di Philippe Muray

[È uscito da poco per Mimesis L’impero del bene di Philippe Muray, a cura di Francesca Lorandini. Pubblichiamo l’introduzione di Lorandini e il capitolo del libro intitolato Cordicopolis].

Cordicopolis

Vorrei mettere alla gogna, su carta, con una parola, una sola, il terrore che sparge questo Impero del Sorriso, litoti su litoti, musichette agoniche appiccicose, invasione lenitiva, positività debordante, euforia. Tutto un dilagare inarrestabile di terapie dolciastre, un massaggio metodico delle anime e dei corpi perché aderiscano perfettamente all’ideologia postrema. La sola ideologia possibile, l’ideologia del naturale, dello star bene, del regolare, dello stuzzicante, dell’avvolgente, dell’invitante, dell’attraente, dell’altamente desiderabile da tutti.
Come sintetizzare questo luminoso degenerare, questa rivoluzione incontestabile che fa sì che tutte le cose piano piano si rimettano a posto, la famiglia, le coppie, la felicità, i diritti dell’uomo, la «cultura adolescenziale» degli hooligans, il business, la fedeltà e la tenerezza, tutti insieme appassionatamente, i padroni, le leggi di mercato ben temperate dalla dittatura della solidarietà, l’esercito, la carità, i figli voluti e rivoluti, i neoliceali che si credono yuppies, l’erotismo piccolo piccolo, la pubblicità cosmica, gli zulù che chiedono solo di essere riconosciuti. Tutti laccati, tutti leccati, lisciati, il Meglio del Meglio si diffonde, l’Eufemismo magnificato nel peggiore dei mondi migliori divenuto spaventosamente possibile. Come esprimerlo, eh?
È complicato. Però io una parolina ce l’avrei per condensare questa babilonia. È una parola esistente ma dimenticata, che vi devo spiegare.
«Cordicolo».
Viviamo in pieno fascismo cordicolo, il nostro è puro asservimento cordicolo.
Ecco, sì, Cordicolo è proprio la parola giusta. Da cor, cordis, cuore. E colo, venerare, onorare.
Termine da me personalmente esumato e resuscitato, proveniente dall’antico vocabolario religioso. Nel Seicento erano detti «Cordicoli» i membri di un’associazione di gesuiti che volevano introdurre in Francia l’adorazione del Cuore di Gesù e la festività del Sacro Cuore.
Si diceva anche «cordiolastri».
Devozione cordicola generale. Siamo in pieno culto del re Cuore. Orgia cordiolastra, cordicolese, cordicofila.
Nodo cordiano.
Naturalmente lo avrete già capito che il Cuore da adorare non è più quello di Gesù. Certo che no: bisogna adorare il Cuore da solo. In sé e per sé. Assoluto. Il cuore «sede di passioni e turbamenti». Organo-simbolo della nostra era, geroglifico che riassume in sé la realtà, l’ombra, la trama, il senso del mondo intero. Totem senza tabù.
Lunga vita e prosperità alle Viscere!
Sia detto dunque Cordicopolis il pianeta in cui viviamo noi occidentali, noi che abbiamo l’immensa fortuna di godere di democrazia e di diritti dell’uomo in tutte le case. A Cordicopolis vivono cittadini di diverse categorie: i cordicolesi, i cordicolastri e i cordicocrati. Volenti o nolenti, siamo tutti, per forza, cordicolesi, come si può essere newyorchesi o albanesi. Cordicocrati, invece, si diventa: serve un po’ di fortuna, gli appoggi giusti e tanta, tanta ambizione. Ma la specie più diffusa è senza dubbio quella dei cordicolastri o cordicofili, cioè l’ampia maggioranza dei servitori anonimi. Tizio Caio Sempronio uniti in preghiera, l’intero genere umano, la comunità degli spettatori creduloni, fiduciosi onniconsumatori, pazienti, digerenti, acclamanti, consenzienti.
