’aia, come il presente che non passa
Chissà che male, quale controversia
Che vita di miseria
E come dolce s’attorciglia al rotto davanzale:
Impellenza, un altro modo per dire succiamele.
Ma casalinghe? La poesia è mai
Discesa nel catino, l’hanno mai
Scorta sotto il tavolo, nel lavello
O montare nel forno, soverchiando tranquilla-
Mente l’aspirapolvere col suo latrare?
Ci preme più che la pappa serale
Più dell’improvviso, insonne vagito?
Lo ha mai fatto?
Vive. Alligna
Come la più implacabile gramigna
Cresce selvaggia mentre il frugoletto
Invecchia, e sputa sui sogni, vi ho detto
Di come prosperi nel cereo nido familiare
O di come la metrica si lasci misurare
Meglio dove ferisce:
Con il calcagno del ferro da stiro
Sul petto riluttante
Di talune camicie?
***
Perhaps Akhmatova was right
When she wrote who knows what shit
What tip, what pile of waste
Brings forth the tender verse
Like hogweed, like the fat hen under the fence
Like the unbearable present tense
Who knows what ill, what strife
What crude shack of a life
And how it twists sweetly about the broken sill:
Pressingness, another word for honeysuckle
But housewives? Has poetry
Ever deepened in the pail
Was it ever found in the sink, under the table
Did it rise in the oven, quietly able
To outhowl the Hoover?
Does it press more than the children’s supper
The sudden sleepless wail?
Did it ever?
It lives. It takes seed
Like the most unforgiving weed
Grows wilder as the child grows older
And spits on dreams, did I say
How it thrives in the ashen family nest
Or how iambs are measured best
Where it hurts:
With the heel of an iron
On the reluctant breast
Of a shirt?
[1] N.d.T.: La poesia allude a una battaglia tra vichinghi e anglo-sassoni, combattutasi il 10 agosto 991 presso Maldon, nell’Essex, sulle rive del fiume Blackwater. Della battaglia, vinta dai vichinghi, narra anche un poemetto anonimo, di cui si è conservato solo un frammento di 325 versi; scritto in inglese antico non molto dopo la battaglia stessa, è considerato uno dei capolavori della letteratura anglosassone prima della conquista normanna.
[Maria Svarbova, Swimming Trinity Series]
db
come detto: superiore
sempre su achmatova
perché lo strabizzarro:
. . . . . . . . . . tranquilla-
Mente ?!
Spero che l’antologia di Italiano riesca a distinguersi dal “pensive wankers” ormai dominante nel mainstream poetico occidentale.
girando intorno a tranquilla-
Mente (vv. 11-15 della terza
poesia) fatico a seguire la tr-
aduzione. in italiano suona:
Ma casalinghe? La poesia è mai
Discesa nel catino, l’hanno mai
Scorta sotto il tavolo, nel lavello
O montare nel forno, soverchiando tranquilla-
Mente l’aspirapolvere col suo latrare?
ma in inglese suona diversa:
But housewives? Has poetry
Ever deepened in the pail
Was it ever found in the sink, under the table
Did it rise in the oven, quietly able
To outhowl the Hoover?
i.e. in una versione… da colf
direi ( = men che di servizio)
Ma casalinghe? La poesia è mai
Divenuta più profonda nel secchio
Fu mai trovata nel lavello, sotto il tavolo
Salì nel forno, tranquillamente in grado
Di latrare più dell’aspirapolvere?
quintultimo verso dell’ultima pesia:
*come la metrica si lasci misurare*
misurare il metro : io non ci arrivo
: resto al lichtenberghiano coltello
senza lama cui manca il manico …
@db
Spezzare ‘tranquilla-mente’ non è poi così bizzarro. A mio avviso, offre più di quanto tolga: permette una parvenza di rima (in questo caso una ‘consonanza’) con ‘lavello’, conserva almeno in parte l’avverbio nel finale del verso e mantiene il doppio settenario. Ne soffre, forse, il verso successivo, che sarebbe potuto diventare un tondo endecasillabo, ma nel ‘latrare dell’aspirapolvere’ ci può stare anche il residuo di una parola precedente.
Per il resto, mentre le versioni di ‘deepened in the pail’, la tua e la mia, sono da un punto di vista semantico entrambe legittime, ‘rise in the oven’ è decisamente ‘montare nel forno’ (e non ‘salire’), nel senso molto concreto di torte o altri impasti che crescono nel forno. Sul sacrificio di ‘able’ a favore della musicalità si può invece discutere parecchio.
Il quintultimo verso è emblematico: sostituendo metonimicamente i giambi (‘iambs’) dell’originale con ‘metrica’ si ottiene un classico doppio settenario (con sdrucciola che chiude il primo). ‘Misurare’ sta qui ovviamente per contare, controllare, scandire le sillabe (o i ‘piedi’ della versificazione anglosassone).
sul trattino: “l’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto», mc. 10, 9. l’uomo è il traduttore e dio il poeta. dio ha (nella fattispecie aveva) davanti a sé possibilità infinite, e sceglie la migliore. che l’uomo si sostituisca a dio per scegliere la migliore (secondo) lui, è peccato. se il traduttore divide ciò che il poeta congiunge, è altrettanto peccato. dicendo “strabizzarro”, sono stato di mano (troppo) leggera. se il traduttore potesse arrogarsi il diritto di dividere a suo arbitrio, arriveremmo alla situazione paradossale che chiunque sarà in grado di sfornare versi di quasiasi metro: basta spezzare le parole appunto, e chiunque sappia almeno contare le sillabe diverrebbe un piccolo dante.
“deepened in the pail’. to deepen non ha affato il significato di “sprofondarsi”, ma solo di divenire più profondo intenso ecc. (cfr. l’oxford in rete). se lo avesse, sasha sarebbe un dio folle e crudele perché si contraddirebbe prendendo il traduttore i fondelli. fortunatamente è una dea umana, cristiana se si vuole, che intende farsi capire, e il suo comprensibilissimo discorso è: c’è chi dice che dal letame nasce il fiore (in ordine cronologico: eraclito, achmatova, de andré), ma è poi così vero? poniamo le casalinghe: dal letame quotidiano in cui devono sguazzare (secchio [non catino, achtung! cfr. l’oxford], sotto il tavolo, aspirapolvere, lavello: tutti oggetti bassi anche nel senso che non raggiungono la cintola di una donna) può nascere un fiore i.e. salire un canto? la risposta netta è no, contro gli altri tre di prima. la poesia in cucina rimarrà rasoterra o quasi: resterà nel secchio senza divenire per questo più profonda, anzi, da sotto il tavolo non si alzerà un bel niente, dal lavello idem, e con l’aspirapolvere, anche se provasse a esistere, non supererebbe (da super/sopra/in alto) mai il rumore di quello, e dunque ecc. Una domanda come: la poesia è mai discesa nel secchio? è semplicemente assurda perché dal secchio la poesia, supposto che stesse, in ogni caso non salirebbe mai.
“rise in the oven”. rise è salire. come sottospecie c’è il montare/crescere,/alzarsi di livello (accezione VI,1. nell’oxford).posto che la poesia sia una torta, montare è meglio di salire, ma neanche tanto. in cucina si dice (io dico almeno) indifferentemente: puoi controllare se la torta è salita/montata/cresciuta/si è alzata? tutt’altra cosa insomma dal controsenso del deepened/discesa.
il resto a dopo.
“soverchiando”. qui basta wikipedia: “il gerundio è un modo indefinito della lingua italiana utilizzato per indicare un processo considerato nei suoi riferimenti ad un secondo avvenimento”. questo secondo avvenimento qui è il montare della poesia, e perciò: mentre sale nel forno, soverchia l’aspirapolvere: sono due azioni contemporanee. “able to” invece, in grado di, riguarda la possibilità, e cioè il futuro. se poniamo il secondo avvenimento al presente, il primo cioè sarà/potrà essere solo nel futuro. piuttosto diverso, direi.
