di Claudio Giunta

Nelle biblioteche e negli archivi italiani è successa una cosa importante, forse la più importante di cui io sia stato testimone nel mio quarto di secolo di studio e insegnamento. Fino a ieri, se entravate in una biblioteca o in un archivio e avevate bisogno di fare delle fotografie di libri, riviste o manoscritti, dovevate compilare un modulo, aspettare ore o giorni, pagare anche piuttosto salate queste riproduzioni (in certe biblioteche la tariffa arrivava a 2 euro a scatto). Da quando ci sono gli smartphone e gli ipad qualcuno fotografava di straforo, nascondendosi negli angoli, nei vani delle porte, persino nei bagni. Tutto abbastanza umiliante. Fino a ieri. Dal 29 agosto, le foto si possono fare autonomamente e gratis, dichiarando preventivamente che si rispetteranno le norme del diritto d’autore (per evitare che ci si metta a fotografare per intero un romanzo ancora in commercio). E si potranno anche condividere queste foto in rete, purché non lo si faccia a fini di lucro. È una splendida notizia, soprattutto per chi lavora sui manoscritti, e soprattutto per chi vive lontano dalle grandi biblioteche di studio, e non può andarci con la frequenza che vorrebbe. Il merito di tutto questo è del Movimento «Fotografie libere per i Beni Culturali», che da qualche anno lavora in vista di questa liberalizzazione, sensibilizzando gli studiosi, raccogliendo firme, facendosi sentire; ed è anche degli esperti del Mibact, che hanno dato retta, intelligentemente, alle buone ragioni del Movimento. In biblioteca, in questi giorni, l’entusiasmo per la novità, per la comodità, era venato da un filo d’angoscia: se uno può fotografare i libri e portarseli a casa, alla fine le biblioteche non resteranno deserte? Domanda legittima. Ma la buona risposta non consiste nell’ostacolare l’uso della tecnologia (anche perché è inutile: in rete si trova ormai buona parte dei testi di cui uno studioso ha bisogno) bensì nel ripensare il ruolo e la forma delle biblioteche, il modo in cui ci si vive. Se il Movimento che ha vinto la battaglia per la libertà delle riproduzioni è in cerca di una nuova causa, questa è senz’altro quella buona.

 

4 thoughts on “Andate, riproducete

  1. “ Sabato 9 febbraio 2002 – Poi la ragazza carina, ma carina non significa niente – aveva un’aria così, non so se sia il caso di dire « ridente e fuggitiva », direi più fuggitiva che ridente, e forse nemmeno, era anche peggio, forse, era un’altra cosa, comunque si chiamava Olimpia – mi ha chiesto l’autorizzazione a fotocopiare un libro intitolato, ho letto, Disneyland come non-luogo. E io, che, anche se non amo Disneyland, non voglio far perdere tempo a nessuno, gliel’ho data. “.

  2. ottima segnalazione, che mi fa pensare a come talvolta la storia con la esse maiuscola si muova grazie a fatterelli minuscoli, e solo (paradossalmente) grazie ad essi. in questo senso il post mi ha fatto venire in mente un altro fatterello ben delucidato da lev sestov in “che cos’è il bolscevismo?” (morcelliana 2017):

    Durante i primi anni di guerra nella nostra patria la distanza che separava la parte più povera della popolazione dalle classi abbienti era notevolmente scemata. Nel 1915 e soprattutto nel 1916 mi è occorso di viaggiare attraverso la Russia e di vivere a lungo in campagna, e sono stato colpito dai cambiamenti che si erano prodotti in un periodo così breve. Il mužik [1] affamato, tremante di paura, quale l’avevano dipinto i nostri scrittori e quale era ancora in effetti nel 1914, era scomparso. Un tempo, per qualche rublo che bisognava pagare d’imposte allo starosta [2], il mužik si consegnava legato mani e piedi agli sfruttatori. Adesso non c’era più bisogno di denaro. Non si poteva comperare da lui né uova, né burro, né polli, a meno di pagarli carissimi. Se gli chiedevi: “Perché non vendi?”, rispondeva seccato: “Mangiamo pure noi, poi ci sono i bambini”. Era anche comprensibile. Dopo l’inizio della guerra il denaro aveva iniziato ad affluire da ovunque nelle campagne, poiché tutto ciò di cui c’era bisogno al fronte lo si prendeva lì. Poi giunse il divieto di bere vodka [3]. I mužiki per la vodka portavano al tesoro un miliardo di rubli all’anno. E in più l’alcolismo arrecava alle campagne un danno doppio, poiché il mužik russo, quando voleva vodka e non aveva soldi, dava via tutto quanto a un prezzo insignificante. E così tutti questi miliardi rimasero nelle tasche del mužik, e in un battibaleno egli si liberò della spaventosa dipendenza dal kulak [4], cui prima soggiaceva per mancanza di denaro. Ricordo a tale proposito una curiosa conversazione che ebbi col cocchiere del proprietario terriero da cui stavo nel 1916: “Ah, barin [5], che disastro, col mužik non c’è più modo d’intendersi. Se hai bisogno di qualcosa, dice subito: dammi cinque rubli, dammene dieci. Tremendo! Era tutto diverso prima: bastava dargli un secchio [6], ci si arrangiava sempre!”. Si è soppresso il “secchio”, e il mužik s’è emancipato. Nessuna rivoluzione sociale avrebbe potuto portare al mužik russo ciò che gli ha dato l’abolizione del monopolio. In altri termini, per una via del tutto particolare in Russia si erano poste le premesse per una rivoluzione enorme, politica e sociale, ma quanto è avvenuto nella realtà, a seguito della presa di potere da parte dei teorici della rivoluzione, ha deciso altrimenti il destino del nostro Paese…

    1. Contadino povero.
    2. Capo di un’amministrazione locale abilitato a riscuotere imposte.
    3. Nel 1915 lo zar Nicola II proibì il consumo di tutti gli alcolici, dal quale in gran parte dipendevano gli esiti catastrofici della guerra in corso.
    4. Contadino agiato, che utilizzava braccianti.
    5. “Signore” (da bojàrin, boiaro), appellativo del latifondista nella Russia zarista.
    6. Fino al 1885 la vodka si vendeva a secchi, unità di misura equivalente a 12,3 l.

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