Passione. Non c’è parola più ripetuta, più rimasticata, spaventosamente vomitata centomila volte al giorno. Passione. Ogni volta che la sento qualcosa dentro di me muore. Avvicinatevi al televisore, accendete la radio, leggete. Tutti hanno la passione di tutto. Della musica pop, della lettura, delle mostre, delle sfilate di alta moda, dei vernissage, dei concerti, della pubblicità, delle performance, dei personaggi famosi. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione bancaria conosce bene. Gli Arconti della Comunicazione e tutti i collaboratori domestici dello Show passano la vita a cavalcare passioni, saltellano dall’una all’altra, come di sasso in sasso nello stagno assente dell’adrenalina che non scaricheranno mai. No che non la scaricheranno, a meno che non gli si dica che bisogna avere la passione dell’adrenalina scaricata.
Magic Kingdom satanico! In questa enorme casa delle bambole che è Cordicopolis si vuole fabbricare una bandiera della Terra. Niente male. Non sanno più cosa inventarsi. Una bandiera per la Terra! Ecco! Finalmente qualcosa che vi piacerà! Il pianeta è in pericolo! Battiamoci per salvarlo! Siamo tutti cittadini del mondo! Tutti mobilitati! Tutti coinvolti! Non faremo mai abbastanza per la nostra vecchia Madre Sfera! Ma cosa ci potranno mai metter su? E per appenderla a che asta? E con quale emblema? Un cuore? Sì, un cuore, non ci vedrei proprio altro. Un grande cuore fosforescente, un bel cuore matto. Decalcomania di cuore. Oh, sì, me lo immagino benissimo! Orifiamma scintillante che mira diritto al firmamento, conquistando universi, portando lontano, ancora più lontano di tutte le stelle, la testimonianza palpitante della genialità creativa dei cittadini di Cordicopolis. Facendo crepare di invidia, nei dischi volanti interstellari, sui belvedere dell’Infinito, i Puffi di tutte le galassie.
Mi pare che la tirannia cordicola abbia molto convenientemente preso il posto delle vecchie dittature decrepite e delle loro ideologie deturpate. Il Consenso si è liberato dal Comunismo semplicemente realizzandolo. Non è un’ironia della sorte che l’ignobile concetto americano di Politically Correct venga abbreviato PC dai media. La collettivizzazione si è infine compiuta, tra musica e colori. Siamo tutti così comunisti, più comunisti che mai, benché sia ancora troppo difficile da dimostrare. Non certo comunisti chiari e netti, non certo orrendi gulagosi d’antan, non certo GPUisti sanguinari. Coccomunisti, piuttosto. Non sarò certo io, che non ci ho infilato mai neanche un dito, a dispiacermi della penosa fine dei marxisti, sebbene tutta questa storia delirante abbia avuto, va ammesso, dei retroscena non completamente spiacevoli, se non addirittura divertenti. Un crogiuolo di pura esecrazione da cui talvolta fuoriuscirono rancorose nuvolette di vera ostilità nei confronti dei «possidenti», dei «borghesi», dei «ricchi», degli «abbienti». Io però non ho mai fatto parte della «famiglia». Ma alla fine neanche loro ce l’hanno fatta a resistere all’ascesa dei cordicoli. Cordicoli che hanno dimostrato che si possono raggiungere gli stessi scopi solidaristici e gregari, che si può eliminare l’idea di un qualsiasi tipo di proprietà privata (non solo su beni produttivi o di consumo), ma a costi ben più bassi e in completa allegria, senza sconvolgimenti, senza la minaccia del sangue. Il telecollettivismo filantropico è l’erede perfetto e pacifico del dispotismo comunista, tutto un dispiegamento virtuoso di letteratura edificante, con tanto di pastorali alla Aragon e di idilli alla Éluard.