“sostituendo metonimicamente i giambi (‘iambs’) dell’originale con ‘metrica’”. italiano cioè ritiene di avere operato una metonimia, dal concreto all’astratto/dal particolare al generale. l’operazione è la stessa nel caso intenda una sineddoche, e cioè la parte per il tutto. ora, il tutto della sineddoche, il genere della specie-giambo può avere più di un nome. me ne vengono in mente due, equivalenti per estensione: versi, poesia. ma la metrica è davvero il genere della specie-giambo? stando alla treccani in rete, no. la metrica èl’insieme di regole della poesia, non un suo equivalente. faccio un esempio: invece di infrazione dell’art. 22, posso dire metonimicamente infrazione della legge, ma non oltre, ossia non infrazione dei meccanismi costitutivi della legge – altrimenti si cade nel paradosso del barbiere, come puntualmente accade qui. alla domanda: come si misura la metrica? non si può rispondere, poiché non si può misurare la misura: è già tanto che con la misura si possano misurare i versi! né ovviamente si può cadenzare la metrica, che è la stessa cosa del misurarla. alla domanda: come? si può dunque solo rispondere: in nessun modo. eppure nel testo in esame un modo c’è, e sasha lo spiega bene.
comprendo l’intenzione del traduttore, di misurare/cadenzare i versi italiani, ma la forma arriva per il traduttore dopo il contenuto, che va innazitutto traghettato e rispettato: lessico, sintassi ecc. e qui purtroppo non ci siamo. per stare alla seconda metà della poesia:
se si traduce pressingless con impellenza, pochi versi dopo bisogna tradurre does it press con impelle, per non perdere una preziosa connessione/rimando. meno ricercati, si potrebbe usare: urgenza, urge. invece il verso suona, interrogativo: “ci preme più che la pappa serale”.
la pappa serale fa problema, perché stona con vagito, che è il pianto del neonato-lattante (v. treccani). o si tratta di un bambino che mangia la pappa serale (supper è cena leggera, magari di porridge ma non è detto) e di notte piange, o di un neonato-lattante che vagisce e di sera non mangia la pappa, ma poppa. direi la prima, ma soprattutto consulterei un* madrelingua. frugoletto poi (per questione di rima suppongo) che invecchia, non si può sentire: il tuo bambino è parecchio invecchiato (per cresciuto) sbalordirebbe ogni genitore.
al sestultimo verso, “ashen” è tradotto con cereo, che significa o “di cera” o “color cera” ed equivale a pallido (riferito solo al volto), come cinereo significa o “di cenere” o “color cenere”. riferito al nido familire, va da sé che l’unica accezione sensata è quella di cinereo/”di cenere”. del quint’ultimo verso s’è già detto, restano da indagare gli ultimi 4. domani.
“Where it hurts:” col tradurre “dove ferisce”, essendo il verbo transitivo, si spinge il lettore a chiedersi: ferisce chi? in inglese però è solo una delle due accezioni di to hurt, l’altra essendo intransitiva e sinonima di “to ache”: far male – e qui la domanda che viene spontanea al lettore è: fa male dove? gli inglesi hanno il proverbio “the tongue always turns to the aching tooth”, che in italiano viene ancor meglio al caso nostro: la lingua batte dove il dente duole. se prendiamo la lingua-organo metonimicamente come lingua-linguaggio, il suo battere è proprio il cadenzare del verso precedente. la verità profonda detta da sasha è che il metro viene dal dolore e non da un vezzo, che il piede batte dove il cuore-corpo duole. ne va dell’arsi, come direbbe lacan ahaha, o come dice treccani: il tempo forte del piede, quello su cui cade l’ictus. questo cadere-picchiare va dritto, implacabile sul punto di sofferenza. e ciò è reso mirabilmente nel verso, nell’unico suo piede/arsi: whereithÙrts – ma altrettanto mirabilmente, per uno dei tanti mirabilia di babele, in italiano abbiamo l’eguale: doveduÒle. italiano invece, pur di fare un settenario, traduce: Meglio dove ferisce, tirando dentro bravamente best del verso precedente – come dire, per un piatto di lenticchie perde la primogenitura (la genitrice è sasha).
tutto questo ragggionamento, direbbe de mita, in sasha trascina/si fissa su un’immagine/metafora potente introdotta dai due punti, che dura per/occupa i tre versi finali. è come se/quando… o meglio: il piede picchia come quando, stirando…
“With the heel of an iron”. penso che a ogni lettore inglese medio qui venga in mente “the iron heel” di jack london. c’entra qualcosa? parrebbe di sì, anche a star solo alle parole che feltrinelli ha scritto in quarta di copertina: “letto da generazioni e generazioni di giovani di tutto il mondo, *il tallone di ferro* è uno dei più allucinati e veridici affreschi della società dominata dal profitto, dipinta nella sua durezza senza scampo, nella sua oppressione generalizzata, nei suoi impliciti e inevitabili sbocchi di violenza e massacro.* con sasha siamo a una tragedia analoga ma privata, all’infinitamente piccolo rispetto all’infinitamente grande di london. congiungere i due estremi è cosa di poeti, benjamin docet. quindi non “Col calcagno del ferro da stiro”, bensì: col tallone di un ferro (da stiro). senza da stiro i piedi sono due, come in inglese.
la situazione è drammatica, il dramma incombente è quello del classico incidente domestico, e le parti assegnate: un potere anonimo e sadico quasi (ma solo quasi) coincidente col destino; una vittima innocente, di cui si nomina metonimicamente il petto.
la vittima non è solo innocente: mostra il petto, come un partigiano davanti al plotone, ed è riluttante, i.e. “mal si adatta al volere altrui” (treccani): è – seppur passivamente – ribelle. e di chi è questo petto?
“Of a shirt” (di nuovo un piede solo, il colpo di grazia), sconsideratamente tradotto: “di talune camicie”.
e cosa/chi è per metonimia questa camicia? saha stessa.
detto questo, si è, non dico a metà, ma a 3/4 dell’opera. per rendere il servizio completo all’autore, bisognerà mettere in forma, i.e. tradurre. umilmente e provvisoriamente, ci proverò.
On the reluctant breast
Of a shirt?
Non vorrei sollevare un polverone, ma anch’io inciampo come db su “Mente l’aspirapolvere col suo latrare?”
Senza il testo inglese, avrei letto, lettore distratto, ignorando il trattino, che la poesia soverchia tranquilla e che la casalinga si chiede “mente l’aspirapolvere?”
partito da tranquilla- / Mente, ero sceso fino alla chiusa. avendo ventilato una prova di traduzione, sono ora risalito fino all’incipit,. Devo fare dei rilievi lessicali:
v. 2 pattume. shit = merda
v. 3 pungolo. tip = mancia, suggerimento, puntale, discarica. qui evidentemente l’ultimo.
v. 5 penace. refuso per: pànace
vv. 5-6 gallina grassa / nell’aia. fat hen under the fence = farinello [piantina] sotto lo steccato
v. 6 presente che non passa. present tense = tempo [verbale] presente
v. 10 succiamele. honeysuckle = abbracciabosco (succiamele, nome scientifico orobanche; qui invece lonicera: questa si arrampica/attorciglia, quella no)
@db
Giacché l’annunci, sono proprio curioso di vedere come sarà la tua traduzione. Una versione in versi, che non tenga conto di rime e ritmo, però, non farebbe testo. Lo so che non è facile (e a volte non si cava che una semplice assonanza), ma è un’operazione necessaria. Se non si è in grado o non si ha il coraggio di farlo, meglio tenersi per sé lo pseudo-fedele mostriciattolo o fornire versioni in prosa. Questo entusiasmo tutto italiano, tra l’altro, nel celebrare traduzioni non in rima di poesie che nell’originale rimano eccome non lo capisco… Come se la rima sminuisse la serietà del testo; o, peggio ancora, come se ignorarla (attutendo con lei tutto il tessuto musicale del componimento) fosse meno grave di una forzatura del senso… Mah.
