di Marco Bollettino
Lo scorso 4 febbraio, il “Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità” ha inviato una lettera aperta al Governo per denunciare le gravi carenze linguistiche degli studenti universitari che, si legge, «scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente». I docenti, continua la lettera, «da tempo denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». È un j’accuse importante, accompagnato da precise indicazioni su come riformare la scuola e la didattica, che ha suscitato notevole eco mediatica e ha stimolato diversi commenti.
Probabilmente l’analisi più interessante è quella di Maria Galatea Vaglio, che dal suo blog sottolinea come i “bei tempi andati” fossero in realtà un’epoca in cui tutte le situazioni problematiche che incontriamo oggi nel nostro sistema scolastico (alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, stranieri o con situazioni familiari complicate) venivano risolte semplicemente espellendo da scuola i soggetti difficili. Ma il compito di noi docenti della scuola dell’obbligo è, come scrive giustamente Vaglio, «andare a recuperare ad uno ad uno quelli che non ce la fanno. Non regalando loro dei voti inutili per far finta che i loro problemi non ci siano, ma seguendoli e tampinandoli per permettere loro di risolverli, quei maledetti problemi, e di imparare davvero». Includere, quindi, non espellere.
Ma torniamo alla lettera. Una delle cose più evidenti del dibattito che ha generato è che nessuno, ma proprio nessuno, se l’è sentita di affermare che la descrizione offerta dal Gruppo di Firenze non corrispondesse alla realtà, forse perché aneddoticamente ne siamo tutti consapevoli. Ho esaminato la lettera in una pausa durante la correzione delle verifiche di matematica. Poco prima avevo corretto degli orrori (non errori, veri e propri orrori) ortografici, segnati e valutati come tali. In questi anni ho imparato che quando si affronta un problema complesso è sempre meglio accompagnare l’analisi “aneddotica” a una, più completa, analisi delle evidenze empiriche. Per farlo, ho esaminato i rapporti che analizzano le competenze di lettura degli adulti e i risultati scolastici degli studenti universitari che frequentano una laurea triennale. Queste sono le considerazioni che ho potuto trarre dai dati.
1. Le competenze di lettura e scrittura sono inversamente correlate con l’età
Se andiamo a consultare il rapporto PIAAC 2014 sulle competenze degli adulti, possiamo notare come quelle di lettura diminuiscano con l’aumentare dell’età. I livelli più alti sono raggiunti dalla categoria 16-25 anni, proprio quella “denunciata” dal Gruppo di Firenze. È molto verosimile, quindi, che non ci sia stata nessuna età dell’oro in cui la scuola insegnava davvero a leggere e scrivere in italiano corretto: probabilmente un tempo erano semplicemente in pochi e molto selezionati a poter proseguire gli studi sino all’università.
Il confronto tra gli Italiani e gli adulti degli altri paesi OCSE ci regala poi una sorpresa: di norma gli Italiani hanno risultati peggiori della media, ma il gap si riduce con il crescere del titolo di studio posseduto, con una, importante, eccezione: la laurea.
Veniamo ora ai risultati degli studenti universitari.
2. Il tasso di abbandono degli studi universitari è in calo e la percentuale dei laureati è in aumento
I grafici sono ripresi dal “Rapporto biennale sullo stato del Sistema Universitario 2016” prodotto dall’ANVUR e li trovate, rispettivamente, a pagina 119 e 122.
I numeri evidenziano un aumento sia dei laureati “regolari” sia dei laureati in generale, mentre si registra, contemporaneamente, una diminuzione degli abbandoni. In pratica gli studenti immatricolati negli ultimi anni si laureano con una percentuale più alta e più velocemente di quelli che li hanno preceduti.
3. Il voto di laurea degli studenti è andato peggiorando nel tempo, anche se si mantiene alto
Nel 2004 la media dei voti d’esame dei laureati era di 26,2 mentre oggi è calata a 25,5. In contemporanea il voto medio di laurea è passato da 102,6 a 99,4.
Il calo, indiscutibilmente, c’è stato. Se lo abbiniamo, però, all’aumento della percentuale di laureati e al crollo degli abbandoni, possiamo però concludere che oggi, a differenza di qualche anno fa, gli studenti che hanno risultati scarsi non interrompono il loro percorso universitario ma lo continuano sino a conseguire la laurea.
4. Gli incentivi contano?
Leggendo la lettera dei 600 professori del Gruppo di Firenze, saremmo portati a pensare che gli studenti universitari di oggi siano in buona parte semianalfabeti che non sono in grado di articolare un pensiero logico o di scrivere un testo in italiano corretto. Le fotografie del sistema universitario proposte da AlmaLaurea e da Anvur, però, ci mostrano una situazione molto diversa, in cui il successo formativo degli studenti è in aumento e gli abbandoni sono in calo. I risultati, è vero, stanno peggiorando nel tempo, ma i voti restano comunque mediamente alti. Chi ha ragione, quindi? È chiaro che queste due narrazioni sono inconciliabili e non possono essere vere entrambe.