I cervelli sono kolchoz. L’Impero del Bene ha attinto a piene mani da quell’antica utopia: burocrazia, delazione, esaltazione appassionata della giovinezza, smaterializzazione del pensiero, abolizione dello spirito critico, addestramento osceno delle masse, annientamento della Storia a forza di attualizzazioni, appello Kitsch al sentimento contro la ragione, odio del passato, uniformazione degli stili di vita. È successo tutto in fretta, estremamente in fretta. La Milizia delle Immagini ha occupato i territori a suon di sorrisi e anche gli ultimi focolai di resistenza si stanno disperdendo. Sono stati abrogati i capitoli più irrisori del programma delle grandi ideologie collettiviste (la dittatura del proletariato, in primis), ma il cuore del progetto rimane lì, gregario, nessun rischio che scompaia. Il trionfo dell’individualismo è una beffa, è una delle tante amene verità giornalistico-sociologiche di consolazione, quelle che ci sciroppano quotidianamente in un mondo in cui ogni singolarità, ogni particolarità è in via di estinzione. Individuo dove? Individuo quando? In quale angolo recondito del nostro ridicolo globo è finito? Se tutti potessero contemplare da qui, insieme a me, i trecento milioni di bisonti che da un lato all’altro del pianeta stanno per partire per le ferie estive, ci penserebbero due volte prima di parlare. Mettiamo pure che a un certo punto l’individuo sia esistito. Sicuramente però non sta per tornare in voga. Se non contraffatto, naturalmente. Robot guardiano di aree pedonali. Lavoratore dipendente per piste da sci. L’altro giorno esco di casa, sto per scendere i gradini della metropolitana quando leggo un quotidiano che titola: «Ore 20: la Francia si ferma». Bene, mi dico, ci siamo, l’hanno capita finalmente. Mi viene comunque un dubbio, mi avvicino all’edicola perché non si sa mai, magari è uno sciopero generale e va a finire che mi trovo bloccato. Mi avvicino, leggo. E in quel momento capisco che i francesi, non so più per quale partita di calcio, tutti i francesi, dalle otto di sera in poi, dovevano ritrovarsi tutti insieme davanti alla televisione. «La Francia si ferma»? Tutti? Proprio tutti? Davvero? Ne siete sicuri? La Francia intera?
Due giorni dopo, mattina presto, nuova parola d’ordine, questa volta alla radio: «È la giornata mondiale contro il fumo. Cari fumatori, questa è la vostra ultima sigaretta! Basta! Sarete tutti scomunicati! L’OMS ha messo il pianeta intero a regime, dieta senza nicotina».
Ma che cosa diavolo è l’OMS? Che cosa vuole da me l’OMS? Gli ho chiesto qualcosa, io, all’OMS? Mi ha chiesto il permesso, l’OMS, prima di scegliere di che colore debbano essere le mie giornate? Abbiamo firmato un contratto? Ma poi, dove si riunisce l’OMS? Cos’è? Una setta? Un consorzio? Un sindacato? L’Onnipotente Sindacato contro il Male? Un movimento anonimo mondiale? Il vero nome del Grande Fratello? Quel Grande Fratello che da qualche parte del Novecento ognuno è sicuro di aver visto apparire, manifestarsi. Più vero che mai, gigantesco, feroce. E se anche lui fosse cambiato? Se anche il Grande Fratello fosse diventato carino, simpatico, conviviale, rassicurante? Un filantropo pieno di offerte irrefutabili e carico di progetti irreprensibili? Più collettivista di un tempo, ora si comporta bene, in modo retto e adeguato, buono e giusto.