Grazie per aver cercato di farmi le pulci su ‘fat hen’. È un caso esemplare, che mostra bene, credo, dove traduzione tecnica e poetica possono differire. ‘Fat hen’, letteralmente ‘gallina grassa’, è come tu dici una pianta erbacea, il farinello (Chenopodium album). Esiste, tuttavia, un’altra pianticella selvatica molto diffusa, che può trovarsi, come il farinello, sotto gli steccati, la lassana (Lapsana communis), detta anche ‘gallina grassa’. La traduzione tecnica, dando ‘farinello’, ci azzecca con la botanica, ma perde l’immagine complessiva evocata dal verso. Quella poetica sacrifica la correttezza lessicale per rendere l’incastro perfetto tra senso, immagine e rima offerto dall’originale. Comunque sia, buon lavoro e non dimenticare Verlaine: “De la musique avant toute chose”.
Ora, mettendo da parte le enormi differenze che contraddistinguono i nostri rispettivi approcci alla traduzione poetica, mi pare chiaro tu sia un traduttore esperto. Mi piacerebbe sapere chi si cela dietro quest’acronimo, se non altro per evitare ogni volta che vedo comparire un tuo commento di pensare al logo della Deutsche Bahn.
bisogna intendersi, e per parte mia forse ho sbagliato a non esplicitare il mio, d’intento, nell’intervenire qui. l’obiettivo per me è: rendere un servizio all’autore. rispetto a ciò, è addirittura secondaria l’identità del traduttore. prendiamo il nostro caso: se dal thread ricaverai elementi utili per migliorare la tua traduzione, nessuno verrà a chiederti di nominare chi in qualche modo ti ha aiutato né tantomeno di versargli la quota parte di diritti editoriali. quanto temo, stando almeno al tuo ultimo commento, è invece che tu non voglia farti aiutare. lo desumo dal fatto che penace invece di panace sta ancora bellamente lì nel testo, quando basterebbe segnalare al gestore di cambiare una e in una a. mantenere la e, in italiano mi pare si dica protervia. un altro esempio per mostrare come mi comporto io (e mi comporterei se fossi te). se vai all’inizio del thread, noterai una cosa strana. lo copincollo qui:
db
1 ottobre 2017 a 13:41
db
come detto: superiore
la cosa si può spiegare solo in un modo: sono intervenuto, il gestore ha cancellato il mio commento (come saprai, i commentanti non possono qui cancellare o modificare commenti da loro già pubblicati) , e io ho commentato una seconda volta, iniziando con “come detto”: come detto prima/più sopra ovviamente (dove altro mai sennò?). e cosa avevo detto? di sicuro “superiore”, i.e. (svolgendo): queste poesie di sasha sono superiori alla media. un apprezzamento positivo, un complimento. ma ora: ti pare che il gestore va a cassare un complimento? sarebbe assurdo. la realtà, che sappiamo solo il gestore e io, è che nel commento cassato segnalavo un errore: all’ultimo verso stava scritto camice invece di camicie. allora il gestore ha corretto il tuo errore e cassato il mio commento. quando ho visto che il mio commento è sparito, come ho reagito? dicendomi: ovvio, era l’unica cosa da fare. lasciare tutto come prima sarebbe stato uno sconcio per te e indirettamente per sasha, correggere e lasciare il mio commento sarebbe stato un sconcio a me: il gestore mi avrebbe fatto fare la figura di un pazzo. agendo così invece, ha aiutato te e indirettamente sasha contando sul fatto che avrei capito: e difatti capito subito ho. potrei mentire su quest’ultimo punto, ma posso provare che no. ieri è morto arrigo stara e questo blog l’ha commemorato degnamente iuxta sua principia, ripostando cioè un suo contributo uscito tempo fa nel blog stesso. l’ho letto per la prima volta e ho trovato un errore marchiano che, conoscendo arrigo, può essere stato dovuto solo a incasinamento da/col pc, tipo quando si scrive una frase in un modo, poi la si cancella a metà, si riprende e si perde il contatto col prima. mi dispiaceva per lui, come esporre un corpo morto che chiunque (meglio qualunque coglione), passando, avrebbe potuto profanare. allora ho scritto un messaggio a italo testa (l’unico che conosco personalmente tra i redattori) segnalandogli l’errore (alla 17sima riga partendo dal fondo del 3° capitolo) e pregando di toglierlo al più presto. purtroppo italo non ha letto il messaggio, e stamane l’errore era ancora lì (ora non so). potresti chiedermi: perché non hai fatto lo stesso con camice? perché non ti conosco, a differenza di arrigo, che si è più che meritato in precedenza la mia piccola premura.
detto questo: affronterò, se del caso, i punti specifici da te toccati appena scomparirà dalla tua traduzione il penace. da lì capirò che tu sei qui non per sostenere a tutti i costi (e quali costi!) le tue posizioni, ma per migliorare.
qui, più o meno brevemente, toccherò due punti secondari (non riguardanti cioè la poesia achmatoviana) da te sollevati. quando dici che in italia ce l’abbiamo con la rima, intuisco di che parli, ma non mi riguarda. in ambito traduttorio, per me vale solo: se l’autore rima, cercherò di rimare al meglio pure io, altrimenti no. faccio un esempio personale quindi, di una poesia che ho tradotto poche settimane fa per un’antologia a venire di poeti russi del 900. quella in questione era ed è in rima (totale, non rapsodica come qui). la copincollo, in una versione non ancora finale (lo sarà il minuto prima della consegna). è di un poeta di pieno 900 che poco dopo avrebbe tirato le cuoia:
Dove io non esisto,
lì volare non visto,
dove andò il raggio, andare:
questo voglio provare!
Tu: qui, nel tondo irradia
– non c’è altra cosa bella –
e impara dalla stella
quel che luce significa.
La luce è desso, il raggio,
per questa unica ragione:
un balbettio, un viraggio
dette forze e passione.
quanto alla mia sigla, non ci tengo particolarmente, ma finché l’uso vige preponderatamente (in questo thread ad es. siamo in tre siglati i.e., togliendo te che ovviamente non conti, maggioranza bulgara), mi adeguo. appena il gestore cambierà le regole, mi adatterò ugualmente. la sigla comunue non dipende dalle mie iniziali: l’ho scelta come microsimbolo fallico, o più esattamente come simbolo microfallico.
pànace: giustizia è stata fatta (non importa da chi: se dal traduttore, dal gestore in sinergia) all’autore, che viene risarcito, non più costretto a patire una pena dell’inferno (penace = che procura pena, tormento; detto soprattutto del fuoco dell’inferno | treccani).
dei 5 punti dolenti da me individuati nei primi 10 versi hai colto il più lancinante o plateale che dir si voglia, il punto g, anzi gg: gallina grassa. gli altri però fanno capire come si sia finiti nell’aia (a prop. àia = area contigua alla casa rurale, di solito pavimentata in pietra, in mattoni o con un battuto di cemento, sulla quale si esegue la manipolazione e l’essiccazione dei prodotti agricoli | 3ccani – difficile che vi cresca la selvatica quanto fantomatica lassana di cui dopo, che comunque verrebbe presto rasa dai residenti, galli e galline in primis, contribuendo così per quanto involontariamente all’ingrasso dei volatili).
v. 2. tradurre shit con pattume è sintomo penso di lieve ossessione anale/taboo escrementizio (sconsigliabile frequentare aie, pollaie e letamaie). ad ogni modo, traducendo pattume ci si mantiene dentro il genere rifiuti, anche se merda appartiene al sottinsieme/specie dei rifiuti organici. (pattume = roba sudicia e inutile che si raccoglie spazzando, o che si ammassa per terra: “le galline razzolavano nel p., dinanzi agli usci”, Verga | 3cani). sasha mira appunto al genere tutto (il mondo di sotto, direbbe la ditta carminati-buzzi), piazzando tre sostantivi sufficienti a designarlo: il primo è merda, il terzo è pila di rifiuti, e il secondo/medio… tu traduci pungolo, ma pungolo non c’entra niente, è di un altro mondo: difatti = bastone che porta infissa a una delle estremità una punta di ferro e serve a pungere buoi o altri animali per stimolarli a procedere , oppure in senso metaforico = stimolo, sprone | 3cani. merda-pungolo-rifiuti non stanno insieme. invece merda-discarica-rifiuti sì, e rubbish tip (british , not american) = an area of land where people can dump things that are no longer useful.
l’incipit/ouverture viene bene e senza sforzo (l’italiano è musicale per natura, fin troppo), in un tempo che direi andante con moto (a prop. di musicalità, penso di fare meglio già nel verso iniziale). prima di andare coi 4 versi (che in sasha non sono rimati), una piccola precisazione sul macchinoso “fa sì che” (verosimilmente indotto da o inducente il pungolo di cui sopra): accezione unica di bring forth = to give birth to somebody; to produce something (she brought forth a son, trees bringing forth th fruit) – e “partorir versi” in senso vagamente ironico-peggiorativo è locuzione quasi idiomatica noi.