I casi sono quindi due: o ci inganna l’esperienza aneddotica, o sono i dati a farlo. Ma possiamo essere “ingannati” dai dati? Sì, se la realtà che fotografano è distorta da incentivi perversi. Quali? Lo spiega Claudio Giunta in un suo articolo per il Sole 24 ore: «le università vengono premiate dal Ministero anche in ragione della rapidità con cui gli studenti concludono i loro studi, cioè arrivano alla tesi: vale a dire che le università sono fortemente motivate a licenziare in fretta i loro studenti, a non avere fuori-corso; e i docenti sono tacitamente invitati ad aderire a questa policy, nel loro stesso interesse.» Ma allora mi sia permessa la provocazione: perché mai gli studenti universitari dovrebbero preoccuparsi di imparare a scrivere in un italiano corretto quando possono tranquillamente conseguire una laurea triennale commettendo sistematicamente errori di ortografia e grammatica? Perché dovrebbero impiegare tempo prezioso per esercitarsi nell’esposizione orale, quando nella maggioranza dei casi riusciranno comunque a superare gli esami con una votazione dignitosa?
Gli incentivi contano e se la laurea perde il suo effetto di segnalazione e diventa meramente un pezzo di carta che tutti devono avere, magari per poi specializzarsi in lustrascarpe, perché perdere tempo a studiare? E infatti lo si perde di meno. Mentre dal 2003 a oggi il numero di “maturi” è rimasto sostanzialmente costante, quello degli immatricolati alle università, nel quinquennio 2009-2014 è stato caratterizzato da un forte trend negativo che solo nell’ultimo anno pare essersi arrestato.
E che fine fanno questi ragazzi? Alcuni, purtroppo, vanno a incrementare il numero dei cosiddetti NEET, cioè i coloro i quali non stanno studiando, non partecipano a corsi di formazione e non hanno un lavoro (dal 21,6% del 2006 al 31,1% del 2015).
Altri lasciano il nostro paese e cercano fortuna altrove, sia a livello lavorativo, sia a livello di formazione universitaria.
Nel solo Regno Unito, il numero di studenti italiani (anche post-laurea) iscritti alle università inglesi è aumentato, dal 2012/2013 al 2013/2014, del 12% (da 10470 a 11685). Nello stesso periodo le nuove matricole sono passate da 4050 a 4850 (+20%) e se facciamo i conti a partire dal 2009/2010 l’aumento è ancora più netto (+45%). E allora mi sento di proporre due considerazioni. La prima è che dobbiamo cambiare il metodo di finanziamento delle università italiane perché quello attuale produce incentivi perversi che vanno a detrimento della qualità delle stesse. La seconda è che nel settore privato, di fatto, il valore legale del titolo di studio è stato abolito: non conta il pezzo di carta, ma dove l’hai preso. Le università di serie A e di serie B già ci sono e, spesso, le nostre giocano nella categoria cadetta. Per una volta lasciamo da parte l’ideologia e affrontiamo seriamente questi due temi, non nell’ottica di punire o premiare qualche ateneo, ma con lo scopo di innalzare la qualità del sistema, di tutto il sistema.
[Immagine: Aula universitaria].
Analisi molto interessante.
L’ampliamento della literacy, specie in un paese come il nostro con una modernizzazione (magari incompiuta, ma evidente) rapidissima e un’alfabetizzazione nella lingua nazionale di dialettofoni altrettanto impetuosa, sta nelle cose stesse. Non c’è quasi bisogno di dimostrarla coi dati. Oggi parlano e scrivono italiano molte più persone, e le coorti più giovani sono madrelingua italiane per la gran parte.
Resta però aperto il problema di come si stiano modificando linguaggio e forme mentali (che servono anche a progettare un testo, a realizzarlo, a rivederlo, ecc..). Ad es. (perdonatemi se cito di seconda mano), qualche tempo fa Valerio Magrelli citava uno studio secondo il quale la velocità di eloquio sarebbe raddoppiata dalla sua generazione a quella successiva. Il parlato quindi sta cambiando, strutturalmente. Visto l’impatto dei mezzi di comunicazione attuali sulla scrittura, sicuramente sta cambiando anche quella, altrettanto in profondità.
Ma su faccende complesse come queste né gli aneddoti né i dati sulla literacy, che sono UN dato, parziale, non ci diranno molto.
Mi piace molto il passaggio che decostruisce i dati sul miglioramenti dei risultati all’università. Diversamente da Bollettino, 9 commentatori su 10, sui giornali, non avrebbero fatto nemmeno lo sforzo di darsi una spiegazione non tautologica (leggo un miglioramento, dunque c’è un miglioramento).
I dati bisogna saperli usare, per fare ipotesi e ragionare. Ma ormai servono soprattutto come strumento di governance, hanno prioritariamente un valore performativo, non ermeneutico. Ci sono i dati, ora agiamo. In quale direzione? Ma quella dei dati, no?!
No, la direzione è una decisione politica. Tanto due dati a supporto di qualsiasi decisione si trovano sempre.
Finalmente :)
Per chi leggerà e saprà raccogliere articolo e commento: “Mentire con le statistiche” di Huff Darrel
Concordo quindi sul fatto che debba essere più chiaro che si tratti di una scelta politica a sorreggere l’intento analitico.
Lancio un ulteriore dubbio: la causa della mancanza di un pensiero critico è da ricercare in quale caratteristica universale dell’uomo, la pigrizia o la paura?
Per tre anni di fila ho tenuto un “corso di recupero di lingua italiana” destinato agli studenti della Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Salerno, studenti con gravi carenze nelle competenze di base…un’esperienza avvilente che ho archiviato volentieri.