Oltraggio al mondo

di Francesca Lorandini

A Philippe Muray interessavano solo i romanzi e la critica letteraria ad azione immunologica, cioè quei libri che esorcizzassero lo spirito del loro tempo. Credeva che solo i veri scrittori sapessero raccontare il delirio del mondo, individuarne le cause e persino, talvolta, proporre un trattamento. Dagli anni sessanta del secolo scorso al 2006 l’ha sempre pensata così, cercando di diventare anche lui un vero scrittore, per trovare la forma che meglio si adattasse alla follia del nostro tempo.
Chi erano i suoi modelli?
Baudelaire, Bernanos, Flaubert, Céline, Rabelais, Marcel Aymé, Rubens, Balzac, Léon Bloy, Molière, Soutine, Nietzsche, Sade, Houdini, Pierre Desproges, Orwell. E con loro tanti altri maestri del sospetto e dell’irrisione: romanzieri, saggisti, pittori, attori che hanno svelato la grande mascherata del mondo in cui vivevano. Artisti della parola, dell’immagine e dell’azione che sono sfuggiti alla massa e si sono imposti come individui. Come Louis Jouvet, l’attore innaturale per eccellenza, capace, diceva Muray, di trasformare qualsiasi ruolo in un rito, il solo in grado di impartire al cinema le sue lezioni di teatro. [1] Illusionisti del pensiero che hanno raccontato, come Flannery O’Connor, il moderno vaudeville del Gran Bordello Generale. [2] Intellettuali illuminati, come René Girard, che ci ha mostrato il trionfo dell’imitazione di massa, a noi così convinti e fieri della nostra autonomia. [3] Maestri di realismo, tutti, se per realismo si intende la capacità di usare l’arte per raccontare cosa fanno gli uomini qui e ora, cosa li distingue radicalmente dai loro padri e cosa li condanna a ripetere sempre e comunque gli errori degli stessi padri da cui si vogliono distinguere.
Nella prefazione alla prima edizione degli Impiegati, Balzac indicava la descrizione dei disastri prodotti dai cambiamenti dei costumi come l’unico compito dei libri. [4] Muray non ha mai smesso di rifarsi a questa massima per spiegare l’ambizione principale del suo lavoro, e diceva che la sua vita era un omaggio a Balzac. [5] Una vita passata letteralmente a scrivere, cercando di convogliare la critica letteraria, la storia delle idee, la critica d’arte, il romanzo, il saggio, il pamphlet, il diario verso lo stesso obiettivo. Muray aveva fatto voto di disprezzo radicale dicendosi in perfetto disaccordo con i suoi contemporanei per non cedere alle malie di un tempo seducente e incantatorio, e ha utilizzato tutti gli strumenti offerti dalla tradizione per «trasformare le condizioni attuali di esistenza in oggetti letterari». [6] Sulla scorta di Charles Péguy che aveva visto nelle condizioni di vita del mondo moderno qualcosa di totalmente nuovo, anche lui voleva parlare del sans-précédent, cioè di ciò che fa sì che la nostra epoca sia diversa da tutte le altre. Nella manciata di anni che separano la caduta del muro di Berlino dall’apertura di Disneyland Paris ha trovato la petite musique  con cui denigrare il nuovo scenario umano e sociale, la giusta ferocia per screditare il nuovo Vangelo comunitario.