Perhaps Akhmatova was right
When she wrote who knows what shit
What tip, what pile of waste
Brings forth the tender verse
Forse aveva ragione l’Achmatova
Quando scrisse chissà che merda,
Che discarica, che ammasso di rifiuti
Partorisce il verso delicato
perché mai un verso invece che il verso? achmatova l’aveva scritto in generale, quasi come una legge (che però non conosce). e poi, suvvia, un po’ di rispetto per la dèa sasha: se ha scelto come soluzione migliore il determinativo, perché fare il contrario senza alcuna necessità metrica o altro?
così siamo giunti al v. 5, al limitar dell’aia: ma lasciamola riposare, sta gallina, sperando che brings forth un bell’uovo.
In altri tempi, alle gare di traduzione mi ci sarei iscritto con entusiasmo ma si fa vita selvatica e gli spunti restano isolati. La traduzione di Italiano e’ da poesia a poesia, quella di db appare precisa ma serve il testo intero. Saluti e buon lavoro a entrambi.
@Il fu GiusCo
Da poesia a poesia? La poesia può ignorare il fischio e farne un fiasco?
@giusco
“traduzione di Italiano e’ da poesia a poesia, quella di db appare precisa”: penso ti riferica ai primi quattro versi. stamattina ho proseguito e commentato, ma il mio commento non è ancora uscito. dopo i primi quattro versi, fornirò la traduzione degli altri sette che completano l’ouverture (dall’undicesimo, la poesia si fa donna).
sal: non essendoci in giro Montale ne’ Ripellino, questo e’. Italiano credo venga pagato per occuparsi di questo lavoro, se a me venissero proposti e pagati in anticipo cento+ euro l’ora per fare il traduttore su un progetto come questo, lo farei volentieri, se no sto qui come sesta o settima finestra Safari dell’iPad mentre faccio altro. Ciao.
@giusco
quando, confrontando i primi 4 versi di sasha, definisci la versione di italiano poetica e la mia precisa, non so ovviamente cosa tu intenda per poesia. però proprio da un commento qui sopra di italiano desumiamo cosa lui intenda per poesia, quando rivolto a me afferma: “sono proprio curioso di vedere come sarà la tua traduzione. Una versione in versi, che non tenga conto di rime e ritmo, però, non farebbe testo. Lo so che non è facile (e a volte non si cava che una semplice assonanza), ma è un’operazione necessaria. Se non si è in grado o non si ha il coraggio di farlo, meglio tenersi per sé lo pseudo-fedele mostriciattolo o fornire versioni in prosa.” qui italiano mi colloca apriori sul versante della prosa, e al contempo colloca se stesso sul versante della poesia, differenziandola dalla prosa per la presenza in essa di “rima e ritmo”.
ora, nel tuo giudizio sulle due versioni dei primi 4 versi, tu applichi esattamente il criterio di italiano: “la traduzione di Italiano e’ da poesia a poesia, quella di db appare precisa”, ossia prosastica.
se ti sei fatto un’idea d soli 4 versi, dovresti a maggior ragione essere in grado di confermare o mutare il tuo giudizio su me traduttore davanti a una poesia completa da me tradotta. e una l’ho postata ieri (senza titolo perché non ce l’ha). su questa t’invito a formulare un giudizio sperabilmente un po’ più articolato di un solo aggettivo, “precisa” appunto. per comodità, te la copincollo qui:
Dove io non esisto,
lì volare non visto,
dove andò il raggio, andare:
questo voglio provare!
Tu: qui, nel tondo irradia
– non c’è altra cosa bella –
e impara dalla stella
quel che luce significa.
La luce è desso, il raggio,
per questa unica ragione:
un balbettio, un viraggio
dette forze e passione.
@giusco
devo aggiungere: sono 3 quartine di settenari, tutti rimati a formare una rosa (il centro baciato è bella-stella). non so se ho passato l’esame di italiano, come non so se il gestore che mi ha tagliato il commento stamane ha passato quello di coscienza. so che ho rispettato in pieno rime e ritmo dell’originale: ma basta questo a fare (l’autore) e tradurre “da poesia a poesia”? se rispondi sì, sono pari (a dir poco) con italiano; se rispondi no, devi riconsiderare i tuoi parametri estetici. magari già qui.
Scusa db, non dispenso patenti e non si vince nulla. Italiano so chi sia da vent’anni e piu’ o meno so come lavora, di db su internet ne ho incrociato uno ma non so se tu sia quello (le sigle non sono firme) che frequentava i lit-blog gia’ dal 2000. Qui su lplc ho partecipato ad un paio di tenzoni come questa proponendo mie traduzioni all’impronta su Hopkins poi qui https://nabanassar.wordpress.com/2010/08/06/due-poesie-di-g-m-hopkins-tradotte-da-giuseppe-cornacchia/ e Larkin qui http://www.leparoleelecose.it/?p=20153 , dunque un’idea dei miei modi e’ altrettanto pubblica. Tuttavia non lavoro nel settore ed ho smesso, quindi pace. Saluti.
In poesia non è possibile separare la forma dalla sostanza. Non ci sono fatti da raccontare, concetti da rendere comprensibili. Niente si deve portare a conoscenza del lettore se non il semplice movimento del linguaggio, che certo genera musica e costruisce (evoca) immagini. Tutto vive nel corpo di una lingua (di quella lingua) e non può essere trapiantato. Tradurre un testo poetico (specialmente se in versi, o addirittura in rima) significa scrivere un’altra cosa.
@vannini.
posizione radicale che elimina il problema stesso: se la poesia tradotta è un’altra cosa, allora non resta che poetare in proprio. io personalmente non me la sento.
@giusco.
hai esordito con: “La traduzione di Italiano e’ da poesia a poesia, quella di db appare precisa”. pensavo fosse una patente. ho visto qui larkin tradotto da te. mi piace, ma italiano ti bacchetterebbe perché non hai tenuto la rima. quindi ritiro quello che ho detto: i tuoi criteri non coincidono con i suoi. e capisco che perciò non ti sia piaciuta la mia traduzione dal russo, che piacerà invece a italiano. il quale si è dichiarato curioso di come tradurrò sasha.ho dato in traduzione i primi quattro versi, ora spero di darne altri sei.
i vv. 2-3 presentano la catena triadica: shit–tip–waste. italiano traduce: pattume–pungolo–rifiuti, ma in realtà è: merda–discarica–rifiuti.
potremmo chiamarlo il mondo di sotto (per usare un termine della ditta romana carminati-buzzi). sasha gli sovrappone un mondo di sopra, un mondo di abitanti umani delineato nei vv. 5-9 con una seconda catena triadica: fence-shack-sill. italiano traduce: aia-miseria-davanzale, ma in realtà è: steccato-catapecchia-davanzale.
Tra i due mondi, quello di sotto e quello di sopra, vive o meglio vegeta quello di mezzo, delineato nei vv. 5 e 10 con una terza catena triadica: hogweed-fat hen-honeysuckle. italiano traduce: pànace-gallina grassa-succiamele.
della prima triade italiano ne imbrocca una,della seconda una, e della terza mezza (perché aveva scritto penace, e dovrebbe ringraziare me di averglielo corretto).
siccome italiano dei cinque punti da me contestati nei primi 10 vv. (cui se ne aggiunge ora un sesto, al v. 8: shack/catapecchia reso con miseria) ha difeso solo “gallina grassa,” la affronterò per prima.
italiano nel suo commento scrive: “è come tu dici una pianta erbacea, il farinello (Chenopodium album). Esiste, tuttavia, un’altra pianticella selvatica molto diffusa, che può trovarsi, come il farinello, sotto gli steccati, la lassana (Lapsana communis), detta anche ‘gallina grassa’. La traduzione tecnica, dando ‘farinello’, ci azzecca con la botanica, ma perde l’immagine complessiva evocata dal verso”.
mi domando quale immagine evocherà al lettore una “gallina grassa nell’aia”, ossia nell'”area contigua alla casa rurale, di solito pavimentata in pietra, in mattoni o con un battuto di cemento” che è notoriamente col pollaio l’habitat naturale delle galline…
nella nostra lingua, gallina grassa è il nome comune per la Lapsana communis, piantina selvatica nota per le sue proprietà depurative ed emollienti, in genere utilizzata – sia cotta che cruda – nelle misticanze di verdure, che si scova soprattutto nelle zone umide e ombrose e cresce anche incolta (da maggio a ottobre) lungo i muri e negli orti.” in inglese la lassana si chiama invece nipplewort (letteralmente: capezzolo curativo)
Fat hen gli inglesi chiamano il Chenopodium album, il farinello, che non ha le proprietà curative della lassana ed è particolarmente infestante (come del resto il pànace). pleonastico dire che né la lassana né il farinello allignano nell’aia, e se sventuratamente spuntassero dalle commessure, verrebbero immantinente rase da qualche gallina magra.
il resto domani. su ritmo e rima, che un traduttore secondo italiano deve rendere in italiano, ho postato una mia traduzione dal russo, su cui sarei curioso che si pronunciasse. per facilitargli il compito, la posto anche nell’originale (così vedrà i piedi e le rime).
О, как же я хочу,
Не чуемый никем,
Лететь вослед лучу,
Где нет меня совсем.
А ты в кругу лучись –
Другого счастья нет –
И у звезды учись
Тому, что значит свет.
Он только тем и луч,
Он только тем и свет,
Что шопотом могуч
И лепетом согрет.
@db.
La lingua italiana è fatta di parole quasi completamente chiuse. La vocale finale sigilla il suono e dà sempre una forma solida alla “cosa”. Diciamo che è una lingua fatta di parole-cose. Quindi “poetica” di per sé (pare che in poesia il diaframma tra parola e cosa debba essere il più possibile assottigliato). La lingua inglese è fatta di parole quasi completamente aperte (è un sussurrare filamentoso). A mio parere non è assolutamente possibile far passare suoni e immagini (prodotte da suoni) dall’una all’altra lingua. Si possono trasferire gli argomenti. Si può cercare di riprodurre un clima somigliante. Si può provare ad imitare, per così dire, la “postura” di chi scrive. Non altro. Se poi l’alternativa al tradurre sia il “poetare in proprio” non so dirlo.
@vannini
vedo con piacere che la tua posizione si è ammorbidita: aspetto un altro passettino verso la traducibilità (che poi significa possibilità di capirsi tra umani).
@italiano
con piacere vedo anche che nel post hai sostituito al v. 3 pungolo con cumulo, come già hai fatto col penace/pànace del v. 5 e con camice/camicie dell’ultimo verso. significa che segui il thread e accetti le critiche; quindi mi aspetto un tuo commento, che vada oltre la gallina.
a dominare nei 10 v. iniziali è la negatività: ovviamente negativissima la prima triade merda-discarica-rifiuto, e negativa la terza steccato-catapecchia-davanzaleROTTO, la quale fa blocco con una quarta: ill-streife-crude life, che italiano traduce con male-controversia-miseria. male è troppo generico, controversia troppo ristretto a un’azione, quando invece è qualcosa di abituale: come tradurre conflitto quando è conflittualità.
tanto meglio non va, quanto a negatività, con la seconda triade, la vegetale: hogweed-fat hen-honeysuckle, che italiano traduce: pànace-gallina grassa-succiamele. In realtà è pànace-farinello-succiamele [succiamele lo tengo provvisoriamente per buono, ma non è]. a differenza dalla lassana, che è edule e curativa (l’inglese capezzolo curativo appunto), sono tutte infestanti e danneggianti. diciamo che costituiscono un timido e precario tentativo di sfuggire alla negatività assoluta.
ora, la metafora-madre che governa le triadi è: triade4 : verso = triade1 : triade2 (dove la triade3 è logicamente sussunta in triade4).
sciolto in parole: una vitadimerda produce versi come una discarica produce piantine (chiamavo questa metafora eraclitea perché un noto frammento recita testualmente: anche un ammasso di rifiuti è un kosmos) – produce o può produrre.
allora aspetto qui italiano, perché il miglioramento dellla sua traduzione, che ha già portato tre buoni risultati, diventi una collaborazione a tutti gli effetti fra noi due: a guadagnarci, sarebbe sasha.
mi urge un detto di un poeta meraviglioso: “pensare logicamente significa meravigliarsi senza fine”.
Mi sembra un buon servizio alla poesia, e alla sua autrice, che si sia sviluppato questo dibattito – approfondito – sulle traduzioni possibili rispetto al testo di partenza. Difendere le ragioni di una traduzione – o accettarne anche cambiamenti e varianti – è un esercizio essenziale per entrare nel senso, meglio, nella intenzionalità di un testo poetico.
Arno Schmidt e Paul Celan
Ok
L’altro partito è partito? Italiano ritorna solo per modificare la traduzione, senza ringraziamenti di sorta?
Tradurre (da traducere) significa trasportare.
In genere quando si trasportano oggetti di un certo valore si cerca di farli arrivare intatti. In “prosa narrativa” si possono trasportare agevolmente i fatti, le circostanze, la psicologia dei personaggi, la descrizione degli oggetti… Cioè tutto quello che non appartiene alla materia propriamente linguistica di un testo. Ma, ripeto, la poesia non sta in nessuna di queste cose agevolmente trasportabili.
@Roberto Vannini, visto che ti piace questa cosa del “trasportare”, mutuata forse dal “traghettare” usato da Walter Benjamin, cito qui, en passant, dal latino, i concetti di aliud, peius e minus* per esplicitare il difetto di conformità al contratto di trasporto, in caso di consegna di un bene diverso da quello ordinato o di spedizione in quantità minore o qualità cattiva.
*Aliud = fischi per fiaschi. Peius = fiaschi di cattiva qualità. Minus = fiaschi mancanti.
@vannini. vedo che sei tornato al punto di partenza. contento te…
@sal. qui, spero, non ci sono partiti, ma vedute diverse su fatti lessicali. al limite, tanto più verrà corretta la traduzione, tanto meglio sarà per sasha e per i suoi lettori italiani.
penso che italiano interverrà: sarebbe altrettanto bello che della redazione intervenissero due membri, i quali sono traduttori bravissimi dall’inglese: damiano abeni e franco buffoni.
avevo anticipato il succiamele: prima, en passant, un appunto al “tempo che non passa” di v. 6. . lodevole l’intenzione della rima – ma se tiriamo il collo alla gallina grassa, lascia il tempo che trova: present tense è il tempo verbale presente.
honeysuckle = lonifera, famiglia delle caprifoliaceae, nomi comuni: madreselva, vinciboschi.
dall’inglese antico hunigsūce (honey, suck), designa tubular flowers, which are sucked for their nectar. le api cioè succhiano il miele dei fiori della lonifera, ergo
succiamele: da succiare e mèle (variante pop. region. di miele), altro nome delle orobanche.
meraviglia della lingua, lo stesso termine designa due piante diverse (accomunate ovviamente dalle visite che ricevono). quanto siano diverse, l’eventuale lettore lo vedrà digitando lonifera e orobanche.
Quanto va detto qui però è che il nostro succiamele: 1- non si attorciglia perché è dritto come un fuso; 2- arrivando a un’altezza di max 50-60 cm non raggiungerà mai un davanzale seppur sito a pianoterra (a meno che sasha non sia biancaneve e la catapecchia quella dei 7 nani).
la cosa curiosa è che italiano, nemico della lettera, qui è stato sin troppo letterale – come quel tipo al mio paese che cantava a squarciagola una famosa canzone di sinatra traducendola: stringersi in un night.