Come Balzac, era divorato dalla smania della scrittura. Oltre ai libri pubblicati in vita, c’è tutto un materiale sommerso di articoli e di romanzi de gare scritti sotto pseudonimo e un diario redatto dal 1978 al 2006 per una pubblicazione postuma. Ci sono i primi libri degli anni sessanta e settanta che a un certo punto decise di estromettere dalla sua bibliografia ufficiale. C’è la critica letteraria: L’Opium des lettres, saggio del 1979 in cui Muray affronta con una prosa ancora oscura quel conflitto tra individuo e massa che caratterizzerà sempre il suo modo di vedere il mondo; Céline, del 1981, contro chi vorrebbe far credere che esistano due Céline (uno «impeccabile, insaponato, igienico» e un altro «sordido, conta- minato, definitivamente sotterrato nelle cloache della storia»[7]); e una messe di articoli poi raccolti nei quattro volumi degli Exorcismes spirituels. C’è il monumentale XIXe siècle à travers les âges, che presenta un’interpretazione molto originale del pensiero ottocentesco, attraverso cui leggere la storia a venire. C’è la particolare forma di critica d’arte magnificatoria di La Gloire de Rubens, in cui Muray vede l’opera pittorica di Rubens come un schiaffo alla miseria artistica di oggi. Ci sono i romanzi Posterité e On ferme, ci sono i racconti di Roues carrées. C’è una personalissima psicopatologia della vita quotidiana, progetto nato con L’Empire du Bien e sistematizzato negli articoli scritti alla fine degli anni novanta per «La Revue des Deux Mondes», poi raccolti nei due volumi di Après l’Histoire. Ci sono le interviste, quelle uscite in volume e quelle generosamente accordate a destra e a manca, ci sono le lettere aperte (Chers djihadistes…), le liriche antiliriche (Minimum respect), decine e decine di articoli di critica di costume.
Un’opera organica, in cui vita e scrittura si intrecciano senza soluzione di continuità, di un intellettuale ossessionato dalla desertificazione erotica dell’Occidente in deficit di virilità, in cui la marcia trionfale del matriarcato nascente starebbe neutralizzando ogni differenza. Nel cuore di quest’opera c’è un’intuizione sviluppata agli inizi degli anni ottanta, quando Muray si trova negli Stati Uniti, a Stanford, e osserva lo stile della vita che sta prendendo forma agli albori del nuovo millennio. Ha davanti agli occhi qualcosa di nuovo: igienismo, femminismo, edonismo, centri commerciali, misticismo, agglomerati associazionistici persecutori, perversioni burocratiche e procedurali.