@db
E io noto con piacere che i tuoi commenti sono divenuti col tempo più pacati.
Ogni traduttore, me compreso, entrando per la prima volta in un altro testo e in un’altra lingua, cerca per prima cosa significato (signatum), lanciandosi spesso in favolose letture ancillari (quale traduttore non consulta con piacere, quasi in deliquio, dizionari ed enciclopedie?) e, quando pensa di averlo afferrato, si entusiasma come un neofita difronte al nuovo dio. Non è un caso che ritorni così spesso nelle tue prime glosse la dimensione religiosa dell’originale. Poi, col tempo, ci si calma, si ponderano le varianti, l’orizzonte sembra meno ovvio di quel che si pensava, e quanto si porta a casa non è più così bello come la solenne promessa dataci dalle gerarchie del dizionario. Eppure, è proprio qui che si comincia a tradurre. Qui il “linguaggio” comincia a muoversi, come bene suggeriva @Vannini, citando, en passant, un bel libro di Friedmar Apel.
La traduzione ha varie fasi. Una delle prime, sia in senso cronologico-operazionale sia in senso ermeneutico, è quella della “ricognizione”. È una fase cartografica, di rilevamento. In questa, non vedo grandi discrepanze tra me e te, anzi, trovo le tue “mappe”, db, largamente condivisibili. Le prime avvisaglie di differenza tra noi due emergono nella fase successiva, quella propriamente ermeneutica della comprensione. Tu tendi qui a separare significato e significante, con un gesto legittimo ma arbitrario, soprattutto in poesia, mentre io provo a tenerli insieme. È questo il punto in cui prendiamo strade diverse.
“Cumulo” ne è in parte un esempio. Tu mi hai fatto notare che “pungolo” non ci azzecca nella catena isotopica e che la traduzione giusta di “tip” dovrebbe essere “discarica”, nel senso usato in UK di “rubbish tip”, in linea con “shit” e “pile of waste”. In questo caso, ho riconosciuto la superiorità della tua “mappa” e corretto “pungolo” con “cumulo”. Ora, perché non “discarica”, a questo punto? Perché non produrrebbe ciò che considero fondamentale in una traduzione poetica – la reciprocità. Con “cumulo”, oltre a salvaguardare la corrispondenza in termini di ritmo (accento sulla seconda sillaba) e metro (endecasillabo), sono anche più vicino al senso proprio di “tip” (letteralmente: estremità, punta, bordo, ecc.), che non significa di per sé discarica, ma che è venuto idiomaticamente ad indicarla attraverso un processo metonimico (di contiguità).
Un discorso simile potrei farlo per tutti gli altri punti da te sollevati, cominciando da “shit”. Mi manca ora il tempo di farlo.
@Sal
Non sono sparito. Al momento sono semplicemente molto preso anche su altri fronti. A parte il lavoro immane in termini di lettura per l’antologia “madre” (di cui quello che pubblico qui è solo un piccolissimo assaggio per il pubblico italiano, dato che l’antologia uscirà nel 2019 in Germania), questa settimana avrà luogo qui a Vienna una conferenza sul lato oscuro della traduzione da me concepita e organizzata, cui ora devo dare precedenza https://www.oeaw.ac.at/en/ikt/events/event-details/article/the-dark-side-of-translation/
Anche per questo chiedo già scusa in anticipo se non potrò rispondere celermente a eventuali futuri commenti.
@Federico Italiano
Grazie per la risposta. Una modesta proposta: si potrebbe scrivere “traduzione in progress”?
Si eviterebbe, così facendo, “il difetto di conformità al contratto di trasporto” di cui parlavo sopra.
@italiano
scrivi: *Ogni traduttore, me compreso, entrando per la prima volta in un altro testo e in un’altra lingua, cerca per prima cosa significato (signatum), lanciandosi spesso in favolose letture ancillari (quale traduttore non consulta con piacere, quasi in deliquio, dizionari ed enciclopedie?) e, quando pensa di averlo afferrato, si entusiasma come un neofita difronte al nuovo dio. Non è un caso che ritorni così spesso nelle tue prime glosse la dimensione religiosa dell’originale*.
mi verrebbe da rispondere: parla per te, nel senso che in questa fenomenologia del traduttore non mi ci ritrovo. individui però un punto centrale, quando dici che la mia postura d’avvio è religiosa. ribadisco: di fronte al testo per me l’autore è dio – non un dio, ma il solo dio. di più, io mi sento chiamato ad essere il suo apostolo in partibus infidelium, a propagare cioà in italia la sua buona novella.
non tutti sanno forse che diderot, tra le altre cose, emendò con successo un passo delle satire di orazio (il testo in cui lo dice si chiama “satire première”, e lo conosco abbastanza bene in quanto l’ho tradotto per i tipi de “il ragazzo ubiquo”), spiegando anche il ragionamento grazie a cui ci arrivò. il verso, a suo dire, era loffio, senza sugo. e allora pensò: possibile che orazio abbia scritto questa schifezza? fece un atto di fede nel suo dio orazio (essendo ateo lo chiamava genio), si concentrò concentrò concentrò… e alla fine: spostando la virgola contenuta in quel verso, questo risultò smagliante i.e. prettamente oraziano.
questo nanetto de nobis narratur. quando italiano traduce i vv. 2-3 con
Quando scrisse chissà quale pattume
Che cumulo, che pila di rifiuti
sono contento che abbia gettato il pungolo (mi avesse ringraziato, sarebbe stato perfetto), ma non è detto che ora la traduzione funzioni. tradotti così, danno un chiasmo
pattumi cumulo
X
pila rifiuti
come chiasmo però è proprio loffio, perché pattume e rifiuti, come cumulo e pila, sono due coppie di sinonimi. se io, come diderot con orazio, pongo che sasha è una dèa, mi cascherebbero le braccia davanti a questo chiasmo, penserei che ha allungato il brodo, e dio non allunga brodi, fossero pure di gallina grassa.
[INCISO: sto ovviamente parlando di un dio minore, di cui il traduttore è figlio. Uno potrebbe obiettare: io mica lo considero un dio, e neanche un dio minore. e io gli risponderei: perché mai lo traduci allora?]
quindi, avendo io fede in sasha, prima di apostatare ci penso su non una, ma dieci volte (v. d.d.).
intanto comincio dicendo merda alla merda.
poi osservo: ora merda ≠ rifiuti, ma cumulo = pila. se ho ragione io a tradurre merda-cumulo-pila-rifiuti, sasha rimane loffia, perché scrivendo “che, cumulo, che pila” allunga il brodo per ritmare il verso.
torno al bocabolario (così, con un certa pertinenza, lo chiamano al mio paese), e vedo che tip non è cumulo, ma discarica (proprio in inghilterra, non in usa), e sasha è guardacaso inglese.
sai già come è andata a finire: resistendo, credendo in sasha, ho scoperto le 4 triadi metonimiche (come d.d. ha scoperto con partecipe meraviglia ecc.).
con ciò non ho ancora tradotto un bel niente, ma se ora non rispettassi le triadi (dea una e trina dunque, sta sasha), mi sentirei un verme.
la postura iniziale di italiano è l’opposta della mia. lui è così politeista che alla fine non ci sono più dèi perché… son tutti uomini (come quel casato le cui origini erano così antiche che si perdevano nel tempo).
c’è però un dio, a sbrogliare la situazione – ed è un dio italiano.
ora devo lasciare: ho un convegno urgente col e sul mio lato oscuro.
tornerò stasera, se interessa e la redazione me lo consente.
Grazie per la dedizione di chi scrive. Da una traduzione è nato un viaggio nella traduzione in cui sto imparando tantissimo. Db ci guida a trasformare la traduzione in un’opera critica di scoperta e dialogo.
A margine, ma non troppo.
Sul tradurre “religioso”. La religione del libro si fonda su un patto – giuridico, appunto – tra un dio e un popolo di futuri lettori. Partendo dai 10 comandamenti della lettura, c’è tutta una storia fatta di interpretazioni del testo. Credere nella sua “intraducibilità” sarebbe feticismo, una metafisica per non-lettori: “L’intraducibilità è una condizione storica modificabile” (Henri Meschonnic).
Nemmeno io saprei rispondere alla domanda iperbizzarra “mente l’aspirapolvere col suo latrare?” né a quella generale: può la prosa della vita quotidiana (shit) generare versi?
Nel frattempo data la traduzione in progress mi aspetto un’alternativa a “succiamele” che mi sembra pericolosamente romagnolo
@italiano
dunque secondo te ogni traduttore inizia una traduzione *lanciandosi spesso in favolose letture ancillari (quale traduttore non consulta con piacere, quasi in deliquio, dizionari ed enciclopedie?) e, quando pensa di averlo afferrato, si entusiasma come un neofita difronte al nuovo dio*.
questo periodo ha tutto il tono di un ricordo d’infanzia, del ragazzino che colleziona francobolli e sogna… io sono troppo vecchio per ricordarmene, ma temo tu sia troppo vecchio per liberartene (bambinone?).
per me il lessico di una poesia è l’insieme di pietre su cui dovrò costruire con fatica la “mia” chiesa – per te è sabbia da paletta e secchiello.
io sono muratore con scarse probabilità di successo (del resto palladio non era nemmeno geometra). so già però in partenza che, se le pietre comincio a limarle, tagliarle, sbriciolarle, la cattedrale crollerà.
una volta acquisite le pietre, cerco di sistemarle in modo che si sorreggano a vicenda al meglio: mai provato un muro a secco? ecco, uguale.
andiamo all’esempio unico scelto da te, la discarica (con shit ti troveresti più a disagio): *Tu mi hai fatto notare che “pungolo” non ci azzecca nella catena isotopica e che la traduzione giusta di “tip” dovrebbe essere “discarica”, nel senso usato in UK di “rubbish tip”, in linea con “shit” e “pile of waste”. In questo caso, ho riconosciuto la superiorità della tua “mappa”*.
si può dire in due parole: ho cannato, grazie dell’indicazione. o più forbitamente: ho preso la pietra sbagliata.
*e ho corretto “pungolo” con “cumulo”. Ora, perché non “discarica”, a questo punto?*
appunto, me lo domando anch’io, ché resta una bella differenza lessicale tra cumulo e discarica, quantomeno di parte a tutto.
dài due spiegazioni appaiate.
la prima è contenuta nella frase principale e dovrebbe essere quindi la più importante: *Con “cumulo”, sono più vicino al senso proprio di “tip” (letteralmente: estremità, punta, bordo, ecc.), che non significa di per sé discarica, ma che è venuto idiomaticamente ad indicarla attraverso un processo metonimico (di contiguità).*
in una parola: fregnacce. in due: ragionamento capzioso. in tre: arrampicarsi sugli specchi.
La verità è che qui, come in almeno una dozzina di altri casi in questa sola poesia, sacrifichi senza tema il lessico a quello che t’interessa realmente e che riveli nella secondaria: *oltre a salvaguardare la corrispondenza in termini di ritmo (accento sulla seconda sillaba) e metro (endecasillabo)*. vediamo:
Perhaps Akhmatova was right
When she wrote who knows what shit
What tip, what pile of waste
Forse l’Achmatova aveva ragione
Quando scrisse chissà quale pattume
Che cumulo, che pila di rifiuti
delle tre pietre, la prima la butti (shit), la terza la tieni (pile), la seconda la modifichi (tip) rendendola uguale a alla terza. tutto perché così non saranno quelle di sasha, ma almeno tengono, stanno insieme.
non è poi così difficile: qui non hai vincoli di rima, per la semplice ragione che in sasha non c’è.
vuoi tenere l’endecasillabo (te l’ha ordinato il dottore?), e con cumulo lo ottieni facile (per fare un endecasillabo del v. 2, invece del corretto “chissà che merda” hai dovuto allungare con “chissà quale pattume” da 4 a 8 sillabe, mica poco) e col giusto ritmo.
piccolo particolare, hai perso il lessico, rendendo il v. 3 scialbo in quanto ripetitivo (cumulo = pila), cosa che non è da sasha. io invece non avrei mai mollato discarica, sistemando la struttura così:
Forse aveva ragione l’Achmàtova
quando scrisse che merda
che mucchio di rifiuti, che discarica
soo pronto a spiegare perché secondo me questa versione dei primi 3 vv. è migliore di quella di italiano – se qualcono me lo chiede o meglio ancora se italiano interviene.
credo che non ci sia testo non traducibile, credo quindi che anche la poesia può essere espressa in qualunque lingua del mondo e quindi “convertita” da una lingua ad un’altra. Non sono una traduttrice e forse dovrei aggiungere per fortuna, atteso che il lavoro del traduttore è, per me, un’impresa titanica, un po’ come quello dell’attore: deve essere due persone allo stesso tempo, cercando, per quanto umanamente possibile, di non essere se stesso. Perché se l’autore è dio, chi lo traduce non lo è. Ricordo le traduzioni dal latino e dal greco che svolgevo al liceo in classe e ricordo che, per quanto usassi il vocabolario in modo quasi ossessivo, finivo sempre col tradurre col mio sentire. Ma lì, al massimo, rischiavo un brutto voto. Io non sono un traduttore e certo in questo dibattito ci entro come il formaggio grattugiato sugli “spaghett’eccozz'”. Da lettrice, tuttavia, se dovessi scegliere, sceglierei la traduzione che riesca a riprodurre “la musica”, il ritmo, il metro, la sputata consonantica della lingua originale, lo scaracchio onomatopeico. Ho letto traduzioni che mettevano le corna al testo, che “non suonavano” e che comparate col testo originale, erano proprio brutte. “db” mi ha ricordato la mia prima lezione di medicina legale a quella che gli inglesi chiamano “morgue” (ho letto tanti hard boiled, si capisce no?): il cadavere viene sezionato con cura, il medico legale è quasi autistico nella sua autopsia, deve stare attento a ogni particolare, studiando ogni organo non solo da un punto di vista anatomico ma anche da quello funzionale. E se vuole ispezionare il cervello, deve usare la sega circolare per resecare la teca cranica. Forse il traduttore è un medico legale? visto che qualcuno sostiene che la poesia – almeno in Italia – è morta.
@db
Quel periodo deve averti infastidito parecchio, se lo citi già per la seconda volta (coda di paglia?). In ogni caso, il modo in cui stravolgi le mie frasi per far passare inosservata al moderatore una sottile e gratuita offesa alla mia persona non è solo meschino, ma getta lunghe ombre sulla tua affidabilità di lettore.
Detto questo, la tua versione dei primi tre versi non è male, ma ben al di sotto di quello che mi aspettavo da te, dopo chilometri di commenti e infiniti copia-e-incolla da dizionari ed enciclopedie online.
Anche se il primo verso è ruvido e tende alla prosa, apprezzo “discarica” alla fine del terzo, sdrucciola come l’Achmatova del primo.
“Mucchio” al posto di “pila” mi sembra una scelta più anti-Italiano che pro-Sasha. Infine, accorciare così il secondo verso, il più lungo e sintatticamente complesso dei tre, omettendo completamente “who knows” (l’avessi fatto io mi avresti tirato dietro lo schermo del computer), è scelta alquanto arbitraria.
@italiano
evidentemente la fretta e l’andare a memoria (ho dimenticato anche le iniziali maiuscole dei vv. 2 e 3.). in ogni caso, spero tu lo sappia, il commento non ha né gli onori né gli oneri del post.