Qualcosa di strano e terribile, che non aveva ancora nome, si stava rivelando. In un paese che non badava né alla dialettica né ai ricordi, per il bene dell’umanità si compiva la temibile unione dell’ottimismo progressista e degli spiritualismi più sfrenati. Dietro ai volti ostinatamente sorridenti che si vedevano in giro incombeva la minaccia. Una specie di religione stava venendo alla luce sotto gli auspici dell’Armonia, irrefutabile più delle religioni antiche e provvista delle risorse definitive, quelle per farsi accettare ovunque. Niente di ciò che avevo davanti agli occhi esisteva ancora altrove. Nemmeno in Francia, sebbene Mitterrand, appena eletto, avesse preannunciato la natura socialnecrofila del suo regno precipitandosi al Pantheon, per farvisi iniziare dai morti illustri, aspirando vampirescamente la loro memoria. [8]

A Stanford, Muray comincia a chiedersi perché ogni progetto sociale progressista sia accompagnato da una forma di misticismo espresso da formule, slogan, pacchetti pronti di soluzioni a tutti i problemi. Nel 1984 esce Le XIXe siècle à travers les âges, che prova a dare una risposta a questa domanda. Muray vede nell’Ottocento (un Ottocento che va dalla Restaurazione alla Prima guerra mondiale) la matrice del sincretismo della cultura contemporanea, fondata sull’illusione ottimistica che esista tra gli uomini una solidarietà naturale e felice. Avanza la tesi per cui socialismo e occultismo sarebbero consustanziali e propone un termine per identificarne la fusione: ocsoc. Lo slancio comunitario, partecipativo, laico e utopico del socialismo sarebbe incomprensibile senza la passione ottocentesca per l’occulto e per tutti i fenomeni para- normali annessi (evocazione dei morti, divinazione, teosofia, negromanzia, metempsicosi, zombi, vampiri). Occultismo e socialismo sono due aspetti di una stessa visione del mondo: medicale, positivista, perfezionista. Vogliono entrambi guarire il mondo, lo vogliono uniformare in base allo stesso ideale morale, lo vogliono purificare. Come a dire che l’irrazionalismo e l’occultismo alla base del socialismo rivelano l’ambiguità e l’ipocrisia del pensiero progressista. Muray fa il suo ritratto dell’uomo ottocentesco (che chiama homo dixneuvièmis): un misto di fanatismo e superstizione, di erudizione e bizzarria, di delirio ed euforia, di finalismo e universalismo, di progressismo e magia. Il duca di Saint-Simon, con il Nuovo Cristianesimo, e Auguste Comte, con la Religione dell’Umanità, sono le due personalità chiave del secolo. Ma anche Victor Hugo con le sue sedute spiritiche, Zola con i suoi Vangeli e Georges Sand con la sua fede gioachimita-socialista. In letteratura c’è però anche chi ha preso in contropiede il delirio di homo dixneuvièmis: Baudelaire, Balzac, Flaubert, Claudel. E Muray si ispira a loro per descrivere la forma assunta dall’ocsoc nel suo tempo.
Nell’Empire du Bien Muray parla del grande miraggio che acceca i suoi contemporanei: la convinzione di aver sradicato il Male dalla società. L’ocsoc indossa vesti nuove ma rimane sempre uguale a se stesso: moralizzazione dilagante, terrorismo della Virtù, fede «intermittente» nel progresso, bailamme di credo irrazionali (astrologia, new age), litania dei diritti dell’uomo. [9] Il Male non si elimina, dice Muray, e credere di averlo espulso significa demonizzare le contraddizioni, il disaccordo, l’antagonismo, le sfumature. Credere di aver eliminato il Male significa sopprimere la realtà e creare un mondo di simulacri e di finzioni. Oggi viviamo in un immenso parco giochi, in un centro wellness sconfinato, in un impero del sorriso gestito da animatori socioculturali di ogni tipo, in un mondo che inscena quotidianamente la propria rappresentazione. Il terrorismo del Bene ha decretato la fine di ogni discussione: ripetiamo tutti le stesse parole, abbiamo gli stessi problemi, ci piacciono o non ci piacciono le stesse cose. La nostra neolingua è un linguaggio binario. La critica stessa è impensabile in una società che si crede buona e giusta e che pur dichiarandosi laica e secolarizzata ha una fede inamovibile nella propria idea di progresso. Un mondo di festival e di giubilei che rappresenta il vero compimento della società democratica, proprio come lo aveva predetto Tocqueville, quando parlava dei rischi di un’uguaglianza senza libertà.
La kermesse delle cause buone e giuste è un bluff, carità illusoria confezionata da impostori che spingono a un’indifferenziazione che cancella le singolarità, che impedisce all’uomo di essere un individuo. La realtà non è più reale, ogni slancio personale si spegne in un desiderio generalizzato di fusione. Muray non salva niente: hobby, bricolage, turismo, week-end enogastronomici, culto dell’infanzia, lotta per l’uguaglianza trasformata in imperativo paranoico, rivendicazioni di giustizia che diventano sistemi persecutori, richieste ossessive di protezione, moralismi, libertarismi, sigarette light, birra senza alcool, cibo senza grassi, hitlerizzazione dell’avversario, giustizia nella bocca di tutti, puerilismo, demenza maniaco-legislativa e tutte le lotte e le guerre che una società deve vincere (razzismo, sessismo, omofobia). L’Impero del Bene non ha confini.
Che qualcosa fosse mutato nell’uomo del dopoguerra, già ce lo aveva detto Pasolini. La società dei consumi era la manifestazione evidente di un cambiamento che ci toccava nel profondo, nel nostro modo di vivere la comunità, la famiglia, il pudore, l’intimità. La democratizzazione della cultura si stava dimostrando un’omologazione al ribasso. Pasolini la chiamava borghesizzazione americanizzante e negli Scritti corsari ne fa la cronaca drammatica e risentita. L’analisi di Muray è perfettamente in linea con quella di Pasolini, ma i toni e la strategia retorica sono radicalmente diversi. Lo stravolgimento prodotto dal cambiamento di paradigma deforma la lingua, la mutazione antropologica dilata la percezione degli eventi, il fascismo degli antifascisti diventa una visione del mondo. Muray non denuncia, non grida allo scandalo, non invita il lettore a ragionare o a essere un cittadino responsabile. Muray imita, scimmiotta, ride. E così L’Empire du Bien non è solo un pamphlet, ma è il pamphlet dei pamphlets di Muray. Non è un elogio della chiarezza e della franchezza del pamphlet in generale, come aveva fatto Paul-Louis Courier, ma la difesa della scrittura pamphlettistica come scelta di vita: un modo personale, senza ambagi e pieno di veleno, di guardare il mondo e cercare con ogni singolo libro il meccanismo più adeguato per «riassumere, abbracciare, sintetizzare, condensare gli elementi sparsi del teatro della realtà».[10]
Dal 1998 al 2000 Muray tiene un rubrica sulla «Revue des Deux Mondes» in cui imbastisce una teoria generale dell’era in cui il Bene ha abbattuto ogni frontiera. Vi tratta di una realtà irreale, eternamente post-storica, caratterizzata da un incremento esponenziale di feste. Niente è più vissuto, tutto si dissolve in un’immensa mascherata festosa. Il festivo locale di una volta (il carnevale medievale) e il festivo domestico (la televisione) sono stati assorbiti dal festivo assoluto, o iperfestivo: Gay Pride, Festa della Musica, Festa della Poesia, Primavera dei Poeti, Notte bianca, Love Parade, Techno Parade, Giubileo, Papa Boys.
Muray mostra come l’iperfestivo abbia rimodellato l’essere umano eliminando dentro e fuori di lui tutto quello che resta del principio di contraddizione. Riprende dalla stampa i faits divers, le commemorazioni, le interviste, i sondaggi, i tic linguistici, i cliché, tutto, perché, scrive, «niente è inoffensivo, trascurabile, casuale».[11] Inventa homo festivus (ecumenico e spirituale come il suo antenato homo dixneuvièmis), metà concetto e metà personaggio romanzesco, e ne racconta le avventure in una Parigi smart e pulitissima, trasformata da Babilonia in Babyland. [12] Homo festivus è impeccabile, è radioso, è lapalissiano, è tauto- logico. I suoi roller pattinano su tutte le difficoltà. La città è fatta su misura per lui: Parigi è il suo living. Benché la sua vita sia un capolavoro, non dimentica che il Male è sempre in agguato. Perciò combatte, manifesta, protesta contro le diseguaglianze. E lo fa con una determinazione piena di leggerezza, con una fermezza spensierata, con accoratissima neutralità. Homo festivus è sovversivo, ribelle. Turba, disturba, insorge. Dice NO all’odio, alla violenza e alle discriminazioni. Dice SÍ ai sogni, alla libertà, alla vita. È ibrido, liquido, metamorfico, metasessuale, garantista, plurale, transreligioso. Non fa sconti ed è affetto da sindrome maniaco-repressiva. Desidera ardentemente nuove leggi e non sa resistere al richiamo del diritto penale. Homo festivus danza, ama, abbraccia, dileggia, dissacra, lincia. L’ossimoro è il suo stile di vita, l’ermafrodito la sua lingua. [13] Homo festivus trabocca di sentimenti potenti e quando scrive, scrive poesia.