A scagionarmi completamente , è la mia prima versione, seppur provvisoria ma studiata testo a fronte, data nel mio commento del 6 ottobre h. 2.04:
Forse aveva ragione l’Achmatova
Quando scrisse chissà che merda,
Che discarica, che ammasso di rifiuti
la mia seconda versione del 10 ottobre h. 18.26, emendata recita:
Forse aveva ragione l’Achmàtova
Qquando scrisse [chissà] che merda
Cche mucchio di rifiuti, che discarica
dici: *“Mucchio” al posto di “pila” mi sembra una scelta più anti-Italiano che pro-Sasha.*
ti sbagli anche qui: nella prima versione avevo messo ammasso, poi nella seconda ho cambiato, e il motivo è palmare (per chi ha orecchio da intendere):
questo mondo duro, oscuro dei rifiuti chiama, e in italiano mirabilmente trova, l’allitterazione della c dura, appunto. lasciando perdere l’aCHmatova del v. 1, nei versi 2-3 della mia prima versione avevamo CHissà CHe merda, CHe disCAriCA, CHe ammasso di rifiuti, e cioè 6 c dure.
nella mia seconda versione abbiamo 7 c dure, perché invece di ammasso ho messo muCCHio (in verità 7, 5 perché CCH vale doppio).
poi dici: *quel periodo deve averti infastidito parecchio, se lo citi già per la seconda volta (coda di paglia?)*
immàginati questa scena. il pubblico ministero cita per la seconda volta una lettera dell’indagato dove costui tradisce la sua colpevolezza; si alza l’avvocato difensore, e fa: “il pm deve avere la coda di paglia se la cita una seconda volta”.
kantianamente, la critica è il tribunale della ragione: chi pubblica il post è nelle vesti dell’indagato, chi commenta è nelle vesti del pm e/o della giuria popolare.
infine: *il modo in cui stravolgi le mie frasi per far passare inosservata al moderatore una sottile e gratuita offesa alla mia persona*
ho riletto il commento mio, e per esclusione ho isolato il punctum dolens cui presumibilmente ti riferisci (se ho sbagliato, corrigime):
(bambinone?)
tra parentesi e interrogativo. treccani dà: *bambinóne, persona grande che ha l’ingenuità e la semplicità d’un bambino*.
nel tuo commento del 8 ottobre h. 13.35 , dicevi che come tutti all’inizio del tuo iter di traduttore *cerca[vi] per prima cosa significato (signatum), lanciando[s]ti spesso in favolose letture ancillari (quale traduttore non consulta con piacere, quasi in deliquio, dizionari ed enciclopedie?) e, quando pensa[vi] di averlo afferrato, [s]ti entusiasma[vi] come un neofita difronte al nuovo dio.*
io ti ho risposto di parlare per te, articolando.
1- non mi ricordo di essere andato mai a farfalle nei bocabolari, forse perché sono troppo vecchio;
2- tu invece, stando almeno ai risultati di questa tua traduzione, farfalleggi ancora, prendendo pànace per penace, pungolo per discarica, e un fascio di erbe matte che hai cannato praticamente tutte. sei insomma ancora in quella fase di deliquio e di stupore da fanciullino, o più prosaicamente da bambinone.
poi, si sa, ci sono bambinoni e bambinoni: quello pacioccone, quello saputello, e, più raro, quello che cerca di menare il can (anzi 3) per l’aia, intanto che la gallina grassa…
Forse una traduzione è orientata anche (soprattutto?) dalle esperienze del traduttore, meglio, dai suoi vissuti, non solo da scelte consapevoli, da bivi filologici o da più generali orientamenti traduttologici? Allora, ho pensato, proviamo a vedere come tradurrebbe una macchina, cioè qualcuno (qualcosa) per definizione privo di “coscienza” di “inconscio” e vediamo cosa restituisce. Qui la versiona ricavabile on line da Google translate:
Forse Akhmatova aveva ragione
Quando scrisse chissà quale merda
Che punta, quale pila di spreco
Porta avanti il versetto tenerezza
Come un hogweed, come la gallina grassa sotto la recinzione
Come l’ora insopportabile presente
Chissà quale male, quale conflitto
Che baracca di una vita
E come si torpida dolcemente del petto rotto:
Pressingness, un’altra parola per il caprifoglio
Ma casalinghe? Ha poesie
Mai approfondito nel secchio
Era mai trovato nel lavandino, sotto il tavolo
Si alzò nel forno, in silenzio
Per uscire dal Hoover?
Preme più della cena dei bambini
L’ansia improvvisa senza sonno?
Ha mai fatto?
Vive. Richiede sementi
Come l’erba più indifesa
Cresce più selvaggiamente quando il bambino cresce
E sputo i sogni, gli ho detto
Come prospera nel nido della famiglia ashen
O come iambs sono misurati meglio
Dove fa male:
Con il tallone di un ferro
Sul seno riluttante
Di una camicia?
@db
Ripeto. Offendere il proprio interlocutore (tanto più quando non lo conosci personalmente) in un dibattito sulla traduzione letteraria è inammissibile. Costruire l’offesa, citando parzialmente e disordinatamente il pensiero di chi vuoi ferire (il periodo successivo a quello da te citato è quello che chiude la riflessione), facendo credere che lì si nasconda il nocciolo della sua esistenza, è semplicemente ignobile.
Tieni alto il livello e limitati al confronto sui testi del post.
(assaggio gratuito, cucina veloce, servire a caldo) // Forse Achmatova aveva ragione / quando scriveva della confusione, / del residuo, della pila di scarto / su cui si sostiene il tenero verso / un panace o farinello inclemente / come l’obbrobrioso tempo presente / chissa’ che malaria, quale conflitto, / quale corso di vita derelitto / e di come s’insinui nei pertugi: // (game over, level saved, insert coin)
@ db
Le chiediamo di moderare i termini (non siamo più alle Medie) e di non estenuare inutilmente il dialogo. Se il suo interlocutore le scrive “ho riconosciuto la superiorità della tua ‘mappa’”, pretendere che scriva “ho cannato, grazie dell’indicazione” è un esercizio che questo sito non le permette.
Tornando nel merito del dibattito, credo che sia significativo che l’Achmatova, nella poesia criptocitata da SD (“Когда б вы знали, из какого сора /Растут стихи, не ведая стыда”) utilizzasse il termine сор che in russo indica la polvere, il pulviscolo, lo sporco domestico invisibile ma pervicace. Cosa sicuramente che non è sfuggita a Sasha, traduttrice dal russo oltre che notevole poetessa, che poi – guarda caso – tira fuori proprio l’Hoover… Al tempo stesso, ancora più significativo è lo slittamento verso un registro molto più crudo (l’inequivocabile shit al posto dell’achmatoviano сор, che merda ha da restare, come osserva giustamente db) che dovrebbe anche condizionare – credo – scelte successive come quelle per tip (sicuramente discarica) e pile (termine molto più generico, sinonimo di heap, su cui davvero ci si può sbizzarrire giocando anche sulle allitterazioni, e forse mucchio potrebbe essere la soluzione migliore).
Forse Achmatova aveva ragione
Quando ha scritto, chissà cosa merda
Qualche consiglio, quello che un mucchio di rifiuti
Dà versi dolci
Come lo stufato, come una gallina grassa sotto un recinto
Come insopportabile momento
Che sa ciò che è male, ciò che una lotta
Che ruvida vita baracca
E come è famosa per la dolce soglia rotta:
Pressing, un’altra parola per caprifoglio.
Ma le casalinghe? La poesia è
Sempre più profonda nel secchio
Se fosse stata mai trovata nel lavandino, sotto il tavolo
Se ne uscì in forno, facile
Da superare Hoover?
Dà più di una cena per bambini
Cenno improvviso improvviso?
È mai?
Vive. Richiede semi
Come l’erbaccia inesorabile come il bambino cresce diventa più selvaggio
E sputò sul sogno, ho detto
Come fiorisce nel nido della famiglia Ashen
O il modo migliore per misurare il giambico
Dove fa male:
Con il ferro tacco
Petto riluttante
Di una camicia?
Già nel 2003 Umberto Eco proponeva l’esercizio delle traduzioni automatiche da più lingue di partenza e arrivo (al tempo lui usava Altavista e non Google Translate) per verificare sensatezze e insensatezze della traduzione automatica. Il testo qui sopra è frutto di un passaggio inglese>russo>italiano.
Quello che poteva essere un dialogo fertile su una traduzione si è via via trasformato, a causa dei toni sbagliati e dell’aggressività di alcuni interlocutori, in uno sterile battibecco che LPLC non intende alimentare. Pertanto chiudiamo qui la discussione. I commenti in sospeso non verranno pubblicati.