***

In una delle sue lettere, Arthur Rimbaud parla di un tempo in cui la poesia non ritmerà più l’azione, ma sarà en avant, cioè la precederà. Il poeta allora non sarà più un parassita della società, ma potrà farsi carico del regno umano e animale attraverso un linguaggio universale. Sarà così in grado di scrivere poesie desti- nate a restare, perché la sua enormità sarà divenuta norma.
Per Philippe Muray la profezia di Rimbaud si è finalmente realizzata: è l’incubo da cui non ci risveglieremo più.


[1] Philippe Muray, «Éternité de Louis Jouvet» [1995], in Essais, Les Belles Lettres, Paris 2010, pp. 1370-1372.
[2] Philippe Muray, «Flannery O’Connor ou la Fureur et la Grâce» [1985], in
Essais, cit., p. 922.
[4] Philippe Muray, «René Girard et la nouvelle comédie des méprises» [1998], in Essais, 1180.
[5] «Indiquer les désastres produits par le changement des mœurs est la seule mission des livres» (Honoré de Balzac, Les Employés, «Préface de la première édition» [1838], Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1977, 885.
[6] Philippe Muray, «La Transgression mise à la portée des caniches» [2003], in Essais, cit., 1674.
[7] Philippe Muray, «C’est le sans-précédent qu’il faut écrire» [2004], in Essais, cit., 1679.
[8] Philippe Muray,   «Avertissement»,   Le XIXe   siècle   à   traves les âges, Gallimard, «Tel», Paris 1999, p. I.
[9]   Philippe Muray, «C’est le sans-précédent qu’il faut écrire», cit., p. 1676.
[10] Philippe Muray, «Suis-je donc un monstre ? (Flaubert)» [1988], in Essais, cit., 572.
[11] Philippe Muray, «Avant-propos»[2000], Après l’histoire II, in Essais, , p. 249.
[12] Philippe Muray, «De Babylone à Babyland» [1999], in Essais, cit., 397-403.
[13]    Philippe Muray, «Du festivisme comme langage et comme idéologie» [1999], in Essais, cit., pp. 101-106.

 

[Immagine: Philippe Muray]

6 thoughts on “L’impero del bene

  1. « Siamo tutti così comunisti, più comunisti che mai, benché sia ancora troppo difficile da dimostrare»? Dai, non scherziamo! “Il Consenso [non] si è liberato dal Comunismo semplicemente realizzandolo”. Questo lo può sostenere soltanto uno che vede la storia alla luce di uno scontro mitico tra Bene e Male e ha tra i suoi modelli «Baudelaire, Bernanos, Flaubert, Céline, Rabelais, Marcel Aymé, Rubens, Balzac, Léon Bloy, Molière, Soutine, Nietzsche, Sade, Houdini, Pierre Desproges, Orwell» (come sostiene Lorandini nell’introduzione) ma non conosce Marx e neppure la storia del comunismo o dei comunismi. Gli è facile così prendere per il culo i “coccocomunisti”. E, secondo me, conferma, standosene in un’altra sponda, quel che diceva Fortini; che solo ” la lotta per il comunismo è il comunismo” (Fortini). Tutto il resto contribuisce solo ad onorare un feticcio: l'”impero del Bene”.

  2. A parte i deliri sul dominio della passione (che la nostra società rifiuta persino come parola) e del comunismo(forse è morto troppo presto), le opere di Murray possono essere un buon antidoto da prendere ogni tanto per purificarsi da scrittori malamente engagé. In fondo si tratta di un analisi del politically correct come dittatura culturale.

  3. 1) Non conosco Muray, ma mi vien da dire che a non salvare niente e nessuno è buono chiunque 2) Che ci fa Claudel in quell’elenco di scrittori dell’Ottocento riportato nell’introduzione?

  4. per quanto il piglio sia interessante un paio di frasi stridono su tutto il resto
    “la fine di ogni discussione” lo può dire solo chi non ha vissuto l’epoca dei social network
    e anche quel “siamo tutti comunisti” si capisce che è stata scritta prima della crisi del 2008

  5. https://www.alfabeta2.it/2016/11/16/interferences-3-muray-dissacratore/

    Una lettura di “Cari jihadisti”, sempre di Muray, uscito in Francia un anno dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York e disponibile ora in Italia per Miraggi edizioni nella collana Tamizdat diretta da Francesco Forlani e Alessandro De Vito.

    Non è un pensatore di sinistra, ma è un buon contravveleno a varie cose idiote e detestabili, che anche una certa cultura di sinistra ha abbracciato.

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